LA NUOVA SEDE DELLA SOCIETÀ ITALIANA AUTORI
ED EDITORI
Dell’Arch. MOSÈ TUFAROLI LUCIANO e dell’Ing. IGINO
ZANDA
La Società Italiana degli Autori ed Editori ha cambiato sede.
Per chi la ricorda in quegli uffici di Palazzo Guglielmi che erano,
forse perchè ereditati da un ufficio staccato del Ministero della
Giustizia, degni d’una povera pretura di provincia, il cambiamento
è grosso. Là, in via del Gesù, gli arredi e i mobili
sembravano comprati alla rinfusa da un rigattiere fallito e in quelle
stanze decrepite si era annidato un odore di mucido che colpiva subito
all’entrare. Qua, nella nuova sede di Via Valadier, tutto pulito,
tutto lucido e nuovo, tutto rispondente allo scopo, con un tono di giovinezza
e di serietà che deve essere quello, anche fra gli autori, della
nuova generazione.
Rilevare tutto ciò equivale a fare premeditatamente il più
grande elogio alla Società degli Autori. “Mostrami la tua
casa e ti dirò chi sei” dovrebbe essere il motto nuovo
da sostituirsi al vecchio, visto che oggi si pratica troppa gente per
forza, sì che il praticarla non costituisce indizio sicuro. Di
più si deve aggiungere che la Società degli Autori, per
le sue stesse funzioni, ha non soltanto uno scopo di tutela del patrimonio
artistico italiano, il che sarebbe già molto per giustificare
una sede più che decente, ma anche continue relazioni con le
consorelle dell’estero, alle quali non si può e non si
deve dare lo spettacolo d’una Italietta straccioncella e meschina,
come usava nei tempi del “piè di casa” e della cronica
provincialità.
Ora consideriamo che cosa avrebbe fatto il novanta per cento (e forse
la percentuale è benevola) degli enti statali o parastatali d’oggi
se avesse bisogno di mostrare, anche con la sede, la propria dignità
accresciuta: avrebbe costruito una pomposa facciata d’un palazzo,
neanche a dubitarne, barocco, e dietro quella facciata un casellario
di stanze qualsiasi purchè fossero rispettate le finestre premeditate
del prospetto e purchè esistessero alcuni saloni magniloquenti,
detti di rappresentanza. Il resto, stanze degli impiegati e servizi,
disposti alla meglio, negli avanzi della costruzione, giacchè
gli impiegati, gregge mansueto, s’adattano dovunque; e pensano
gli uscieri a mostrare al pubblico soltanto la pompa, a nascondergli
le miseriole e gli inconvenienti. Insomma, poiché siamo a parlare
d’autori, una prosa banale, sciatta e borghese, stampata in edizione
di lusso con un frontespizio copiato da una teatrale stampa del Seicento.
L’arredamento in sedi siffatte è obbligatorio. I saloni
con un bel damasco di cotone, che pare seta, sui muri e sui mobili,
con lusso di stucchi finti e d’oro falso nei soffitti: la stanza
del presidente in stile, naturalmente, del Quattrocento, col soffitto
a cassettoni appiccicati sulla soletta di cemento armato e tinti a legno,
i mobili copiati commercialmente da quelli di Lorenzo il Magnifico o
d’Isabella Gonzaga, ma costruiti, per spender meno, in abete e
impiallacciati di noce, fra i quali un’eccellente tricromia della
Cena (perché no?) di Leonardo da Vinci fa un’ottima figura;
le stanze dei capi ufficio arieggiano anch’esse al Quattrocento
ma con meno scrupolo, giacché un divano e una poltrona in pelle,
talora in pegamoide, servono per i colloqui con gli ospiti di riguardo
e con le signore che si compiacciono talvolta di insistere tanto graziosamente
in una raccomandazione; gli uffici poi arredati con quei mobili a saracinesca,
che si dicono all’americana forse perché neppure in America
usano più, dato che dopo poco non si riesce né a chiuderli
né ad aprirli. Gli esempi? Son tanto facili per la memoria di
chiunque che non vale neppure la pena di citarli.
Tale è lo stile cosidetto ufficiale, tale è la mentalità
corrente che ha adottato un gusto preso a prestito da un rigattiere
e non se ne rimuove, ché questo serve, secondo i più,
a mantenere il rispetto della tradizione e a dare l’impressione
della signorilità a chi invano ammanta di facile retorica la
propria inguaribile essenza pacchiana. Può sopportare l’Italia
nuova simili incrostazioni residue d’una democrazia che crede
con ciò d’aver trovato la via per sembrare aristocratica?
La Società degli Autori con la sua nuova sede dice recisamente
e coraggiosamente di no.
La prima cosa che colpisce nell’edificio rinnovato è la
mancanza di lusso, se per lusso s’intende la congerie degli ornamenti
inutili, la pompa vana delle falsità decorative. Quel che altri
avrebbe speso in falsi stucchi, damaschi finti e mobili d’un Quattrocento
adulterato è stato speso nella perfezione degli impianti e nella
finezza dell’esecuzione.
Conviene dir subito che lo stabile in cui è stata posta la nuova
sede era un fabbricato qualsiasi costruito circa trent’anni fa
per uso d’abitazione; cioè una di quelle case come ce n’è
tante in Prati di Castello, venute su alla meglio e fabbricate a stampo
da un modello comune. Costruita bene in mattoni, si prestava alle trasformazioni:
ma occorreva cambiarle faccia all’esterno e nell’interno.
Saggezza volle che a studiare ed attuare la trasformazione fossero chiamati
due giovani, l’arch. Mosè Tufaroli Luciano e l’ing.
Igino Zanda: il primo per lo studio dei nuovi prospetti, per la decorazione
interna e per l’arredamento; il secondo per la trasformazione
dell’edificio, per gli impianti e per l’organizzazione del
lavoro.
Il Tufaroli è uno di quegli architetti che non s’adattano
nelle formule ormai decrepite e che si pongono di fronte ai problemi
con la serietà di chi li vuole risolvere senza pigrizia e senza
faciloneria. Conviene anzi affermare una volta di più che la
distinzione fra architetti giovani e architetti vecchi non è
questione d’età, ma essenzialmente d’animo. La differenza
sta in questo: che i vecchi, abituati a disegnare sulla falsariga degli
antichi stili ridotti a comodi formulari, sacrificano al presupposto
estetico le necessità della pratica, mentre i giovani vogliono
innanzi tutto la chiara ed evidente rispondenza allo scopo, cercando
di conferire un valore estetico ad ogni necessità della pratica.
Diversità dunque di posizione mentale e spirituale in così
opposti concetti, che fra l’estetismo dei vecchi e il razionalismo
dei giovani non esiste possibilità di conciliazione.
Ciò premesso, guardiamo l’edificio. Così trasformato
non v’è dubbio che esso non accusi, con la sua voluta regolarità
e uniformità di motivi, lo scopo a cui è destinato: una
casa d’uffici.
Uffici in cui si registra e si amministra quel che rende al giorno il
fosforo contenuto nei migliori cervelli d’Italia. Ma quale sia
il migliore la Società degli Autori non sa né deve sapere:
non sceglie, non discute; monetizza le idee, di un’opera come
di una canzonetta, d’un romanzo come di una novella, d’un
trattato scientifico come d’un manuale di cucina. Per lei Gabriele
D’Annunzio ha una casella come, se fosse stato socio, Tito Livio
Cianchettini. Non può pubblicare le statistiche che sarebbero
graditissime al pubblico ma specialmente all’agente delle tasse:
se lo potesse si vedrebbe in un quadro sinottico e comparativo quanto
sappia rendere in moneta sonante l’ingegno di ciascuno. E sarebbe
questa l’unica valutazione che la Società degli Autori
potrebbe offrire all’ammirazione o alla malignità del pubblico.
Per un lavoro così metodico, preciso e ordinato, vera contabilità
dell’industria dell’intelligenza italiana nel mondo e straniera
in Italia, occorrono trecento impiegati. E quando si pensa che il massimo
numero di essi è richiesto per la sezione che s’occupa
dei diritti d’autore sulla musica, cioè sulla voce d’esportazione
intellettuale che varca più diffusamente i nostri confini, c’è
da desiderare che la massa degli impiegati s’accresca come indice
della crescente diffusione della cultura e della civiltà italiana
nel mondo.
Ora, come potrebbero questi impiegati a cui si toglie, per dovere d’ufficio,
il diritto di giudicare delle opere che registrano, lavorare con vero
profitto se l’edificio che ospita il loro lavoro non rispecchiasse
la regolarità scrupolosa del loro compito insieme con quell’estetica
che, secondo il concetto d’oggi, scaturisce, come nelle macchine
più perfette, dalla razionale rispondenza allo scopo? Perciò
la nuova sede della Società degli Autori ed Editori dà
subito l’impressione che deve dare: quella d’un meccanismo
scrupoloso e perfetto. Perciò l’estetica nasce con la raffinatezza
signorile di ogni particolare, dalle maniglie delle porte ai rivestimenti
delle pareti, dal colore dei pavimenti alla semplicità stereometrica
dei mobili; ma tutto è regolato dall’obbedienza alle necessità
della pratica, sì che spreco non c’è e tutto risponde
alla sua funzione.
Un tale mutamento radicale di mentalità in confronto del passato
è appunto da sottolineare con l’ansiosa speranza che serva
d’esempio.
Se si guarda com’era l’edificio prima della trasformazione
si vede il mutamento ancora più chiaro. La vecchia casa da pigione
era di quelle come ce ne sono tante: una casa truccata da palazzo con
la sua brava gerarchia dei piani costituita dalla graduazione delle
cornici in complessità di sagome ed in aggetto, con i motivi
architettonici presi a prestito dai manuali sugli stili, con la malta
mascherata da pietra, insomma con tutte le finzioni tipiche dell’Ottocento.
Tutto ciò è scomparso: sono spariti i bugnati, demolite
le cornici, eliminati i balconi e i balconcini, cambiato l’abito
frusto della festa con un vestito nuovo da lavoro. Una voluta regolarità
da casellario sostituisce la presuntuosità architettonica precedente
sì che appaia anche di fuori che il fondamento della Società
è un archivio; ma la regolarità non è monotonia
poiché la parte basamentale è impellicciata con nobiltà
di lastre di travertino senese lucidato, perché le finestre hanno,
ciascuna nella loro casella, la ricercatezza d’un chiaroscuro
che risulta dagli strombi, perchè il colore candido nelle rientranze,
giallastro sugli aggetti delle fasce, si ricollega con le venature del
travertino.
Il colore ha anche nell’interno una funzione importante. Bisogna
ricordare che noi siamo nati e cresciuti in un’epoca in cui non
si trovava nulla di meglio per le stanze degli edifici pubblici che
la scialbatura di calce sulle pareti e quell’ineffabile tinta
grigia dello zoccolo a olio che fino ad altezza d’uomo doveva
reggere lo sporco e salvare la pulizia. Era il colore prediletto del
Genio militare e di quello civile nelle carceri come nei ministeri,
nelle caserme come nelle scuole. E anche oggi non si può dire
che sia scomparso. Ma nella nuova sede della Società degli Autori,
che io non mi stanco di lodare, e non soltanto per contrasto coi tempi
andati, il colore ha una sua funzione di lotta contro l’uniformítà,
1’abitudine, la mentalità consueta della burocrazia secondo
la quale un ufficio è o un carcere o una falsa reggia; no, un
ufficio è un luogo in cui il lavoro non deve essere soltanto
sopportabile ma gradevole, senza distrazioni, ma anche senza aridità,
senza lusso ma anche senza miseria.
Così le stanze d’ufficio sono, secondo i gradi, vaste camere
bene illuminate, aereate da un impianto che immette l’aria risanata
e assorbe quella viziata, nitidi, lindi, nuovi, con i mobili in canna
d’acciaio cromata e acero colorato, oppure piccole stanze per
i capi d’ufficio con tutta la serietà e la serenità
che si convengono a luoghi d’un lavoro ordinato e severo. Gli
spogliatoi, i gabinetti, sterzati in tutti i piani con un’abbondanza
metodica, non sono i locali di cui ci si vergogna né i meno curati;
e le stanze del dopolavoro, creazione italianissima, hanno i refettorii
e le doccie: e l’agenzia per i rapporti con gli autori e col pubblico
ha la sua sobria eleganza di marmi e di metalli. Nel sottosuolo gli
impianti di aereazione, di refrigerazione, di riscaldamento, hanno trovato
la loro sede appropriata. I termosifoni sono regolati da termostati
che automaticamente mantengono costante la temperatura: un impianto
di posta pneumatica e uno di telefoni stabiliscono le comunicazioni
facili; le segnalazioni luminose regolano le chiamate: una grande abbondanza
di quell’ottimo materiale che è il linoleum serve nei pavimenti
e nei rivestimenti delle zoccolature a diffondere quel senso di pulizia
e di accuratezza che è in tutto l’edificio.
Dettagli? E perché parlarne? direbbe qualcuno della vecchia mentalità,
del pressapoco e del falostesso. Ma non s’è ancora compreso
da troppa gente che proprio in quest’epoca della macchina trionfante
è ridicolo non servirsi della macchina per tutto ciò che
ci offre di comodità e di benessere. Sognare un mondo meccanizzato
e quindi inaridito è un errore altrettanto grande quanto quello
di chi rifiuta i vantaggi della meccanica in nome della nostalgia d’un
tempo defunto e d’impossibile resurrezione. E se la macchina vorrà
sempre più facilitarci la pratica quotidiana per affrancarci
lo spirito, sia benvenuta e benedetta da noi uomini d’oggi che
lottiamo sempre più disperatamente fra i bisogni della realtà
quotidiana e le aspirazioni dello spirito.
È nata così dalla volontà di Roberto Forges Davanzati,
presidente della Società degli Autori ed Editori, e dalla collaborazione
assidua dell’arch. Tufaroli-Luciano con 1’ing. Igino Zanda,
la nuova sede che possiamo ormai mostrare con orgoglio a chi, fra italiani
e stranieri, capisce queste cose e non ha partiti presi. È difficile
capirle? Non credo. Occorre forse un atto di coraggio per affermarle:
ma esse hanno un potere indiscutibile di persuasione. Si possono discutere
nei particolari, non nei principi che sono sani e giusti e devono essere
considerati normali nei tempi nostri.
Soprattutto la nuova sede della Società degli Autori ha un tono
di gioventù che incanta e che le viene dall’affermazione
decisa e spregiudicata dei bisogni pratici ed estetici dei tempi in
cui viviamo. Uno stile unico la informa, fatto di semplicità
e di chiarezza. La saletta del Consiglio, che è la più
solenne di tutte le altre stanze, ha un rivestimento di legno lucidato
alle pareti e i mobili strettamente necessari, disegnati con nobile
austerità; null’altro. E ciò appunto perché
tutto dev’esser serio e severo, non senza quelle note e quegli
accenti che distinguono a prima vista il signore dal pacchiano.
Qualche riserva critica che si può fare, per esempio, circa il
portale un poco timido e un po’ spaesato con le sue curve in quell’architettura
rettilinea, o circa il colore diffuso nell’interno con qualche
stridore, non conta. L’importante è che in questa antica
e gloriosissima Roma, tanto imponente da soffocare spesso la nostra
legittima aspirazione a vivere la vita del tempo nostro, sia chiaro
e dimostrato che gli spiriti son nuovi anche se le mura son vecchie.
Ed è bene che questa dimostrazione, affidata ad un architetto
giovane, di talento e di gusto, parta proprio dalla Società che
amministra l’intelligenza italiana.
ROBERTO PAPINI.