FASCICOLO XVI - DICEMBRE 1931
ROBERTO PAPINI : La Nuova Sede della Societa' Italiana Autori ed Editori,dell'architetto Mose' Tufaroli Luciano e dell'ing. Igino Zanda, con 29 illustrazioni

LA NUOVA SEDE DELLA SOCIETÀ ITALIANA AUTORI ED EDITORI

Dell’Arch. MOSÈ TUFAROLI LUCIANO e dell’Ing. IGINO ZANDA


La Società Italiana degli Autori ed Editori ha cambiato sede. Per chi la ricorda in quegli uffici di Palazzo Guglielmi che erano, forse perchè ereditati da un ufficio staccato del Ministero della Giustizia, degni d’una povera pretura di provincia, il cambiamento è grosso. Là, in via del Gesù, gli arredi e i mobili sembravano comprati alla rinfusa da un rigattiere fallito e in quelle stanze decrepite si era annidato un odore di mucido che colpiva subito all’entrare. Qua, nella nuova sede di Via Valadier, tutto pulito, tutto lucido e nuovo, tutto rispondente allo scopo, con un tono di giovinezza e di serietà che deve essere quello, anche fra gli autori, della nuova generazione.
Rilevare tutto ciò equivale a fare premeditatamente il più grande elogio alla Società degli Autori. “Mostrami la tua casa e ti dirò chi sei” dovrebbe essere il motto nuovo da sostituirsi al vecchio, visto che oggi si pratica troppa gente per forza, sì che il praticarla non costituisce indizio sicuro. Di più si deve aggiungere che la Società degli Autori, per le sue stesse funzioni, ha non soltanto uno scopo di tutela del patrimonio artistico italiano, il che sarebbe già molto per giustificare una sede più che decente, ma anche continue relazioni con le consorelle dell’estero, alle quali non si può e non si deve dare lo spettacolo d’una Italietta straccioncella e meschina, come usava nei tempi del “piè di casa” e della cronica provincialità.
Ora consideriamo che cosa avrebbe fatto il novanta per cento (e forse la percentuale è benevola) degli enti statali o parastatali d’oggi se avesse bisogno di mostrare, anche con la sede, la propria dignità accresciuta: avrebbe costruito una pomposa facciata d’un palazzo, neanche a dubitarne, barocco, e dietro quella facciata un casellario di stanze qualsiasi purchè fossero rispettate le finestre premeditate del prospetto e purchè esistessero alcuni saloni magniloquenti, detti di rappresentanza. Il resto, stanze degli impiegati e servizi, disposti alla meglio, negli avanzi della costruzione, giacchè gli impiegati, gregge mansueto, s’adattano dovunque; e pensano gli uscieri a mostrare al pubblico soltanto la pompa, a nascondergli le miseriole e gli inconvenienti. Insomma, poiché siamo a parlare d’autori, una prosa banale, sciatta e borghese, stampata in edizione di lusso con un frontespizio copiato da una teatrale stampa del Seicento.
L’arredamento in sedi siffatte è obbligatorio. I saloni con un bel damasco di cotone, che pare seta, sui muri e sui mobili, con lusso di stucchi finti e d’oro falso nei soffitti: la stanza del presidente in stile, naturalmente, del Quattrocento, col soffitto a cassettoni appiccicati sulla soletta di cemento armato e tinti a legno, i mobili copiati commercialmente da quelli di Lorenzo il Magnifico o d’Isabella Gonzaga, ma costruiti, per spender meno, in abete e impiallacciati di noce, fra i quali un’eccellente tricromia della Cena (perché no?) di Leonardo da Vinci fa un’ottima figura; le stanze dei capi ufficio arieggiano anch’esse al Quattrocento ma con meno scrupolo, giacché un divano e una poltrona in pelle, talora in pegamoide, servono per i colloqui con gli ospiti di riguardo e con le signore che si compiacciono talvolta di insistere tanto graziosamente in una raccomandazione; gli uffici poi arredati con quei mobili a saracinesca, che si dicono all’americana forse perché neppure in America usano più, dato che dopo poco non si riesce né a chiuderli né ad aprirli. Gli esempi? Son tanto facili per la memoria di chiunque che non vale neppure la pena di citarli.
Tale è lo stile cosidetto ufficiale, tale è la mentalità corrente che ha adottato un gusto preso a prestito da un rigattiere e non se ne rimuove, ché questo serve, secondo i più, a mantenere il rispetto della tradizione e a dare l’impressione della signorilità a chi invano ammanta di facile retorica la propria inguaribile essenza pacchiana. Può sopportare l’Italia nuova simili incrostazioni residue d’una democrazia che crede con ciò d’aver trovato la via per sembrare aristocratica? La Società degli Autori con la sua nuova sede dice recisamente e coraggiosamente di no.

La prima cosa che colpisce nell’edificio rinnovato è la mancanza di lusso, se per lusso s’intende la congerie degli ornamenti inutili, la pompa vana delle falsità decorative. Quel che altri avrebbe speso in falsi stucchi, damaschi finti e mobili d’un Quattrocento adulterato è stato speso nella perfezione degli impianti e nella finezza dell’esecuzione.
Conviene dir subito che lo stabile in cui è stata posta la nuova sede era un fabbricato qualsiasi costruito circa trent’anni fa per uso d’abitazione; cioè una di quelle case come ce n’è tante in Prati di Castello, venute su alla meglio e fabbricate a stampo da un modello comune. Costruita bene in mattoni, si prestava alle trasformazioni: ma occorreva cambiarle faccia all’esterno e nell’interno. Saggezza volle che a studiare ed attuare la trasformazione fossero chiamati due giovani, l’arch. Mosè Tufaroli Luciano e l’ing. Igino Zanda: il primo per lo studio dei nuovi prospetti, per la decorazione interna e per l’arredamento; il secondo per la trasformazione dell’edificio, per gli impianti e per l’organizzazione del lavoro.
Il Tufaroli è uno di quegli architetti che non s’adattano nelle formule ormai decrepite e che si pongono di fronte ai problemi con la serietà di chi li vuole risolvere senza pigrizia e senza faciloneria. Conviene anzi affermare una volta di più che la distinzione fra architetti giovani e architetti vecchi non è questione d’età, ma essenzialmente d’animo. La differenza sta in questo: che i vecchi, abituati a disegnare sulla falsariga degli antichi stili ridotti a comodi formulari, sacrificano al presupposto estetico le necessità della pratica, mentre i giovani vogliono innanzi tutto la chiara ed evidente rispondenza allo scopo, cercando di conferire un valore estetico ad ogni necessità della pratica. Diversità dunque di posizione mentale e spirituale in così opposti concetti, che fra l’estetismo dei vecchi e il razionalismo dei giovani non esiste possibilità di conciliazione.
Ciò premesso, guardiamo l’edificio. Così trasformato non v’è dubbio che esso non accusi, con la sua voluta regolarità e uniformità di motivi, lo scopo a cui è destinato: una casa d’uffici.
Uffici in cui si registra e si amministra quel che rende al giorno il fosforo contenuto nei migliori cervelli d’Italia. Ma quale sia il migliore la Società degli Autori non sa né deve sapere: non sceglie, non discute; monetizza le idee, di un’opera come di una canzonetta, d’un romanzo come di una novella, d’un trattato scientifico come d’un manuale di cucina. Per lei Gabriele D’Annunzio ha una casella come, se fosse stato socio, Tito Livio Cianchettini. Non può pubblicare le statistiche che sarebbero graditissime al pubblico ma specialmente all’agente delle tasse: se lo potesse si vedrebbe in un quadro sinottico e comparativo quanto sappia rendere in moneta sonante l’ingegno di ciascuno. E sarebbe questa l’unica valutazione che la Società degli Autori potrebbe offrire all’ammirazione o alla malignità del pubblico.
Per un lavoro così metodico, preciso e ordinato, vera contabilità dell’industria dell’intelligenza italiana nel mondo e straniera in Italia, occorrono trecento impiegati. E quando si pensa che il massimo numero di essi è richiesto per la sezione che s’occupa dei diritti d’autore sulla musica, cioè sulla voce d’esportazione intellettuale che varca più diffusamente i nostri confini, c’è da desiderare che la massa degli impiegati s’accresca come indice della crescente diffusione della cultura e della civiltà italiana nel mondo.
Ora, come potrebbero questi impiegati a cui si toglie, per dovere d’ufficio, il diritto di giudicare delle opere che registrano, lavorare con vero profitto se l’edificio che ospita il loro lavoro non rispecchiasse la regolarità scrupolosa del loro compito insieme con quell’estetica che, secondo il concetto d’oggi, scaturisce, come nelle macchine più perfette, dalla razionale rispondenza allo scopo? Perciò la nuova sede della Società degli Autori ed Editori dà subito l’impressione che deve dare: quella d’un meccanismo scrupoloso e perfetto. Perciò l’estetica nasce con la raffinatezza signorile di ogni particolare, dalle maniglie delle porte ai rivestimenti delle pareti, dal colore dei pavimenti alla semplicità stereometrica dei mobili; ma tutto è regolato dall’obbedienza alle necessità della pratica, sì che spreco non c’è e tutto risponde alla sua funzione.
Un tale mutamento radicale di mentalità in confronto del passato è appunto da sottolineare con l’ansiosa speranza che serva d’esempio.
Se si guarda com’era l’edificio prima della trasformazione si vede il mutamento ancora più chiaro. La vecchia casa da pigione era di quelle come ce ne sono tante: una casa truccata da palazzo con la sua brava gerarchia dei piani costituita dalla graduazione delle cornici in complessità di sagome ed in aggetto, con i motivi architettonici presi a prestito dai manuali sugli stili, con la malta mascherata da pietra, insomma con tutte le finzioni tipiche dell’Ottocento. Tutto ciò è scomparso: sono spariti i bugnati, demolite le cornici, eliminati i balconi e i balconcini, cambiato l’abito frusto della festa con un vestito nuovo da lavoro. Una voluta regolarità da casellario sostituisce la presuntuosità architettonica precedente sì che appaia anche di fuori che il fondamento della Società è un archivio; ma la regolarità non è monotonia poiché la parte basamentale è impellicciata con nobiltà di lastre di travertino senese lucidato, perché le finestre hanno, ciascuna nella loro casella, la ricercatezza d’un chiaroscuro che risulta dagli strombi, perchè il colore candido nelle rientranze, giallastro sugli aggetti delle fasce, si ricollega con le venature del travertino.
Il colore ha anche nell’interno una funzione importante. Bisogna ricordare che noi siamo nati e cresciuti in un’epoca in cui non si trovava nulla di meglio per le stanze degli edifici pubblici che la scialbatura di calce sulle pareti e quell’ineffabile tinta grigia dello zoccolo a olio che fino ad altezza d’uomo doveva reggere lo sporco e salvare la pulizia. Era il colore prediletto del Genio militare e di quello civile nelle carceri come nei ministeri, nelle caserme come nelle scuole. E anche oggi non si può dire che sia scomparso. Ma nella nuova sede della Società degli Autori, che io non mi stanco di lodare, e non soltanto per contrasto coi tempi andati, il colore ha una sua funzione di lotta contro l’uniformítà, 1’abitudine, la mentalità consueta della burocrazia secondo la quale un ufficio è o un carcere o una falsa reggia; no, un ufficio è un luogo in cui il lavoro non deve essere soltanto sopportabile ma gradevole, senza distrazioni, ma anche senza aridità, senza lusso ma anche senza miseria.
Così le stanze d’ufficio sono, secondo i gradi, vaste camere bene illuminate, aereate da un impianto che immette l’aria risanata e assorbe quella viziata, nitidi, lindi, nuovi, con i mobili in canna d’acciaio cromata e acero colorato, oppure piccole stanze per i capi d’ufficio con tutta la serietà e la serenità che si convengono a luoghi d’un lavoro ordinato e severo. Gli spogliatoi, i gabinetti, sterzati in tutti i piani con un’abbondanza metodica, non sono i locali di cui ci si vergogna né i meno curati; e le stanze del dopolavoro, creazione italianissima, hanno i refettorii e le doccie: e l’agenzia per i rapporti con gli autori e col pubblico ha la sua sobria eleganza di marmi e di metalli. Nel sottosuolo gli impianti di aereazione, di refrigerazione, di riscaldamento, hanno trovato la loro sede appropriata. I termosifoni sono regolati da termostati che automaticamente mantengono costante la temperatura: un impianto di posta pneumatica e uno di telefoni stabiliscono le comunicazioni facili; le segnalazioni luminose regolano le chiamate: una grande abbondanza di quell’ottimo materiale che è il linoleum serve nei pavimenti e nei rivestimenti delle zoccolature a diffondere quel senso di pulizia e di accuratezza che è in tutto l’edificio.
Dettagli? E perché parlarne? direbbe qualcuno della vecchia mentalità, del pressapoco e del falostesso. Ma non s’è ancora compreso da troppa gente che proprio in quest’epoca della macchina trionfante è ridicolo non servirsi della macchina per tutto ciò che ci offre di comodità e di benessere. Sognare un mondo meccanizzato e quindi inaridito è un errore altrettanto grande quanto quello di chi rifiuta i vantaggi della meccanica in nome della nostalgia d’un tempo defunto e d’impossibile resurrezione. E se la macchina vorrà sempre più facilitarci la pratica quotidiana per affrancarci lo spirito, sia benvenuta e benedetta da noi uomini d’oggi che lottiamo sempre più disperatamente fra i bisogni della realtà quotidiana e le aspirazioni dello spirito.

È nata così dalla volontà di Roberto Forges Davanzati, presidente della Società degli Autori ed Editori, e dalla collaborazione assidua dell’arch. Tufaroli-Luciano con 1’ing. Igino Zanda, la nuova sede che possiamo ormai mostrare con orgoglio a chi, fra italiani e stranieri, capisce queste cose e non ha partiti presi. È difficile capirle? Non credo. Occorre forse un atto di coraggio per affermarle: ma esse hanno un potere indiscutibile di persuasione. Si possono discutere nei particolari, non nei principi che sono sani e giusti e devono essere considerati normali nei tempi nostri.
Soprattutto la nuova sede della Società degli Autori ha un tono di gioventù che incanta e che le viene dall’affermazione decisa e spregiudicata dei bisogni pratici ed estetici dei tempi in cui viviamo. Uno stile unico la informa, fatto di semplicità e di chiarezza. La saletta del Consiglio, che è la più solenne di tutte le altre stanze, ha un rivestimento di legno lucidato alle pareti e i mobili strettamente necessari, disegnati con nobile austerità; null’altro. E ciò appunto perché tutto dev’esser serio e severo, non senza quelle note e quegli accenti che distinguono a prima vista il signore dal pacchiano.
Qualche riserva critica che si può fare, per esempio, circa il portale un poco timido e un po’ spaesato con le sue curve in quell’architettura rettilinea, o circa il colore diffuso nell’interno con qualche stridore, non conta. L’importante è che in questa antica e gloriosissima Roma, tanto imponente da soffocare spesso la nostra legittima aspirazione a vivere la vita del tempo nostro, sia chiaro e dimostrato che gli spiriti son nuovi anche se le mura son vecchie.
Ed è bene che questa dimostrazione, affidata ad un architetto giovane, di talento e di gusto, parta proprio dalla Società che amministra l’intelligenza italiana.

ROBERTO PAPINI.

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