FASCICOLO IX - MAGGIO 1926
GIUSEPPE LUGLI: Arte Decorativa Romana - Primo: Le urne cinerarie, con 34 illustrazioni
Generalmente il visitatore dei musei poco presta attenzione alle piccole urne cinerarie, che vengono collocate qua e là, quasi a riempimento delle pareti senza un reale significato. Ed in realtà i prodotti della grande arte attraggono ed assorbono quasi totalmente l'attenzione dello spettatore, il quale non ha nè tempo nè voglia di fermarsi a guardare tutte quelle piccole cose, che quasi lo disturbano nel suo più vasto godimento artistico. Inoltre, queste urne, divise in piccoli gruppi o più spesso isolate, non appaiono in tutto il loro valore e non sembrano avere altra importanza che quella di decorare l'ambiente in cui sono conservate.
Non sarà male, invece, considerare qui un certo numero di cippi, arche, vasi funerari, e studiarli un po' nei loro tipi e nelle loro figurazioni, che hanno tutte un simbolo ed un motivo razionale di origine. Come mai, infatti, tante forme diverse e tanti motivi ornamentali? Qualunque oggetto e qualunque soggetto erano buoni per raccogliere le ceneri del morto ed ornare il luogo della sua eterna - o almeno creduta tale - dimora? A prima vista potrebbe sembrare che nessuna norma regolasse la scelta di quella cassettina che doveva contenere i resti della persona estinta; ma non e cosi. Come il sarcofago traeva la sua origine naturale dalla cassa lignea e poi di pietra e poi di marmo, che con varie gradazioni, a seconda dei tempi e delle fortune, raccoglieva l'intero cadavere inumato, cosi l'urna rassomigliava a quegli oggetti che prima dello scrigno marmoreo erano serviti al medesimo scopo.
È noto che la cremazione cominciò a riprendere in Italia il sopravvento sulla inumazione verso il IV sec. a. Cr., a che alla fine della repubblica questo era il sistema quasi esclusivamente usato. Appunto in questo periodo cominciarono a sorgere i grandi colombari delle famiglie e delle corporazioni, a fianco dei sepolcri privati, spesso destinati ad un solo individuo.
Nei colombari di solito i cadaveri venivano racchiusi entro celle di terracotta, già murate durante la costruzione entro piccole nicchie o loculi incavati nelle pareti. Ma non tutti si contentavano di un tal sistema comune. La pietà per il culto dei morti, la differente condizione sociale di alcuni di essi, il carattere più sontuoso di qualche sepolcro facevano sì che spesso, anzichè in olle di coccio, il cadavere combusto venisse deposto in speciali urne di marmo, più raramente di vetro e di metallo, adorne con ricercata eleganza, fino a divenire dei veri, piccoli capolavori d'arte.
Il tipo più evidente come origine è naturalmente il sarcofago rimpicciolito fino alle proporzioni di una piccola urna quadrangolare di circa 50 centimetri di lato, la quale conserva del sarcofago la stessa forma e la stessa decorazione, con la copertura a due spioventi e con gli acroteri sul frontone e sui lati. Se la riduzione marmorea di questa forma (fig. 1) appare tarda, la riduzione in terracotta era stata già da lungo tempo adottata dagli Etruschi e forse anche dai Romani, e ne abbiamo esempi innumerevoli nei musei di Roma, (Villa Giulia) di Firenze, di Volterra, di Chiusi, ecc.
La derivazione dal sarcofago è tanto pedissequa che la figura scolpita al di sopra di essi a grandezza naturale, in atto di felice, eterna, liberazione, viene contratta nelle urne per la scarsità dello spazio fino a diventare un mostricciatolo (fig. 3) e non viene abbandonata se non nell'età romana.
Affine al sarcofago è l'urna a capanna, riproducente l'edificio sepolcrale, eseguito a somiglianza della casa che il defunto aveva abitato in vita: in alcune urne (fig. 2 e 4) si trova persino rappresentato il tetto con le sue tegole e coi suoi canali, e la facciata viene riprodotta con singolare verismo, con gli stipiti e con la porta a due o più battenti; in alcuni casi la porta è socchiusa e vuole allora rappresentare la porta dell'Hades, che si schiude al passaggio della nuova anima, sotto gli auspici delle Lasas, o geni funerari al servizio dei defunti (fig. 5).
Queste le forme più semplici e diciamo anche più razionali, come origine, delle urne funerarie; ma i Romani preferivano forse altri tipi di differente origine e in primo luogo il vaso, talvolta eseguito appositamente con scopo funerario, talvolta invece preso dalla suppellettile comune, come in vari casi, quando economia lo consigliava, talchè è difficile poter distinguere fra i molti vasi conservati nei nostri musei quelli cinerari dagli altri. In generale i primi hanno il coperchio e portano sui fianchi, presso le anse, i segni della fermatura, che si faceva con spranghe di bronzo fissate con piombo; oppure con mastice a tenuta d'aria. I secondi invece non hanno coperchio, sono più ampi, specialmente alla bocca, e presentano spesso un foro al di sotto per lo scolo dell'acqua.
I migliori esempi di vasi antichi sono quelli del Museo Vaticano, nella Galleria dei Candelabri, tra cui sono scelti i quattro vasi riprodotti nelle figg. 6-9, ornati con rami di alloro o con rami di vite, ambedue motivi frequenti nelle figurazioni sepolcrali, come simbolo di quel godimento spirituale e materiale, il secondo soprattutto, di cui satiri e menadi, inebriati nella eterna danza erotica ed orgiastica, sono i più fedeli rappresentanti, mostrando al morto tutta la felicità della vita di oltre tomba.
Meno frequente è la forma dell'urna a cista, a somiglianza di quei graziosi scrigni di bronzo di cui si servivano le signore eleganti per deporre gli oggetti del loro abbigliamento, forma alla quale si potrebbe aggiungere quella a pisside, specie di scatola rotonda o poligonale, con coperchio avente di solito per presa una pigna (figg. 10-12).
Anche qui si tratta di un oggetto di uso domestico, che, destinato nella vita usuale a contenere gli oggetti più cari del proprietario, passò poi a contenere le sue spoglie mortali.
Uno scrigno vero e proprio in marmo si trova nel Museo Vaticano (fig. 13) poggiato su quattro zampe, che ricordano quelle bronzee delle cassette di legno, rivestite con lamine di bronzo; la decorazione ripete qui i soliti soggetti bacchici, di simposi e di iniziazioni, tanto grati ai Romani.
Ma non sempre la decorazione era sul corpo dell'urna: spesso questa era una semplice cassetta di marmo, o anche di muratura, che veniva quasi del tutto nascosta nel muro. E in tal caso la decorazione passava sul coperchio o su di una lastra sovrapposta alla tomba. Nell'età aurea dell'impero non è raro il caso di trovare scolpiti su queste lastre, foggiate come vere edicolette sepolcrali con colonnine e frontoni, i ritratti dei defunti, di cui si possono citare come esempi caratteristici alcuni del Museo Laterano (figg. 15 - 16), pieni di espressione e di profondo sentimento. Un poco più antico, forse della fine della repubblica, è il cippo funerario di un calzolaio (fig. 14), dalla faccia di buontempone, di arguto Pasquino, cui non doveva mancare tuttavia un senso di superiore concezione della vita, come esprime quel suo occhio fissato nel vuoto dell'infinito, nel pensiero della vita ultramondana.
Siamo così giunti alla forma più nota e più usata dai Romani, che ricordava anche il rito più antico di sepoltura: intendo dire la forma a cippo, prosecuzione della pietra tombale posta sul tumulo a designare l'arca del defunto, che la mano umana non doveva profanare (figg. 17- 18). In molti di questi cippi si trovano indicate anche le misure dell'area, nel fronte e nei lati, per cui essi costituiscono dei veri termini della proprietà, come i cippi usuali dei terreni agricoli.
Data la posizione isolata del cippo e date anche le sue funzioni di centro delle cerimonie sacre agli Dei Mani del morto, esso viene spesso assimilato con l'ara e decorato superiormente con timpano e pulvini, e nei lati con cornici, girali di acanto, festoni di fiori e frutta, graticci di vite, tronchi di lauro e di quercia, ecc. (figg. 19-24). I festoni sono retti da teste di montoni, di meduse, di acheloi, oppure da candelabri; e fra questi, uccelli e altri animali, specialmente quelli che avevano relazione con la vita degli Inferi, come l'ibis, l'aquila, il grifo, la colomba, il pavone; non di rado per rendere maggiormente viva la scena, agli animali si alternano putti che compiono azioni gaie e spensierate, o soli (fig. 24) o in relazione col defunto (figg. 25-26), raffigurato nell'antica posa del commensale, che compie la rituale libazione sulla sua cline di morte (figg. 26 e 28), assistito dai parenti, nell'intimità del suo ambiente famigliare.
Il rilievo riprodotto nella fig. 29 fa parte di un sepolcro scoperto sulla via Labicana ed appartenente alla famiglia degli Haterii ed è molto interessante perchè rappresenta la esposizione del defunto nell'atrio della sua casa prima della cremazione.
Appena avvenuta la morte, il cadavere veniva cosparso di aromi e di unguenti, sale, cedro, miele, mirra e poi bene avvolto in fasce e vestito con la toga, se uomo, col migliore abito di festa se donna; i magistrati e sacerdoti con tutte le loro insegne e con corone in capo, come durante i banchetti. Nella bocca del morto si deponeva un denaro, prezzo del noleggio che l'anima doveva pagare a Caronte per il passaggio agli Inferi. Quindi, così preparato il cadavere, si metteva sopra un solenne catafalco nel mezzo dell'atrio della casa, esposto agli amici e al pubblico, per dimostrare la realtà della morte e soprattutto che questa non era avvenuta per causa violenta. Si contornava di fiori e di corone, mentre tutto l'atrio veniva riccamente addobbato con festoni di fiori, tesi fra le colonne: ai lati del catafalco si mettevano dei candelabri accesi e dei bracieri, sui quali si versavano ogni tanto incensi e profumi, e nel portico, sopra basi apposite, si ponevano i busti in cera degli illustri antenati.
Intorno al morto si disponevano alcune donne pagate, praeficae, che dovevano piangere e disperarsi, battendosi il petto, coi capelli sciolti e l'abito dimesso per indicare il dolore dei parenti, alternandosi con suoni mesti del flauto e della siringa e con canti funebri (neniae).
L'esposizione durava da tre a sette giorni, dopo i quali il cadavere, sempre artificialmente mantenuto, veniva portato, preferibilmente di notte al lume di torcie resinose, nel luogo dove nel frattempo era stato eretto il rogo. Il corteo funebre era considerato come una questione di dignità e di nobiltà della famiglia e quindi preparato con inviti a tutti i conoscenti, con gran numero di suonatori, di donne piangenti, di vespilloni e di cantatori che dovevano accompagnare il feretro. Gli uomini con gli abiti semplici e abbrunati, le donne interamente vestite di nero e i fanciulli col capo coperto da velo seguivano il morto fino all'ustrino e lì si allontanavano, lasciando che i soli parenti più intimi assistessero alla cerimonia della cremazione.
Questa era una operazione lunga e delicata, affinchè una minima parte delle spoglie mortali andasse dispersa. Nei tempi più antichi si scavava una fossa e si formava il rogo nel luogo stesso dove poi il morto doveva essere seppellito insieme con le ceneri che rimanevano dalla combustione. Nei tempi romani, invece, la cremazione avveniva soltanto in luoghi appositi, detti ustrini o pubblici o particolari, presso le tombe di famiglia, e dopo che il rogo era interamente bruciato si faceva una accurata selezione delle ceneri e delle ossa rimaste e soltanto queste ultime, un piccolo mucchio di materia ossea frantumata, si chiudevano nella urna.
Talvolta questi roghi (pirae) erano costruiti con senso monumentale, come grandi are, decorate con festoni, formate di legni ben tagliati e ben puliti, e durante la combustione si spargeva il tumulo con papiro e con incenso per attenuarne il cattivo odore, Per lo stesso motivo gli ustrini erano di solito distanti dall'abitato e isolati di almeno 20 metri all'intorno. Lo spegnimento definitivo del fuoco si faceva con vino e con essenze odorose e le stesse essenze si ponevano nell'urna nell'atto in cui venivano racchiuse le ceneri. In molti casi sui coperchi delle urne si praticavano dei fori per proseguire lo stesso rito anche nelle ricorrenze dei morti (rosalia).
Nel Museo Vaticano si conserva una grande lastra di amianto, trovata in un sarcofago, che era destinata a mantenere sul rogo ben separato il cadavere dalla catasta lignea, ma questa si deve considerare come una eccezione, poichè è raro di trovate in una urna i soli resti ossei, senza frammenti di carbone,
L'operazione definitiva della raccolta e della chiusura delle ceneri si chiamava ossilegium ed era la più delicata. L'urna poi veniva sprangata col sistema che si è detto in principio e deposta dai parenti stessi, a piedi scalzi, nel loculo del colombario o del sepolcro di famiglia.
I Romani avevano una particolare predilezione per rappresentare l'effigie del morto, maestri come erano nell'arte del ritratto, come abbiamo già visto, e quindi anzichè ricorrere ai soggetti mitologici, anche se di intonazione funeraria — come vediamo per esempio nel cippetto già nel Museo Kircheriano, ora alle terme Diocleziane, col ratto di Proserpina (fig. 27)— preferivano le immagini stesse dei loro cari, o nel gesto triste del commiato (fig. 30), oppure nella piena azione della vita vissuta, di guerriero, di operaio, di sacerdote (fig. 31) di oratore (fig. 34), e per le donne e i fanciulli nella usuale vita famigliare (fig. 32).
Esempio singolare è fra tutti il cippo funerario scoperto nel 1871 presso la porta Salaria, del fanciullo Q. Sulpicio Massimo, romano (fig. 33), che visse soltanto 11 anni, 5 mesi e 12 giorni, ma che fu vecchio anzi tempo - il suo ritratto altamente espressivo lo dimostra - per la sua precoce intelligenza e per la singolare cultura, che lo condussero alla vittoria negli agoni poetici capitolini indetti da Domiziano, dove egli, nel 94 d. Cr., superò i numerosi concorrenti, improvvisando un carme in versi greci, che è riprodotto sul cippo insieme con due epigrammi di elegante e vivace composizione.
GIUSEPPE LUGLI.

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