FASCICOLO V - GENNAIO 1926
ROBERTO PAPINI: Le Arti Decorative a Parigi nel 1925: I - L'Architettura, con 37 illustrazioni
LE ARTI A PARIGI NEL 1925

Primo: L’ARCHITETTURA


L’Esposizione Internazionale delle Arti decorative ed industriali moderne - titolo altrettanto lungo quanto ufficiale - s’è chiusa ormai a Parigi. Vogliamo tirare le somme e farne il bilancio?
So di scrivere per architetti ed artisti su questa rivista e quindi sono sicuro d’esser compreso in pochissime parole. Prego quindi il lettore di non stupirsi del mio scrivere succinto per amore di chiarezza e di brevità.
Innanzi tutto l’architettura, principessa delle arti. In architettura a Parigi nessuna novità stupefacente. Chi ha seguito le tendenze architettoniche internazionali in questi ultimi cinquant’anni conosce il processo di semplificazione e quindi di evoluzione. Le moderne teorie di richiamo deciso alla tecnica costruttiva, anzi di subordinazione dell’arte a quella tecnica sono giunte al loro stadio acuto, che è spesso d’intransigenza. Gli architetti francesi sono stati particolarmente attratti dal fascino di quelle teorie eccessive ed oggi se ne vedono i frutti. Son frutti acerbi, sgradevoli al palato. Perchè?
Prima di tutto una è la teoria, altra è la pratica, specialmente in arte. Si fa presto a dire: tutto struttivo, essenziale, disardorno. Ma sfruttano i moderni architetti ogni possibilità della tecnica muraria nuova? Prendiamo il cemento armato: esso si presta ad ogni linea, ad ogni arditezza; è essenzialmente plastico, rappresenta in arte muraria rispetto alle vecchie tecniche ciò che è la ghisa rispetto all’acciaio. Si può colare nelle forme, si modella come si vuole. Donde dovrebbe venire un’architettura agile, mossa, fondamentalmente plastica, a struttura evidente, a scheletro trasparente sotto la pelle.
Invece ci troviamo di fronte al più rigido e intransigente linearismo. Sono banditi l’arco, la volta, la cupola, le superfici curve, le colonne, le sporgenze ardite, le masse sospese, gli slanci delle volte. In loro vece cubi, prismi, piramidi tronche. Cioè del cemento armato si utilizza soltanto la gabbia, che è l’ABC della nuova tecnica; non si sfrutta che una piccola parte delle nuove forme possibili.
Ma questa gabbia, principio-base delle nuove costruzioni, è almeno visibile? Neppure per sogno. L’amore del muro liscio, della superficie netta, precisa, riquadrata, porta alla pura stereometria dell’architettura; tutto appare pieno, massiccio, peso. Invece degli slanci gotici che la teoria pareva prevedere abbiamo come risultato la gravezza soda degli egizi e degli assiri. Valeva la pena di vantare tanta modernità per risalire, viceversa, alle origini?
Qualcuno è vero tenta pilastri esili, architravi sottili, membrature insolite, proporzioni inusitate. Ma tutto ciò non esce finora dagli schemi delle strutture ed intelaiature in legno od in ferro. Se raggiungono un senso estetico, questo non è diverso dal fascino che producono i ponti d’un cantiere di costruzioni o le ossature d’una stazione ferroviaria, vecchie architetture essenziali. Ma il ritmo nuovo del nuovo materiale dov’è?
Sporadici esempi più qua e più là di quel che possono essere le forme moderne si trovano; ma non nell’esposizione di Parigi, neppure nel teatro di A. e G. Perret in cui l’ingegnosità, il preconcetto han preso la mano all’equilibrio/estetico. Le forme veramente moderne che il cemento armato può suggerire sono note ai lettori di questa rivista che han visto riprodotte alcune chiese, officine, hangars di Francia, d’Olanda, d’America.
Si fa oggi un ragionamento capzioso. Si dice: l’automobile, la locomotiva, l’aeroplano han finito per trovare la loro forma estetica via via che si sono perfezionati, eliminando il superfluo e l’inadatto. È la vecchia teoria estetica del “rispondente allo scopo” che torna in onore; ed è teoricamente giusta, sebbene l’adattamento al fine non sia mai il solo elemento decisivo. Ma una casa, un edificio non sono macchine tendenti con tutti i loro organi ad un unico scopo, il quale suggerisca col suo imperio assoluto le forme calcolate d’una estetica consequenziale. Locomotive ed aeroplani son d’oggi: le case son sempre esistite ed hanno un loro schema formale consacrato da secoli (quelle modernissime a gradoni esistevano a Babilonia); le chiese debbono rispondere a bisogni e temi antichissimi, e così via di seguito. Forme nuove si possono trovare per temi moderni come l’hangar e il grattacielo; infatti, in questi, la loro particolare estetica va affermandosi nettamente. Ma non si può pretendere che sulla base di queste eccezioni si formi un nuovo stile architettonico valevole per ogni altro genere d’edificio.
In realtà, con la scusa del razionale puro si nascondono troppo spesso povertà di fantasia (come l’usare soltanto cubi e prismi), scarsezza d’ardire (come il contentarsi di illogiche bizzarie), pigrizia di ricerca (come lo sfruttare soltanto una piccola parte delle possibilità nuove della tecnica costruttiva).
La povertà di fantasia diviene addirittura miseria quando si passa nel campo architettonico ornamentale. Allora, quale scusante, s’inventa la comoda teoria che ogni ornamento è barbarie; come se un triglifo su una trabeazione dorica o un fiorone su una cuspide gotica fossero barbarie, altrettanto quanto una collana di penne al collo d’un nero. Paradossi e non altro.
Ora, nelle nuove forme architettonico-struttive, nulla sostituisce il capitello, la base, la cornice, ornamenti delle antiche. Non è semplicità: è semplicismo.

Intendiamoci: queste son critiche fatte ad alcune fra le più spinte tendenze manifestate a Parigi quest’anno, specialmente dai francesi che erano a casa loro ed hanno sfoggiato. Anche gli olandesi, i cecoslovacchi, i danesi non hanno voluto nei loro padiglioni esser da meno. Ma se qualche ingenuo pensasse che con simili critiche si possa negare il cammino sicuro che, verso una nuova estetica, fa da trent’anni l’architettura, lo avverto che sbaglia di grosso.
Dell’architettura balorda, falsa, scolastica dell’Ottocento non si dirà mai male abbastanza. Le scarse attenuanti non addolciscono la spietata condanna. L’inizio della reazione fu in Austria; si sviluppò in Germania; perciò chiunque faccia o tenti di fare del nuovo ha oggi la taccia di tedesco. Sarebbe ora di finirla. L’esposizione di Parigi dimostra luminosamente, anche con gli errori, a tutti gli increduli Diogene col lanternino alla ricerca d’uno stile, che lo stile moderno c’è e non è più tedesco ma europeo; e chi non lo vede è cieco.
L’architettura moderna europea ha questi essenziali caratteri: tendenza al razionale, ricerca dell’evidenza struttiva, libero movimento di masse, emancipazione dai canoni accademici, aderenza agli schemi stereometrici puri, indipendenza dalle proporzioni convenzionali, parsimonia massima di adornamenti. Una rivoluzione altrettanto radicale non s’era compiuta in arte dalla rivoluzione gotica del Dugento in poi. Se qualcuno chiude gli occhi di fronte all’imponenza del fenomeno peggio per lui.
Che si sia giunti a risultati definitivi è un’altra questione. Anzi, a pensarci bene, non siamo andati molto più innanzi del punto a cui erano giunti austriaci e tedeschi quattro o cinque lustri or sono. In vari casi si fa oggi male ciò che quei precursori avevan fatto bene. Ma anche chi brancola procede perchè la via è giusta, la direzione è stabilita. È sicuro che ai pasticci dell’Ottocento non si torna. E questo è già moltissimo.
Siamo dunque in piena elaborazione d’uno stile già chiaramente delineato; siamo nell’epoca arcaica dei tempi nuovi, con tutte le inesperienze, con tutte le goffaggini, ma anche con tutto il fermento e la linfa vitale degli arcaici.
Per giusto desiderio di semplificare siamo arrivati a scheletrire. Ridotta l’architettura a pura costruzione non si è ancora trovato in tutto ciò quello che si cerca, vale a dire il nuovo ritmo architettonico. I greci hanno un ritmo, i romani ne hanno un altro, i gotici un altro ancora, i barocchi un quarto; noi stiamo cercando tuttora il nostro che appare a sprazzi, nelle invenzioni più felici, quelle in cui proporzioni fra vuoti e pieni, rapporti fra alto e largo, equilibri fra pesi e sostegni sono assolutamente insoliti ed antitradizionali. E’ in quegli esempi che bisogna cercare le spinte per gli ulteriori sviluppi.
Una riprova tipica del fatto che il moderno ritmo manca tuttavia d’una sua piena determinazione si ha nel fatto che, se si tratta di architettare ville e casette, spesso si giunge a deliziosissime concezioni, che se si tratta di edifici a scopo determinato, come fabbriche industriali, empori portuali, rimesse d’aeronavi e simili, spesso s’arriva anche a determinare la ritmica nuova. Ma quando si tratta di palazzi o chiese o teatri, edifici insomma od ambienti necessariamente monumentali, casca l’asino e si fa male. Allora si ricorre ai suggerimenti dei vecchi stili, si rimaneggiano antichi ritmi, cioè si torna indietro perchè non si sa ancora andare avanti.
L’appassionata ricerca degli architetti moderni deve tendere sempre verso la ritmica, fondamento d’ogni architettura che sappia esser nuova; ritmo è numero, è rapporto, è proporzione fra note e pause, fra luce ed ombra, fra masse e vani, cioè musica, cioè armonia. Per giungere a tanto bisogna non indulgere ai facili successi della “trovatina” appiccicata sulla facciata, nè compiacersi della bizzarria brillante e fugace come un razzo; bisogna partire da un concetto chiaro del tema, sgombro da pregiudizi convenzionali, e procedere dall’interno all’esterno dell’edificio, dalla pianta all’alzato, verso l’ideale d’una costruzione organicamente concepita, da base a coronamento, da spazio racchiuso a muraglia che lo serra.
Accidenti a chi sfoglia le riviste illustrate d’architettura, questa compresa, se soltanto vuoi pescarvi spunti, suggerimenti, ideucce da cucire insieme, magari con garbo, come si infilano le conterie in un sottanino per l’ottentotto! Viva invece chi vi cerca le ragioni del proprio odio e del proprio amore, eterni tormenti dell’artista che soffre e procede, chi vi trova lo spirito e non la forma degli antichi e dei nuovi paradigmi dello stile!

Ora voglio dire ancora del rapporto fra costruzione e decorazione. La reazione all’assurdo dell’Ottocento, tutto decorazione e nulla costruzione, ha condotto all’estremo opposto. Per guarire uno dall’idropisia gonfia e molle lo si deve necessariamente scarnire fino all’osso? Ucciderlo cioè per risanano?
L’architettura priva affatto dell’elemento decorativo è uccisa: sarà costruzione, sarà geometria solida, sarà organismo schematico, ma architettura non è. Chi ha mai pensato a chiamare architetture le piramidi egiziane? Quando l’architetto giunge ad un suo stile egli concepisce necessariamente costruzione e decorazione come un tutto inscindibile; quando uno stile architettonico è determinato non si può pensare la struttura senza il suo ornamento. Le metope del Partenone o le volute dell’Eretteo, le guglie del Duomo di Colonia o le statue del colonnato berniniano non si possono pensare disgiunte dall’edificio di cui sono ornamento e complemento ad un tempo, tendini, muscoli e nervi che fan d’uno scheletro un corpo.
L’errore grave delle tendenze architettoniche moderne è appunto la trascuranza e perfino il disprezzo di ciò che si può più propriamente dire ornamentale. Limitarsi alla costruzione non è fare dell’architettura poichè questa è costruzione ed ornamento pensati insieme.
Ma come si troveranno le nuove forme decorative se prima non s’è definita la ritmica dell’architettura moderna? A quel punto si ritorna sempre quando si vuol rendersi conto del complesso fenomeno formativo, nel tormento del quale viviamo, durando fatica ad orientarci.
Certo è che tutti i tentativi, visibili oggi a Parigi, verso la nuova veste decorativa dell’architettura sono lamentevoli. Quando si appiccicano alle nuove strutture gli antichi motivi ornamentali par di vedere uno sdutto giovinetto vestito con i panni smessi del nonno obeso. Quando si tentano nuovi motivi si prendono i suggerimenti a caso, dal ferro, dal legno, dai fiori, dalle fontane, come nel tempo esecrando del Liberty nefasto.
Che siamo in epoca d’arcaismo lo dimostra anche il fatto che la scultura ornamentale di moda s’ispira alle metope di Selinunte, ai mostri romanici, insomma a tutto ciò che è vicino allo squadro geometrico primordiale. La scultura s’è fatta architettonica, la pittura si fa sulle mura tutta zonata di toni piatti fra schemi disegnativi nettissimi.
Quando scultura e pittura non sono arcaistiche si hanno, specialmente nell’arte francese, curiosi ritorni culturali a certe grazie della Scuola di Fontainebleau, fra Primaticcio e Jean Goujon; cioè si delineano per altra via le tendenze stilistiche moderne, le ricerche d’una ritmica ben determinata in omaggio alla nettezza di linee e di superfici dell’architettura.
Anche in ciò è la conferma che lo stile nuovo c’è, pur essendo in via di formazione. La nuova architettura ha già la potenza di sottomettere le altre arti al proprio gusto, di ricondurle alla loro essenziale ed eterna funzione decorativa. Segno evidente, questo, del ricostruirsi di quell’unità delle arti che l’Ottocento aveva spezzata.

Se si esaminano con spirito rinnovato le architetture dei padiglioni stranieri a Parigi, le preferenze vanno dirette alla Svezia ed all’Austria, poi alla Polonia, alla Cecoslovacchia, all’Olanda, alla Danimarca in ordine decrescente fino a tutti gli altri padiglioni che non hanno importanza, Italia, purtroppo, compresa.
Che cosa fa la Svezia? Nella facciata del suo padiglione con grandissima signorilità, con senso perfetto d’equilibrio, essa trova veramente il nuovo ritmo e vi pone quel tanto d’ornamenti rigidi e semplicissimi che bastano ad attenuare l’aridità costruttiva. Che cosa fa l’Austria? Invece d’ispirarsi come la Svezia ai ricordi classici si volge agli spunti barocchi ondulando le superfici delle mura, rastremando verso il basso i pilastri, mescolando con gusto raffinato linee rette e sagome curve, ponendo la massima semplicità degli ornamenti a commento delle forme architettoniche.
Svezia ed Austria riassumono cioè le due tendenze moderne, l’una verso il classico, l’altra verso il barocco, rivissuti nello spirito e non nelle forme. Il che equivale a dire che quando l’architettura moderna vuol riallacciarsi in qualche modo alla tradizione salta a piè pari il balordo Ottocento e si volge verso le ultime grazie barocchette del Settecento o verso le preziosità pompeiane del napoleonico Impero.
Verso forme nuove che partono da Vienna si orienta la Polonia che ingemma di faccettature in ferro e vetro la bizzarra lanterna del suo padiglione, graziosa come una voliera, e fa giocare, sull’esempio dei suoi mobili rustici, prismi triangolari nei fregi e nei timpani. La Cecoslovacchia fa un capriccio architettonico che è molto più meditato di quanto non appaia e, contrariamente all’abitudine diffusissima negli altri padiglioni, bianchi o grigi con monotonia di scatole di cartone, squilla i contrasti del colore acceso, lustro, maiolicato. L’Olanda, che tanta parte ha oggi nel travaglio dell’architettura europea abbandona ogni spunto tradizionale che non sia quello delle casette de’ suoi pescatori e si slancia ardita verso forme sue proprie che hanno al tempo stesso della capanna e della tomba, spregiudicata ed insolente, massiccia e greve. La Danimarca s’attiene al massimo squadrato e lo compensa soltanto con la preziosità della muratura in filari di mattoni con bianca calce intercalata ed alterna, esempio appunto di come si cerca la ritmica nuova andando agli eccessi, abbandonando di proposito ogni elemento che non sia puramente struttivo con intransigenza coraggiosa.
Che dire degli altri padiglioni? La Russia s’è volontariamente imbarbarita ed ostenta questo suo disprezzo antitradizionale costruendo in legno, tinto di vermiglio politico, una specie di compromesso fra le costruzioni in ferro, tipo torre Eiffel, e i baracconi del tobogan delle montagne russe d’un Luna-Park di provincia. Il Belgio fa in muratura una serie di casse di legno da imballaggio accostandole le une alle altre senza collegamento, lasciando evidenti le nervature ad incastro, mescolando fra loro elementi eterogenei. L’Inghilterra, ricordandosi d’essere il maggiore impero coloniale del mondo, va a cercare nelle Indie e nell’Egitto la decorazione policroma e la riporta curiosamente sopra la banalità di superfici spianate o curvate, a casaccio. Le altre nazioni danno saggi di architettura folkloristica e l'Italia, per non compromettersi, finge d’ignorare che anche da noi esiste un movimento moderno e si drappeggia nella toga romana con retorica enfasi e parla latino in una lunga epigrafe dove all’ostendit finale dovrebbe esser sostituito un più sincero ostentat. E’ bene avvertire gli stranieri che il padiglione italiano non rappresenta affatto le tendenze più sane e più vive dell’architettura nostra.
A proposito della quale architettura italiana moderna si può osservare, concludendo, quanto segue: fra gli stranieri da una parte vediamo le più arrischiate forme architettoniche che una teorica intransigente può dettare; dall’altra notiamo un rimasticare tardivo degli antichi stili dovunque si voglia ottenere effetto di monumentalità.
I giovani architetti italiani, se vogliono distinguersi dagli stranieri ed interpretare l’anima permanente della nostra stirpe che ha come caratteri l’equilibrio, la misura, la facoltà di sempre rinnovarsi senza andare agli eccessi, bisogna che accettino il processo di semplificazione irrimediabile operato in Europa durante trent’anni di riforma, comprendano come si sia tornati logicamente ad uno stile architettonico che ha come fondamento la costruzione coi più moderni mezzi e che ogni ornamento subordina a quella. Bisogna cioè che prima di tutto, come gli architetti romani dell’impero facevano, sentano il fascino della pura ritmica costruttiva, ma non si fermino a quella, non si lascino illudere nè dai semplicismi delle teorie preconcette, nè dal comodo vivere di rendita sulla gloria degli antenati. La funzione equilibratrice dell’Italia artistica in ogni secolo, lo spirito architettonico della nostra razza debbono essere loro presenti in ogni momento.
Noi possiamo disapprovare il passatismo retorico del padiglione italiano all’esposizione di Parigi ma non dobbiamo dimenticare che esso è l’unico edificio monumentale di quella mostra di scatole più o meno graziose. È un riconoscimento che lealmente gli dobbiamo mentre constatiamo il successo caloroso che ha avuto agli occhi del grosso pubblico, successo non trascurabile nè disprezzabile.
Ma - non illudiamoci - quella monumentalità e quel successo dipendono unicamente dal fatto che vi sono adoperate colonne e cornici e trabeazioni e volte e nicchie e paraste e mura di solida pietra o di mattoni. È vero che quegli elementi architettonici vi son posti alla rinfusa, che vi son nicchie vuote da cui le statue son fuggite per frescheggiare lì vicino, che v’è un vano spreco di mattoni dorati là dove il palazzo dei Dogi avrebbe dovuto insegnare che bastan due toni alterni per fare d’una muraglia un broccato; ma essi son pure gli elementi della monumentalità d’ogni tempo, quelli cui nulla l’architettura moderna ha finora saputo sostituire fra tanto sfoggio di solida geometria. Essi sono cioè gli elementi che Roma, la città architettonica per eccellenza, ha sempre usato, accordando il senso dello spazio interno con quello della imponenza esterna, nei suoi monumenti, prodotti di uno spirito artistico unitario, al tempo medesimo pratico ed estetico, misurato ed ardito, realistico e fantasioso. La missione equilibratrice dell’Italia fra vecchissimo e novissimo è dimostrata insomma perfino dagli errori.
Dopo le quali considerazioni vorremo esaminare nel prossimo articolo gli interni ed i mobili; poi vedremo le ceramiche e le stoffe, i vetri e i metalli, i gioielli e i merletti, prodotti concordi di un unico stile.
ROBERTO PAPINI.

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