FASCICOLO III - NOVEMBRE 1926
NOTIZIARIO
CONCORSO PER IL
CONGIUNGIMENTO DEI PALAZZI
DEL SENATO.

Nel giugno ultimo scorso fu visto con sorpresa un Cavalcavia di collegamento tra il Palazzo Madama e quello Giustiniani, assegnato per esso al Senato del Regno. L'evidente provvisorietà non bastava a dissipare i dubbi sul grave danno che l'armoniosa facciata del Palazzo Giustiniani veniva a subire, e pronte e vibrate furono le proteste, prima fra tutte quelle del Sindacato Nazionale Architetti e della Associazione Artistica fra i Cultori d'Architettura.
Per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione, di quell'On. Pietro Fedele che non trascura mai la vigile tutela del patrimonio artistico nazionale, e che dell'Associazione dei Cultori è socio illustre ed attivo propulsore, il Senato convocò una Commissione cui affidò l'incarico di studiare e consigliare la migliore soluzione del collegamento che per esigenze di servizio interno non poteva essere abbandonato.
La Commissione concluse col proporre un concorso nazionale che il Senato del Regno bandisce infatti con pronta e signorile sollecitudine,
Molti furono i concorrenti che da più parti d'Italia inviarono i loro progetti, e taluno ricco di originali trovate e attentamente pensoso della gravità del problema imposto: problema squisitamente architettonico che non ammetteva grandi varietà di soluzioni per i precisi termini già fissati, e tuttavia richiedeva delicata sensibilità d'ambiente che consentisse il sovrapporsi e il collegarsi alle nobili forme già consacrate dai secoli.
La Commissione giudicatrice presieduta dallo stesso Presidente del Senato S. E. Tittoni e formata dal Ministro della Pubblica Istruzione, dal Governatore di Roma, dai Senatori Campello Mengarini Corrado Ricci e Saint Yust di Teulada, nonchè dal Direttore Generate delle Belle Arti e dagli architetti Giovannoni, Passarelli Calza Bini e Venturi, fu unanime nel riscontrare le qualità richieste nel progetto presentato col motto Sangallo, che risultò appartenere al giovane Felice Noci, mutilato di guerra e valoroso architetto del Governatorato dl Roma. Al Nori fu quindi assegnato il primo premio, mentre il secondo fu attribuito all'architetto Manlio Felici, nobile e fantasioso; mentre un terzo premio pur non previsto dal bando di concorso, fu dalla generosità del Presidente del Senato istituito su richiesta della Commissione per segnalare il progetto dell'architetto Sandri.
Non dubitiamo che il Senato vorrà dare presto inizio al lavori, chiamando il Noci a sviluppare il progetto indovinatissimo non solo nei motivi leggeri e affatto ingombranti del doppio cavalcavia, ma anche nelle nobili facciate delle nuove fronti di Palazzo Madama, facciate che tanto bene mantengono il carattere ambientale della vecchia Roma e si collegano all'architettura dei due storici palazzi.

A.C.B.


LA CÀ DEL DUCA IN VENEZIA
NEL PROGETTO DI COMPLETAMENTO
DI DUILIO TORRES.


Duilio Torres ha affrontato uno dei temi più ardui ed arditi che, nel contrasto tra l'arte ed i ricordi del passato e lo sviluppo della vita moderna, possano presentarsi ad un architetto: Il completamento della Cà del Duca a Venezia sul Canalgrande.
Il palazzo del Duca Sforza fu iniziato intorno al 1450 sul disegni (ora non più esistenti) del Filarete. Ma alla Repubblica veneta non era molto gradito l'ospite e seppe fare così bene che presto i lavori vennero sospesi e la costruzione iniziata fu venduta all'asta. Rimane di essa un'interessante zona basamentale a forte bugnato con un grande tronco di colonna nell'angolo; e sopra si è sviluppata una insignificante casa, la quale però, appunto nella modestia delle linee e nell'assenza di stile, compie bene il suo uffizio di dare al rudero la massima accentuazione,
L'intendimento dell'attuale proprietario, Conte Marino Nani Mocenigo, di sostituire a detta casa aggiunta un palazzo notevole per dignità ed ampiezza, ha trovato espressione nel progetto Torres, di cui qui si dà una riproduzione del disegno geometrico della facciata e del quadro prospettico. Ed i concetti base ne sono i seguenti:
1° Tenere distinto e facilmente visibile, a rispetto del valori storici ed artistici, il nucleo antico.
2° Innestarvi per la parte nuova un'architettura tradizionale, pur modernamente sentita, ispirata ad un'epoca a noi più vicina, armonizzante con l'antico resto monumentale, ma non imitante l'architettura del medesimo.
Il progetto dovrà passare per la lunga trafila dei corpi giudicanti, ed è opportuno che sia così, poichè temi così complessi, su cui pesano i secoli, è giusto che siano accuratamente vagliati. Ma alla elevatezza dei criteri seguiti e del sentimento d'Arte che ha ispirato il Torres ai può bene fin d'ora rendere omaggio.

G.G.



IL PIANO REGOLATORE
DELLA NUOVA CITTÀ-GIARDINO
DI SMOHUA (Cairo)


Il problema che si presentava all'arch. Lasciac non era dei più facili: il piano di una città giardino su di un terreno acquitrinoso di una vecchia salma, senza movimenti altimetrici chiusa à nord dal canale Mahmudia e a sud dai binari della ferrovia.
L'arch. Lasciac, preso come asse princlpale un vialone alberato, prolungamento dell'arteria risultante dall'unione della strada che viene dal Cairo con quella che viene da Abou-Kir, e dimezzato questo vialone con una grande piazza dalla quale irraggiano altre sette strade, ha svolto tutto intorno una serie di quartieri residenziali su tracciati curvilinei a raggera, di spirito urbanistico molto francese.
Dire che questo piano regolatore rappresenti la migliore soluzione del problema nel suoi dettagli sarebbe forte erroneo: troppe volte l'arch. ha sacrificato necessità e comodità di traffico nonchè motivi estetici di distribuzione di masse a preconcetti di simmetria i quali ottengono il loro dubbio effetto più sulla carta che nella realtà. Pure, se il dettaglio può apparire non efficacemente svolto, tuttavia nella distribuzione generale risultano raggiunti gli obbiettivi fondamentali della rete stradale: facilità quindi di comunicazione fra i quartieri, chiarezza di tracciato nelle arterie di collegamento e di traffico, logica distribuzione dei vari servizi (stazione, mercati, scuole, alberghi ecc.) ed equilibrio nella variazione della intensità delle costruzioni: quanto insomma si richiedeva nel tracciato di massima della nuova città.

L. P.



UN TEATRO ALL'APERTO.

Sulla interessante rassegna di attività municipale "Capitolium," pubblicata a cura dei Governatorato di Roma, e stato illustrato Il seguente progetto del teatro all'aperto, che data la sua importanza e la novità del soggetto crediamo opportuno riprodurre:
Dopo il tentativo di Siracusa, consolidatosi ormai in una salda istituzione per i magnifici risultati ottenuti, era necessario che in Roma sorgesse qualcosa di molto simile giacchè innegabile che le tragedie e le commedie antiche guadagnano immensamente quando sono trasportate dalla scena. chiusa con cieli ed alberi finti, all'aperto ove lo spettacolo naturale si fonde all'artificio umano trasportandolo a purissime espressioni, offrendo varianti impensate come il murmure degli alberi, il variare policromo del cielo il canto degli uccelli, il respiro profondo del mare! Il teatro di Siràcusa, quello di Verona quello di Fiesole e tanti altri sorti sia, pure per un sol ciclo di rappresentazioni (si ricordi il magnifico. tentativo fatto per iniziativa dell'associazione mutilati ed invalidi al Palatino) stanno a testimoniare il desiderio unanime di scuotere le pastoie della scena chiusa e di raggiungere effetti nuovi in cui sia possibile apprezzare tutta la forza di un'opera di poesia antica e moderna.
Diremo anzi che la tragedia antica morta sul palcoscenico comune, ridà palpiti di vibrante commozione quanto sia riportata sul teatro all'aperto cui era destinata in origine.
Era quindi necessario per Roma che è la patria, della tragedia. e della commedia latina, affrontare di nuovo questo grande problema.
Perciò il Governatorato, oltre ad avere presa l'iniziativa di restaurare il Teatro Romano dl Ostia, nel quale non appena possibile si rappresenteranno opere classiche, si è preoccupato anche di comprendere nel programma vastissimo per la creazione e per il riordinamento del giardinaggio il progetto di un nuovo Teatro all'aperto, che verrebbe ad ornare una delle zone più suggestive a Roma, e verrebbe anche a riportare in onore nobili forme di rappresentazioni teatrali ormai abbandonate.
Lo studio per il nuovo teatro all'aperto è stato condotto con grande amore e con squisito sentimento artistico dall'Arch. De Vico, al quale devesi anche il progetto dl ricostruzione del teatro romano di Ostia, progetto già in avanzato corso di esecuzione.
Le pittoresche adiacente della Villa Celimontana ed il dolce raccoglimento della vallatta che si apre fra le pendici di detta villa ed il nuovo magnifico semenzaio del Governat rato, hanno suggerito al De Vico la più conveniente scelta del terreno per la creazione del teatro.
Alla felicissima ubicazione si aggiunge l'auto della natura che rende ancor più facile l'ambientazione del teatro: scenario di fondo formato da un maestoso insieme di pini: quinte con alti alberi a destra e con costruzioni decorative a sinistra poste sulle imminenti pendici delle villa Celimontana; piante che decorano convenientemente, secondo l'attuale loro sistemazione, le adiacenze del teatro senza che debba provvedersi all'abbattimento di alcun esemplare. Si può dire anzi che il primo pensiero per la creazione del teatro all'aperto sia nato nel De Vico dalla fortuita osservazione della disposizione delle piante d'alto fusto esistenti sul luogo, che,. Isolate od a gruppi, inquadrano deliziosamente l'ambiente.
L'ingresso principale del teatro, così come è stato immaginato, si aprirà sulla Via di Porta S. Sebastiano lì, due colossali pini; un altro accesso assai pittoresco al teatro verrebbe dato dal viale di congiungimento della villa Celimontana con il semenzaio del Governatorato, viale che per il momento non è utilizzato. Sulla via di S. Sebastiano, oltre all'ingresso monumentale cui abbiamo accennato, dovrà aprirsi un altro acceso per i pedoni, in modo però che tanto l'ingresso carrozzabile quanto quello peri pedoni abbiano i loro assi centrali indirizzati verso il mezzo dell'edificio progettato. Tali ingressi separati per le vetture e per i pedoni permetteranno di regolare grande facilità l'afflusso del pubblico nel grande piazzale prospicente il fabbricato. Nel piazzale potranno anche sostare le vetture in attesa della fine dello spettacolo. I veicoli in ogni modo avranno la possibilità di allontanarsi per altro passaggio, qualora fossero abbandonate dai passeggeri, senza recare alcun disturbo al traffico.
Il fabbricato del teatro che svolge la sua bella facciata in asse con i due ingressi sopra indicati, ha un magnifico portico per raccogliere il pubblico che per i vari ingressi e per le varie scalee può accedere al posti prescelti. Fra i vari ingressi si distingue quello Reale, che permette dl raggiungere mediante belle scalee il podio centrale. Ai due lati del fabbricato dove esistono graziosi avancorpi, sono state create delle scalee con servizio di ascensori per raggiungere la parte più alta del teatro. Tutto questo Insieme di accessi e di scalee permette di disimpegnare rapidamente il pubblico che è messo lo grado di pervenire con sollecitudine e con comodo ai varî meniani.
La costituzione del teatro, sebbene ispirata ai criteri classici rappresenta qualche novità, e principale fra tutte quella della forma della cavea, che, invece di aver una superficie simile a quella di un mezzo cerchio, ha superficie conica, sicchè le fiancate si presentano con linee radiali anzichè diametrali, come in quelle dei teatri classici.
L'ordinaria linea diametrale delle fiancate. resa necessaria per impedire che il pubblico possa con lo sguardo allontanarsi dalla scena, perchè distratto dalla visione di ciò che accade intorno al teatro, è stata abbandonata dal De Vico, poichè egli ha inteso di separare la cavea dall'ambiente esterno con fiancate pensili dl verde stilizzato, che si svolgono anche lungo le scalee esterne d'accesso al vari meniani. Per di più tali fiancate verdi rappresentano un elemento decorativo studiato con ogni cura anche nei dettagli.
La cavea, a causa dell'altezza del fabbricato cui verrebbe ad appoggiarsi, avrà oltre il podio centrale quattro meniani ed una ampia galleria superiore da servire per magazzino. e deposito degli scenari.
L'orchestra, dato l'ambiente, potrebbe anche essere adattata per musica grossa. La ribalta in materiale da costruzione al aprirà fra ciuffi di ligustri e mandorli che formano già una artistica antiscena. La scena come abbiamo già accennato, si aprirà sulla valletta sul cui sfondo si profila nel cielo la linea frastagliata di superbi pittoreschi pini degradanti dalla parte più alta verso il semenzaio. V'è dì notevole che nonostante la vicinanza di vastissime zone fabbricate, non si scorge un solo edificio che venga a tarpare la linea pittoresca e serena dal fondale scenico. Sul fianco sinistro della scena nelle costruzioni decorative delle pendici dl villa Celimontana si apriranno numerosi camerini per gli artisti e si anniderannno i vari impianti necessari per le finzioni sceniche,
Il tipo di costruzione dovrà per materiali avvicinarsi il più possibile alle opere classiche.
L'ossatura sarà in tufo con rivestimento di laterizio. Tutti gli accenni arcuati dovranno però essere in pietra. Le volte, a simiglianza di quelle usate nelle costruzioni teatrali romane saranno a getto di pietrisco e calce.
Dopo un felice esperimento nella costruzione del teatro romano di Ostia, nel quale viene osata una pietra tufacea, il nenfro, per i sedili, questi e le scalee dovranno essere di dl egual pietra, che, pur avendo lo stesso colore di fondo, del tufo, presenta spazi di colore più oscuro.
La decorazione del fabbricato sarà costituita da candelabri per la illuminazione notturna collocati sul cornicione sottostante alla galleria di bronzi vari, da maschere, da logge o da fontane che dovranno arricchire le vaste nicchie ai due lati del prospetto.
Una parte importantissima per l'ambientazione del teatro spetta al giardinaggio, poichè proprio per render più amena la vasta zona verde fra la villa Celimontana e la Passeggiata Archeologica è stato studiato questo geniale prngetto.
Nell'adiacenze del teatro dovranno essere tracciati con piante vasti piazzali e ridenti cortiletti verdi circondati da mortella e da lauro. A queste decorazioni si aggiungono poi quelle per le fiancate pensili stilizzate, composte da pinettl, cipressi e tuir.
Il panorama che può godersl dai gradini della cavea è quanto mal suggestivo: le pittoresche mura dl Porta Metronia e i reati imponenti delle Terme Antooiniane. la distesa variopinta del vivaio fiorito, le superbe pendici della villa Celimontana dense di verde.
Il luogo che presenta un così felice complesso armonico formato dal terreno, dallo sfondo, dalla verde perenne cornice ha anche un orientamento perfetto poichè gli spettatori volgeranno le spalle al sole verso il tramonto: ed al beneficio per gli spettatori d'esser difesi dai raggi del sole, vi sarà anche il vantaggio della luce viva sulla scena e del contrasto con la dolce ombra della cavea.
Il teatro così come è stato progettato potrà contenere circa 4.000 spettatori e potrà raggiungere un costo di poco più di tre milioni dl lire.
Questo è. il progetto. E l'amministrazione ha fiducia che alla sua iniziativa verranno incontro qnantl sentono la bellezza delle nostre tradizioni.

C. C.

CONCORSO DEI FRONTONI
DELLA NUOVA GALLERIA DI NAPOLI

Una felice iniziativa, di etti già demmo notizia, dell'Associazione Artistica fra i Cultori d'Architettura di Napoli, volenterosamente accolta dall'Alto Commissario Comm. Castelli, ha promosso un pubblico concorso tra gli architetti residenti in Napoli per la conformazione architettonica dei due frontoni della nuova galleria che si sta costruendo sotto al Monte Echia e che verrà provvidamente a congiungere i rioni occidentali . col centro di Napoli. Ed il concorso, recentemente giudicato da una commissione di cui facevano.. parte gli Arch. Chierici e Giovannoni, il pittore Siviero, l'Ing. Guadagno, ha avuto in massima un esito felice, se pur non è in tutto giunto a risultati definitivi.
Certo l'impostazione del tema nei riguardi edilizi era ben lungi dall'essere ampia e completa. Uno dei frontoni, l'orientale viene a trovarsi racchiuso presso l'angolo tra il palazzo Reale e la via Cesario Consolo, in rispondenza di un brusco risvolto della via Litoranea, richiesto dalla inopportuna. conservazione delle fabbriche dell'Arsenale, senza che sia possibile avere lo spazio sufficiente per collegare il motivo architettonico del frontone con una scala ampia e bella, se non addirittura monumentale, che consenta il passaggio ai pedoni tra la zona bassa e quella alta; ed uno dei concorrenti, il Pantaleo, che si è provato a risolvere il tema in tale più vasto modo, si è in certa guisa sacrificato nobilmente e forse non inutilmente per una idea, perchè ha dovuto essere scartato in quanto fuori dei dati imposti dal concorso,
Per l'altro frontone, l'occidentale, il problema era reso anche più complicato dall'incombere immediato della rupe del monte Echia e dai grandi muri di sostegno del Collegio Militare innanzi la ristretta via Chlatamone, da cui lo sbocco dei tunnel può essere separato solo da una breve e non regolare rientranza, da una piazzetta laterale, che taluni concorrenti hanno immaginato chiusa da una fabbrica o da elementi monumentali anche dal lato del frontone, altri invece hanno ivi lasciato aperta.
Risultato del duplice concorso è stato il seguente: pel frontone orientale, è riuscito vincitore il progetto dell'Arch. Madonna dal motto "W. il Luce", ed un secondo premio è stato assegnato al progetto dal motto "Roma", di cui è autore l'Arch, Felici. Pel frontone occidentale e per la relativa sistemazione edilizia nessun progetto è stato senz'altro ritenuto meritevole di esecuzione, pur avendo la Commissione riconosciuto gli alti meriti di quattro progetti, i cui autori dovrebbero essere chiamati a nuovo concorso su di un tema meglio studiato e definito; .e sono. i progetti dal motto "Arx" (Arch. Marcello Canino), dal motto "Marmo, piperno e mattoni" (Arch. Roberto Pane), dal motto “Ad utrumque paratus” (Arch. Guerra), dal motto “incitatus


CRONACA DEI MONUMENTI


FONDI. - Tra i più notevoli monumenti di quella interessante regione che si estende tra la Campania ed il Lazio meridionale e che ha visto incontrarsi nel Medio Evo tante e così diverse influenze artistiche, è tutto il complesso costituito dal castello e dal palazzo baronale di Fondi. Al castello può forse assegnarsi, per il tipo ad alte torri rialzate dalle cortine, il tempo del sec. XIV, e certo esso fece parte di una più vasta opera di fortificazione estesa a difendere tutto il paese e che ancora in molti punti appare nel suo esterno, circuito. Il palazzo baronale è opera della metà del Quattrocento ed appartiene, come ha già su questa Rivista dimostrato con chiari raffronti il Giovenale nel suo articolo sulla casa di Martino V a Genazzano (Vedi Rivista d'ArcA, e d'Arte dec. anno II, p. 465 e seg.) a quell'architettura gotica tarda, dalle porte ad archi ribassati, dalle finestre a sottili trafori ingegnosi, che tanta diffusione ebbe nel Mezzogiorno d'Italia e che coi, per una convenzione ben poco basata sulla realtà stilistica, ordinariamente designamo col nome di "aragonese".
Orbene il castello ed il palazzo trovasi ormai in condizioni così tristi di conservazione da rappresentare uno dei casi più tipici di quella grave “scadenza di stabilità” che purtroppo minaccia tanti monumenti italiani. Altre volte abbiamo dato il grido d'allarme su questa scadenza, abbiamo con numerosissimi esempi dimostrato la diminuzione progressiva di tanta parte del patrimonio monumentale che è gloria d'Italia. Possa almeno questa volta la segnalazione essere ascoltata dal Ministro Fedele, che tanto conosce ed ama la bella regione tirrena che si estende dal Circello al Miseno!
Le riproduzioni che qui si uniscono del castello turrito, del cortile del palazzo, che nella esterna scalea, e nelle arcate sembra ricordare il mirabile motivo pittoresco del fiorentino Bargello e di una finestra a sottile traforo (altre furono riportate nel citato, articolo del Giovenale) danno una chiara nozione dell'importanza e della grandiosità del due monumenti, ma solo in piccola parte dimostrano le loro condizioni precarie. Il castello, straziato all'interno da meschine utilizzazioni, ha le esterne pareti che tendono a disgregarsi ed il coronamento merlato ogni anno più diviene smozzicato e rotto. Nel palazzo uno del corpi di fabbrica racchiudenti il cortile è già da alcuni anni crollato e purtroppo - danno peggiore del crollo - è stato sostituito con un edificio dalla facciata orrenda con le, finestre pseudo-medioevali in istucco; l'altro corpo di fabbrica laterale alla scalea. quello cioè a cui aqppartiene la bella finestra qui riprodotta, ha ancora in piedi le pareti, ma il tetto è precipitato e nell'interno una vegetazione di ortiche si innesta alle pietre disperse. ed al monconi di travi… Tutto il palazzo, ,che fu nobilissima sede dei signnii di Fondi, è ora poco più che una casa di contadini, ed i magazzini e le stalle occupano le alte sale divise da luridi tramezzi, e nel giardino esteriore incombe la minaccia di costruzioni di case e di villini a soffocarlo, a chiuderne le visuali, a rendere ancora più triste la decadenza...

G. GIOVANNONI



BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

P. PARENT. L'Architecture des Pays-Bas méridionaux (Belgique et Nord de la France) aux XVI, XVII, XVII, siècle - Van Oest ed. Paris, Bruxelles, 1926.

Il pregevole volume testè pubblicato viene finalmente ad orientare con grande chiarezza le nostre cognizioni su di un interessante periodo e su di una interessante regione; esso ci mostra infatti, con la precisa minuzia dei quadri fiamminghi, il diffondersi della nostra architettura civile e religiosa del Rinascimento e del periodo barocco in tutta la regione, abbastanza compatta artisticamente, che comprende la zona meridionale dei Paesi Bassi, cioè il Belgio attuale ed il settentrione della Francia, e ci permette di seguire il vario innestarsi delle forme e dell'ornamentazione classicheggiante sugli schemi tradizionali delle scuole locali, specialmente di quella di Bruges.
Nel desiderio di far risorgere l'architettura classica gli artisti settentrionali dovettero prendere in prestito dall'Italia le forme che gli italiani avevano direttamente elaborato da oltre un secolo; ed il Parent, nella sua chiara conclusione, così riassume questi apposti che il genio della rinascenza italiana fece all'arte delle provincie nel corso di tre secoli; tra i più considerevoli egli menziona "l'arrivo dei motivi lombardi, l'influenza esercitata dai maestri italiani della scuola di Fontainebleu, l'invenzione delle forme decorative 'ispirate agli aràbeschi dl Giovanni da Udine, la rivelazione dell'Architettura d'oltre monti contenuta nel trattato del Serlio, gli studi proseguiti dai Romanisti a Milano, Firenze, Venezia e Roma, il lungo soggiorno degli allievi di Otto Venius a Roma stessa, la loro vocazione di architetti risvegliata dal contatto dei discepoli di Vignola che elevavano allora nella città papale le chiese derivate dal Gesù, le pubblicazioni di Francquart, lo slancio dato in generale all'arte anversana del ritorno dl Pietro Paolo Rubens ed all'architettura civile dei Paesi Bassi dalla sua raccolta dei palazzi di Genova, l'intervento dell'arte francese nell'interpretazione del barocco italiano del XVII secolo, l'apparizione del neoclassicismo palladiano all'epoca di Luigi XVI".
"A ciascuno di questi apporti corrisponde nella evoluzione dell'architettura del Paesi Bassi una fase nuova ove si riconosce un adattamento differente del Rinascimento italiano.
Queste varie fasi sono state seguite dal Parent nei vari centri, come ad Anversa, a Tournai, a Bruxelles, a Namur, a Lille, a Malines, a Donai, ad Arras, ecc., e nei vari temi, tra cui eccellono quelli che si riferiscono alla nuova fioritura religiosa iniziata nella controriforma.
Sfilano così avanti ai nostri occhi, nitidamente illustrati, nelle fotografie, ma invero non felicemente nei disegni (in cui è lonie una voluta inabilità Ingenua) monumenti-tipo quali il palazzo di Erard de la Mark (1536) a Liegi, ed il palazzo Granvelle (1550), vera opera italiana, a Bruxelles, e l'Hôtel de Ville di Anversa costruito da Corneille Floris dal 1561, al 1565, e la parte moderna di quello di Gand, intorno al 1600, e l'Hôtel di Rubens ad Anversa ed i vari hôtels settecenteschi di Douai, e le chiese di S. Loup di Namur (1621-1645) e di S. Michele a Lovanio (1650-1671) che ricordano l'interno dell'Annunziata di Genova, e S. Carlo Borromeo di Anversa, e S. Pietro di Malines, ed il Collegio dei Gesuiti' e la 'chiesa, di S. Gery a Cambrai, e la Cattedrale di Arras in cui già il neo-classico si avanza; e le tante facciate di piccoli edifici a Bruxelles nella Grande Place, a Aire sur la Lys, ad Anversa, a Bruges, a Douai, ove più ancora che nelle costruzioni monumentali, si hanno transazioni tra il carattere locale, minuto e frastagliato, della casetta fiamminga ad alti frontoni e le nuove applicazioni artificiose degli ordini architettonici classici o, più tardi delle volute, dei bugnati, delle nicchie, importati dalle maggiori espressioni barocche.
Attraverso tutta questi varia produzione, di cui è spesso precisa e sicura la documentazione storica, appaiono in alto rilievo le figure dei grandi architetti dei Paesi Bassi. dei Dubroeucq, Floris, Vredeman, Coebergher e degli Husyssens, Cornely e Francquart, ed Hesius, Luc Faid'herbe e Beegrandt; e sopra tutti grandeggia ll genio di Rubens che si ricollega al grande movimento architettonico proveniente da Roma, per il quale l'edificio religioso forniva adatto quadro alla grande e magnifica composizione pittorica. Per Rubens, come per tutte le grandi epoche e per tutti i grandi artisti, architettura e decorazione dipinta sono espressione di un unico sentimento, di una energia unica; le grandi pitture del maestro in S. Carlo Borromeo fondono la sua personalità con la concezione del barocco italiano.
È grande merito delle studio del Parent aver, chiaramente rilevati questi concetti e di averli esposti, col sussidio dl un vasto interessantissimo materiale, in un'opera, la quale' specialmente appare opportuna in questo momento in ciui la ricerca dell'architettura classica e barocca ritorna in pieno vigore ed il pensiero di pura bellezza, astratta che vien dall'Italia coi canoni fissati nel Rinascimento ancora vive e variamente s'innesta con le tendenze regionalistiche. E l'opera pertanto sarà letta con viva soddisfazione e con alto interessamento dagli studiosi e dagli architetti italiani.
GUSTAVO GIOVANNONI

G. GIOVANNONI - La tecnica dette costruzioni presso i romani - con 120 illustrazioni, Roma, Società Editrice d'Arte Illustrata, 1925.

Un libro di questo genere era da lungo tempo, e ardentemente, atteso e non poteva essere scritto che dallo egregio cultore dell'arte e della scienza del costruire, Gustavo Giovannoni, poichè è noto come egli soltanto, fra i moderni studiosi, unisca ad una perfetta conoscenza della tecnica architettonica - come ingegnere e come professore - una conoscenza egualmente perfetta della forma artistica che questa tecnica riveste e la rende arte nel senso più comune della parola. Questo libro viene fuori non per ispirazione di altri libri, ma piuttosto creato a traverso uno studio accurato ed appassionato dei monumenti, che il G. ha tutti personalmente visto, dai più antichi ai più recenti, dai più vicini ai più lontani, e tutti con eguale competenza e dottrina.
Ciò premesso risulta da sè quale sia il valore di questo libro, che riesce utile non solo agli architetti, ma anche agli archeologici, vecchi e nuovi, avvezzi a vedere soltanto la forma esterna degli edifici, senza. penetrate nel vivo di essi, nella interna struttura che più spesso della veste ornamentale ci rappresenta l'intimo e reale valore dell'architettura romana. Ciò è. tanto più veto, in. quanto i Romani non sempre sapevano riunire la tecnica della costruzione alla sua decorazione, eseguite generalmente da maestranze diverse, l'una delle quali cominciava quando l'altra aveva già finito, senza alcun collegamento tra di loro; ed è così che avviene lo strano fenomeno, che l'architettura comincia in Roma il suo cammino ascensionale proprio quando le altre arti, in. questo caso non parallele, come la scultura e la pittura, iniziano quello decrescente..
Il fenomeno che si comincia a delineare fin nell'età aurea dell'arte figurata romana, si accentua ancor più verso la fine del II sec. d. Cr, e diviene, direi quasi, violento nel III e IV sec. d. Cr. Ma questo fenomeno. osserva giustamente- il G., "quasi non esiste nei riguardi degli elementi giovani, direttamente legati alla costruzione essenziale, come l'arco e la vôlta".
Questa, è appunto la natura dell'architettura romana: lo studio controbilanciato dei vuoti e delle masse, la varietà delle forme degli ambienti in pianta e in elevazione, il tutto concepito sempre in modo grandioso e complesso, come una vera espressione spaziale. "Il problema principale - dice il G. - fu quello di coprire grandissime aperture e grandissimi ambienti; e fu risolto mediante l'arco e la vôlta…. che furono, con lenta e sicura conquista, portati a sempre più grandiose e sapienti espressioni".
Di qui nascono, sia il bisogno di pareti solide e ben cementate, attraverso vari sistemii costruttivi che il G. studia particolarmente nel primo capitolo, sia la necessità di variare le piante con linee curve e spezzate, sia infine la disposizione organica di archi e di contrafforti, atti a sostenere la spinta delle grandi masse di calcestruzzo gettate sulle pareti per formare la vôlta. Ed ecco l'innovazione degli archi di scarico, che si trovano, ad esempio, nell'esterno del Pantheon e nel così detto Tempio di Augusto sotto il Palatino, costruiti “per suddividere le masse murarie, legare il paramento col nucleo ed impedire il troppo facile distacco” - ed ecco le nicchie interne ed esterne applicate al corpo centrale per fare da contrafforti, dando origine a quegli edifici a pianta stellare, o ad esedre, così caratteristici in Roma e in Oriente, - ed ecco infine il tipo basilicale nascere e svilupparsi in Roma fino dai primi tempi e dare direttamente origine alla basilica cristiana primitiva, come la recente scoperta del noto santuario sotterraneo presso la Porta Maggiore ha così evidentemente dimostrato.
Ma il G. giunge a conclusioni ancora più precise: i principi gettati dall'architettura romana, oltrepassato il fragile e sottile schema della chiesa medioevale con le sue masse frastagliate e traforate, ritornano poi in pieno nel Rinascimento e per tutto il Cinquecento e Seicento con le grandi chiese barocche, il cui tipo è una evidente derivazione, come struttura spaziale, delle basiliche e dalle grandi sale termali romane, esempi tipici, fra queste ultime, la basilica di Massenzio e il tepidario delle terme di Caracalla.
Il capitolo più originale del volume, dove traspare tutta la vita, che il G. ha saputo date a quei muri,che finora parlavano agli archeologici un linguaggio soltanto limitato, è appunto quello che tratta dell'Organismo dell'edificio romano a vôlta, dove sono studiati tutti i tipi di vôlte con preziose osservazioni sulla loro tecnica e dove si dimostra che i romani, non- solo conoscevano i vari sistemi di copertura: a vela, a padiglione, a nervature, a raccordi circolari e poligonali, ma che già avevano affrontato in pieno e risolto magistralmente i problemi che si presentavano per ogni tipo di vôlta, secondo la pianta e lo scopo dai vari edifici.
Le conclusioni cui arriva il G. sono diametralmente opposte a quelle accettate fino ad oggi, in seguito ad una troppo cieca fiducia nelle opere ben note dello Choisy, del Dieulafoy, dello Strzygowsky ed altri (pag. 59): "Tutte le piccole discussioni di precedenza, tutte le teorie (che fanno capo specialmente al nome di uno studioso illustre, ma aprioristicamente antiromano, lo Strzygowsky) le quali cercano non solo di spiegare l'inizio dell'architettura bizantina come un fenomeno orientale prodottosi in Asia Minore, in Persia, nell'Iram, in cicli che si riannodano al di fuari di Roma, ma perfino di negare ogni originalità ed ogni, individualità all'architettura romana, cadono di- fronte a quest'altro ciclo ora accennato, di formazione e di derivazione maturatasi intorno Roma, o, per dir meglio, vi si uniscono in un ciclo più ampio. È un'idea meschina il voler chiudere in una linea semplice un fatto complesso e multiplo, quale è l'evoluzione di un grande sistema costruttivo ed architettonico, che può avvenire per diverse vie tra loro ricongiungentisi. Ma il voler prescindere da Roma, da questo grande centro di organizzazione, da questa fucina costruttiva che assimila e dà unità a tutte le tendenze, e, come un grande cuore, le trasmette alla periferia, voler frazionare tutto un organismo in singole parti e di ciascuna ricercare tendenziosamente origini esotiche, voler chiudere gli occhi avanti a questo grandioso fenomeno, che mantiene, per quattro secoli una continuità ed una organica unità a tutta l'architettura imperiale, e, per nulla libera varietà delle manifestazioni, ne fa- lo stile più compatto e più creativo e più fecondo di mezzi che mai forse abbia esistito, è voler non dell'archeologia, ma della scienza politica".
Segue il capitolo sull'Organismo dell'edificio a copertura lignea interessante per la forma basilicale di cui il G. altra volta ebbe a studiare la genesi e lo sviluppo, e che qui riassume con più larga fonte di particolari e di osservazioni tecniche e archeologiche. Ed infine vengono studiati gli altri sistemi architettonici, sempre dal punto di vista delle masse e dello spazio. della resistenza misurata in rapporto al vero sforzo delle grandi sale coperte, onde giustamente osserva il G. che "l'architettura romana è più- che altro fatta per gli interni" pur non trascurando l'estetica dell'esterno, cui era destinata una funzione essenziale di resistenza, un sentimento di robustezza calma e sicura. "che tendeva a sostituire in rispondenza all'azione delle vôlte verso l'esterno, i portici interni a quelli periferici o perimetrali, tanto usati negli edifici greci".
Il G. studia varie piante di edifici romani più caratteristici come il Pantheon.: le sale. termali a piante poligonali, i ninfei, i mausolei, seguendone lo sviluppo dai tempi più antichi fino all'età bizantina e romanica. In verità il G. non si preoccupa troppo di stabilire una cronologia tra i singoli edifici, studiandoli tutti uno per uno; non è ciò che l'interessa. Egli ha di mira soprattutto di seguire la forma nel suo sviluppo d'insieme, nei suoi capisaldi, anche se questi vengono un po' prima o un po' dopo, ma in modo che chi legge abbia la vera veduta del complesso architettonico nella sua applicazione integrale e nel suo fine concreto.
Chiudono il volume alcuni capitoletti brevi, ma chiari e sistematici intorno agli elementi strutturali, ai mezzi tecnici e meccanici di costruzione e ad alcuni tipi di antiche opere murarie più intimamente connesse con la loro tecnica, come i ponti, gli acquedotti, le strade, i sistemi di terrazzamento e l'architettura militare, il tutto espresso in una forma facile e chiara, sì da essere accessibile anche al profano di ingegneria, conducendo a mano a mano a gustare anche questa parte e dimostrandogli quanto l'importanza di essa sia grande e decisiva nello studio dell'architettura romana.

A. LUGLI


GORHAM P. STEVENS: Roman Entasis - American Academy in Rome 1924.

L'indagine cui, con acume d'ingegno e con larghezza di mezzi, si è dedicato l'autore è rivolta ad accertare la più importante delle raffinatezze dell'Architettura Romana, l'entasi delle colonne.
È noto che l'effetto statico ed estetico della colonna si aumenta, dando al suo profilo una forma leggermente conica, accentuata da un rigonfiamento intermedio. Essa viene in tal modo ad avere l'andamento di un avambraccio umano ed è noto come gli uomini siano propensi a ritenere bello quel che arieggia alle forme del corpo.
Se e quali leggi geometriche seguissero i Romani nelle formazioni dell'entasi, noi non conosciamo, perché il testo di Vitruvio è lacunoso nel capitolo in cui esse dovrebbero essere dichiarate. Le indagini del Penrose (The Principies of Athenian Architecture - London 1831) su sei colonne greche lo indussero a ritenere che l'entasi greca fosse dapprima iperbolica, più tardi parabolica e talvolta arieggiante alle forme sinuose della cosiddetta concoide di Nicomede.
Uno studio aprioristico indusse lo Choisy a ritenere che l'entasi secondo Vitruvio fosse di andamento parabolico, con due archi di parabole differenti, raccordantesi nel punto di massimo diametro.
Invece il Vignola menziona entasi fondate sull'impiego della proiezione verticale dell'elica (che l'autore chiama quadratrice di Tschirnhansen, e che non è la sinussoide) e della concoide di Nicomede.
Può sembrare strano il ricorso a tante (e un pò complicate) curve, per un'operazione che tiene, in fin del conti, a niente più che un affinamento di forme. La cosa però è degna della maggior attenzione, solo che si pensi che le entasi procedono da forme rigonfie a curvatura pronunciata e poco diversa, dalla circolare, fino a forme tese e perfino a forme inflesse. Il punto di flesso del fusto (da non confondersi con l'attacco del sommocapo) in realtà non è molto marcato nelle colonne descritte dallo Stevens, ed era già stato constatato dalla Scuola degli Ingegneri di Roma (prof. Guj) nel rilievo del tempio della Sibilla a Tivoli.
Porse l'Autore fa troppo torto al metodo di tracciamento che qualifica come adottato dagli architetti italiani odierni, colla riga inflessa a forza. Esso è infatti suscettibile di fornire infinite curve, di carattere assai diverso, che vanno dal circolo alle curve serpeggianti, a seconda del modo di vincolo adottato. E l'esame analitico dell'equazione differenziale della trave inflessa d2y/dx2=(1/E1) M conferma questa possibilità, perchè dimostra che, a seconda della legge con la quale si distribuiscono i monumenti flettenti M e la forma dei vincoli, si può attribuire un valore arbitrario alla quantità d2y/dx2 e perciò, alla curvatura della linea di inflessione. Esso è d'altronde l'unico metodo che consente facilmente il tracciamento dell'intera curva,, invece del tracciamento per punti.
Dopo un breve accenno che lo Stevens fa del carattere delle varie curve geometriche sopra indicate egli espone (in forma grafica ben visibile, per quanto di modesta evidente estetica), i rilievi fatti sui monumenti, che sono otto, ben scaglionati per varie epoche dell'Impero:
1. Tempio di Marte Ultore
2. Tempio tondo alla Bocca della Verità (di Attis secondo il Cecchelli)
3. Colonna Trajana
4. Basilica di Trajano
5. Portico del Pantheon
6. Interno del Pantheon
7. Portico di Ottavia
8. Basilica di Costantino.

I risultati ottenuti dall'Autore nel successivo esame sono questi che:
1. Il massimo dell'entasi è in tutti gli esempi osservati a metà del fusto o un poco più in basso.
2. L'entasi è ottenibile generalmente con profilo parabolico o iperbolico. Le colonne della basilica di Trajano e dell'interno del Pantheon hanno invece forma concoidale con gli assi delle curve coincidenti della colonna e nel massimo rigonfiamento.
La pregevole memoria chiude con una discussione sopra i procedimenti che possono essere stati adoperati dagli antichi per il disegno delle varie forme di entasi.
La cosa è assai semplice per le entasi paraboliche e iperboliche, per le quali valgono note costruzioni grafiche e regole note, anche applicandole a grafici deformati (con. scale diverse per le altezze e per le larghezze), perchè, come osserva l'Autore, il carattere di tali curve non muta per tale trasformazione. Parabolico risultava anche il profilo dell'architrave deformato secondo Vitruvio, con la regola dei gradini dispari (cioè alti come la serie dei numeri dispari) riscontrato dal Penrose nello stilobate del Partenone.
Ma è pur da notare che l'uso dei grafici deformati, mentre riesce utilissimo per esporre le risultanze dei rilievi, ha un valore nullo per il progetto di nuove opere, le quali debbono imprescindibilmente disegnarsi in scala oppure al vero.
Il tracciamento secondo la concoide non ammette la facilitazione del disegno deformato, e deve essere fatto al naturale, oppure con scale omogeneamente ridotte (disegno in. scala propriamente detto) e l'Autore mette innanzi un metodo di ripiego (non molto comodo invero) per il caso di grandi colonne, in cui il centro della concoide riuscirebbe troppo lontano dal fusto per essere facilmente a portata di mano.
Riteniamo che, per quanto l'argomento possa essere oggetto di numerose discussioni, il lavoro dello Stevens dovrà d'ora innanzi essere considerato come contributo particolarmente importante all'argomento, e questo costituisce una speciale benemerenza dell'Autore e dell'Accademia Americana di Roma.

G. A.

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