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PIETRO EGIDI: Appunti su alcune costruzioni di Siria e di Palestina, con 7 illustrazioni |
Nelle costruzioni mussulmane posteriori al secolo XIII, specialmente in Siria e in Palestina, frequente è l'uso, come elemento decorativo, di grosse borchie rotonde più o meno aggettanti dal muro. Basterà ricordare le porte - prima tra tutte, la porta di Damasco (fig. 1) che gli arabi chiamano Bab el Amud, porta delle colonne - della presente cinta di Gerusalemme, costruita da Solimano II nell'anno 947 dell'Egira (1540-41), le mura della cittadella di Aleppo (fig. 2), quelle del sec. XVII del porto di Giaffa, quelle del Kalaat al Chaizar di Larissa (1), quelle moderne di Alessandria.
Quest'elemento decorativo ha una riconosciuta origine costruttiva ed è uno dei più interessanti esempi nella storia dell'Architettura di derivazione secondaria di forme dalle strutture. In molti edifici di secoli anteriori, massime nelle città marine di quelle regioni, si trovano spesso alternate a file di grosse pietre più o meno accuratamente squadrate, file di colonne stese trasversalmente nella grossezza del muro, in modo che affiorando formino serie di borchie rotonde. Notevolissimi esempi ne restano nelle parti conservate delle torri che chiudevano l'ingresso dei porti di Gebeyl (l'antica Biblos) e di Tiro (2); nella torre del porto di Laodicea (fig. 3), oggi Lataqyéh, di fronte all'isola di Cipro (3) e nel ruderi del castello che sorgeva nella lingua che chiude a mezzogiorno il porto di Cesarea, da me fotografati nell'estate del 1920 (fig. 4 e 5). Per quel che si può arguire da quanto è rimasto, almeno nella parte inferiore, ogni due file di grosse pietre a rozzo bugnato disuguale, collegate con abbondante malta biancastra, che formavano il paramento esterno, correva una fila di colonne, differenti fra loro per la qualità della materia e pel diametro. Esse oltrepassavano lo spessore del paramento, e servivano essenzialmente, comegli antichi diatoni, a collegarlo colla muratura tumultuaria che esso copriva. Non pare invece che fossero adoperate nella parte più alta dell'edificio. I grossi blocchi di questa che giacciono vicino alla base, a quanto pare rovesciati dalla mano degli ultimi desolatori di Cesarea, i turchi di Malik al Ashraf nel 1291, i quali vollero così allontanare per sempre il pericolo di un afforzamento dei cristiani nella città, non hanno colonne incastrate nella muratura. Ed è naturale, trattandosi di materiale pesante, difficile a trarre in alto, ed essendo sufficiente il loro impiego nella parte inferiore, cui si voleva conferire la maggiore solidità. A Cesarea stessa lungo tutta la riva del porto, sulla sabbia o nelle basse acque, a centinaia si contano ancora oggi i fusti di colonne, quasi certo già infisse negli edifici medievali, sgretolati dall'incessante erosione delle onde marine (4). Un numero notevolissimo anzi ne fu adoperato a colmare gli interstizi tra alcuni scogli che s'avanzano nel mare in due punti della riva, sì da servire da molo: uno, il più notevole, è ancora oggi la maggiore, anzi l'unica difesa settentrionale del piccolo porto. Non v'ha dubbio che qui, come altrove, tutti questi fusti provenissero dagli antichi monumenti. Ce ne fanno fede la floridezza e lo splendore delle città della costa siriaca negli ultimi tempi pagani e nei primi dell'era volgare; ed è del resto ben noto quanto sviluppo avesse in esse la costruzione a colonne, rispondente all'abbondanza di pietra da taglio propria della regione e caratteristica permanente della sua architettura. Ma quando e da chi si è cominciato a valersi di tali elementi a robustamento delle murature? Quale periodo costruttivo ha, così sistematicamente, adottato un tale procedimento? A tali quesiti si è quasi sempre finora risposto con l'attribuzione ai Crociati, che è stata senza discussione ammessa, salvo qualche dubbio espresso dal Renan timidamente e poi, più esplicitamente, dal Dussaud, il quale faceva notare che un simile metodo non fu mai usato in Europa, e invece si ritrova in Tunisia, a Mahdiyya, in opere certo musulmane. A dirimere senza alcun dubbio la questione varrà una testimonianza documentaria, cui non si pose sufficiente attenzione. Il viaggiatore palestinese Moqaddasi, vissuto intorno al 960, nella sua descrizione dell'impero musulmano narra in che modo e in qua! momento fosse costruito e fortificato il porto di Akkâ (Acri o S. Giovan d'Acri): "Akkâ, città fortificata sul mare.... Non era fortificata nel modo che è ora, finchè la visitò Ibn Tûlûn (signore dell'Egitto, della Palestina e della Siria dall'868 all'883), il quale, avendo visto le difese di Tiro e il suo porto circondato da un muro, desiderò fornire anche Akkâ di un porto simile. Riuniti tutti gli artefici della provincia, propose loro quell'impresa; ma gli fu detto: 'Non vi è alcuno capace di fare una costruzione sull'acqua al tempo nostro'. Poi gli fu fatto il nome di nostro nonno Abû Bekr al Bannâ' (il costruttore), e gli fu detto: Se uno vi è che sappia far ciò, lui è quello. Allora egli scrisse al proprio funzionario, che era al governo di Gerusalemme, di farglielo venire, e quando gli fu giunto innanzi, e fu informato della cosa, quegli disse: È cosa facile. Mi si diano delle travi di sicomoro grosse. E le dispose in fila sulla superficie del mare secondo la misura della fortezza di terraferma, e le saldò una all'altra, facendovi una gran porta verso occidente, poi cominciò a costruirvi sopra con pietra e calcina: ogni volta che aveva costruito cinque serie di pietre, le rilegava mediante rosse colonne per fortificare la costruzione. Man mano che le travi acquistavano peso, calavano: finché, quando Abû Bekr capiva che esse si erano posate sulla sabbia, le lasciava un anno intero, finché avessero acquistato stabilità, poi tornava a costruire al punto in cui aveva lasciato. Ogni volta che la costruzione giungeva al muro antico ve la incorporava, saldandola con esso. Poi collocò un ponte al disopra della porta. Le navi ogni notte entrano nel porto e viene tirata la catena, come a Tiro. Mio nonno dal sultano ebbe in compenso del lavoro mille dinars, vesti d'onore, cavalli e il suo nome fu inciso sulle mura da lui costruite"(5). La testimonianza annulla ogni dubbio: il sistema di incorporare trasversalmente al muro colonne che servissero da catena (fossero colonne a base poliedrica a bella posta tagliate, o colonne a base circolare, trovate nelle rovine degli antichi monumenti) era noto ai costruttori arabi del secolo IX. Ed era quello il tempo in cui già le grandi devastazioni dei fastosi edifici classici sotto la furia barbara dei persiani (616) e degli arabi della prima conquista (637) già erano avvenute, sicché ben più che non ora si avevano sottomano innumerevoli resti di pietre squadrate, di fusti di colonne d'ogni misura e di ogni qualità da utilizzare alla rinfusa con poca fatica. Ancora nella metà dell'XI secolo una sicura testimonianza se ne ha nelle parole dello scrittore persiano Nâsir-i-Hosraw (5): "Nella provincia di Siria la terra è seminata di più che cinquecentomila colonne, capitelli, o fusti: nessun sa a che cosa esse abbiano servito nè donde siano state portate là". Questo dato così importante sembrerebbe dimostrarci che ancora in quel periodo la utilizzazione di detti materiali non fosse tanto diffusa; ed invero non è improbabile che la sistematica adozione del sistema abbia avuto luogo da parte degli Arabi più particolarmente quando, sotto gli imperatori Macedoni ed i Comneni ritornato aggressivo l'impero d'Oriente, dovettero le coste siriache esser munite in fretta di grandi opere di fortificazioni. Ma non vogliamo sofisticare. Limitandoci al problema costruttivo, ci basta accennare come, sebbene non manchino in costruzioni di Asia Minore, ad es., in Aïa Soloul o di Salonicco, o in Costantinopoli, esempi in costruzioni a colonne incorporate, ancora, mancando ogni vera dimostrazione che quelle murature siano bizantine, non può trarsi nessuna ipotesi che derivi tale foggia di costruzione dalla tecnica bizantina. Nei riguardi della così diffusa attribuzione ai Crociati, le conclusioni negative invece si presentano con una attendibilità prossima alla certezza. Se si rifletta che in nessuno degli edifici certamente e interamente crociati nè a Margat (a. 1220), nè ad Athlit (a 1218, fig. 7) nè a Tortosa (sec. XII), nè al Krak dei Cavalieri (sec. XIII in.), nè al castello di Beaufort (sec. XIII) apparisce mai usato quel metodo, neppure come elemento decorativo; se si rifletta che da tutti questi edifizî risulta chiaro come gli artefici occidentali abbiano trapiantato in Oriente senza quasi mutamenti i loro sistemi di fortificare e di costruire - quasi sola innovazione l'uso più frequente del rozzo grossolano bugnato che risparmiava il tempo necessario alla pulitura del paramento; se si rammenti per contro che anche fuori di Siria gli arabi dovunque furono (in Egitto, in Tunisia) ne fecero uso; se si ricordi infine che le fortificazioni incatenate con le colonne appartengono alle città marittime (Cesarea, Tiro, Gebeyl, Laodicea) che sappiamo esser state fortificate dagli arabi avanti alla prima crociata o durante le guerre coi crociati tanto che solo con gran fatica e dopo lunghi, sanguinosi sforzi i cristiani poterono impadronirsene; si è tratti a concludere come probabilissimo che quei resti appartengano alle fortificazioni precrociate piuttosto che alle crociate. Per Cesarea mi pare si possa aggiungere qualche altro argomento. Per quanto io abbia cercato nei grossi blocchi che compongono o che componevano il paramento della torre, non ho trovato alcuna di quelle sigle che gli scalpellini franchi incidevano nelle pietre da loro lavorate. Assenza significativa, come significativa l'assenza di qualsiasi colonna nella cinta che attorno alla città fece murare re Luigi IX nel 1251-52. Essa nelle sue linee fondamentali e intatta, e in special modo conservata la parte inferiore ove le colonne avrebbero trovato utile impiego: la muratura è invece in piccole pietre squadrate senza troppa cura prive di bugnato, mentre assai più grosse, più accuratamente preparate e con bugnatura sono quelle che furono usate nelle torri del castello. È vero che a più riprese si parla delle fonti di fortificazioni crociate in Cesarea nel XII sec. e nei primi anni del XIII, specialmente nel 1218; ma è vero anche che nel 1101, quando per la prima volta la città fu assalita da Baldovino, era già fortificata e in special modo dalla parte del mare, se il re non riuscì ad impadronirsene che dopo aspro assedio, al quale fu necessario l'attivo aiuto di una flotta genovese. Ora, esaminando le rovine del castello, non si saprebbe trovare traccia di costruzione militare più antica di quella delle torri esaminate, seppure nell'interno si incontrino resti di pavimento in musaico e sculture ornamentali appartenenti all'età classica. Tutto spinge quindi a concludere, per quanto con riserva, che ci troviamo di fronte a ruderi delle fortificazioni arabe dell'XI secolo. Se così fosse, si avrebbe un punto fisso non trascurabile da cui partire per la cronologia delle costruzioni palestinesi e siriache. Le parole di Moqadasi, integrate da altre testimonianze importantissime, quali la descrizione che il ricordato viaggiatore persiano Nâsir-i-Hosraw dà del porto di Akkâ ed un cenno dello scrittore arabo Yâqût, che ci attesta sussistere ancora ai suoi giorni, cioè alla fine del secolo XIII, la iscrizione del costruttore Abû Bekr, starebbero a dimostrare il permanere, pur attraverso la dominazione latina, delle costruzioni portuali eseguite dagli Arabi ed in particolare di quelle di Acri, soltanto ampliate ed adattate nell'ultimo periodo di potenza degli ordini-monastico-militari. Ma a confortare questa tesi occorrerebbe un più lungo ragionamento di quello che mi sia consentito ora in questo studio, volto a portare un contributo alla cognizione delle costruzioni medievali di Siria e di Palestina. Torino, dicembre 1921. P. EGIDI. (1)SACHAU, Reise. pag. 69 (2)E. RENAN, Mission en Phénicie, Paris, Imprimerie imp. 1865, pag. 159-61; 547-50. (3)DUSSAUD, Voyage en Syrie, in Rev. Archeol. 3a s., XXVIII (1896), 328. (4) Si vedano le giuste osservazioni fatte dal Renan nel luogo citato. (5) Fu pubblicato da Ed. DE GOEJE in Bibliotheca geographicorum arabicorum, III, Leiden, pp. 162-63. Completamente deformata la traduzione francese dello Schefer in nota alla ediz. del viaggio di Nasir-i-Hosraw appresso citata pag. 49. Più accurata la versione in inglese di Guy de Strange: Palestine under the Moslems, ecc,, London, pagine 328-329, che per me ha riveduta il prof, G. Levi Della Vida. Mentre correggo le bozze, mi giunge notizia che una trad. tedesca ne ha data E. WIEDEMANN, Technisches bei den Arabern, s, Bau der Hafenmauern in Akka, nei Geschichtsblätter für Technik, etc., VI, 1920, pp. 24-25, concordante con la nostra. (6) SEFER NAMEH: rélation du voyage en Syrie, Palestine et Egypte, en Arabie et en Perse de NASSIRI KOSRAU (o Nasir-i-Hosraw) pendant les annnés de l'Hegire 437-44 (1035-1042) publ. et trad. par CH. SCHEFER in Pubbl. de l'Ec. de lang. or VIV, Paris, Leroux, 1881, ser. 2, I, 46. |
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