FASCICOLO XIV - OTTOBRE 1931
CLINIO COTTAFAVI: Il Palazzo Ducale di Mantova. - Impressioni e cenni sui restauri , con 20 illustrazioni

IL PALAZZO DUCALE DI MANTOVA

IMPRESSIONI E CENNI SUI RESTAURI


Nel complesso e grandioso gruppo di costruzIonI - sono oltre 14.000 metri quadrati di tetto - conosciuto con l’unica denominazione di Palazzo Ducale (fig. 1), la parte che si affaccia a Piazza Sordello, che è la più antica, è quella che meno ne lascia comprendere la vastità, poichè nessuno può con l’occhio travederne nè la profondità nè lo sviluppo. Eppure, dopo la mole vaticana, è questa la più vasta e sontuosa dimora che una famiglia, sia pure sovrana, abbia voluto e saputo creare per il proprio comodo ed a sua gloria.
Dal 1328 al 1700, e cioè per un periodo di quasi quattrocento anni, la famiglia Gonzaga, in un continuo e crescente fervore verso nuove bellezze d’arte, eresse, modificò, incorporò altre costruzioni entro e presso le precedenti, creando un enorme dedalo di appartamenti, di corridoi, di loggiati, di cortili, e di poi, nel centro stesso di quelle costruzioni, innalzò una basilica, la quale non è delle minori chiese della città che pure ne aveva e ne conserva di vastissime.
Descrivere tutto ciò in brevi note anche di sole impressioni generali, non sarebbe possibile senza trascurarne parti di non comune bellezza, e più malagevole impresa sarebbe volerne storicamente ritessere le vicende fino agli ultimi restauri, in una rivista che voglia presentarne chiaramente, seppur in fuggevole scorcio, le rare bellezze architettoniche e decorative. Ci occorre pertanto dividere la materia e distribuirla attorno ai due gruppi principali di questo complesso di costruzioni: Corte vecchia, Castello di S. Giorgio e Corte nuova, e di volo ricordare le principali opere di restauro compiute in quest’ultimo trentennio.

I.

Corte vecchia comprende le costruzioni bonacolsiane di Piazza Sordello: la Magna Domus e il Palazzo del Capitano, innalzate alla fine del 1200 la prima e la seconda al principio del 1300, ambedue volute da Guido Bonacolsi. Erano di puro carattere romanico, ma una prima modificazione questi edifici la subirono sul finire del secolo XIV per volere di Francesco Gonzaga che, al secondo piano, chiuse le originarie bifore a tutto sesto, e ne sono tuttora visibili le traccie, fece aprire le attuali a sesto acuto e congiunse i due fabbricati, che prima erano staccati da un vicolo sul quale, probabilmente, era gettato un ponte di comunicazione. L’attuale ripristino della facciata (fig.2) è dovuto all’architetto Achille Patricolo, che vi attese nei primi anni di questo secolo, valendosi di elementi costruttivi non scomparsi durante i lavori di adattamento praticati verso la metà del secolo XVIII; dall’architetto Paolo Pozzo (figg. 3 e 4) al quale però non fu dato tradurre, per fortuna, in atto il suo completo progetto di rinnovamento della facciata (fig. 5). Giovò molto anche all’esattezza del restauro il quadro di Domenico Morone (fig. 6), La cacciata dei Bonacolsi, che mostra in scorcio sul lato destro il Palazzo quale ancora era sul finire del 1400. Alla ricostruzione dei tre balconi si attende di questi giorni.
Questi due palazzi, volti ad ovest e dei quali quello del Capitano è delimitato ad est dall’antico brolo (fig.7), ora giardino della Lega Lombarda, possono dirsi la cortina che nasconde il grandioso gruppo di costruzioni che scende verso il lago (fig. 1, locali dal n. 1 al 51), per una profondità di 300 metri, fino alla Nova Domus, che ha una magnifica facciata (fig. 8) volta verso il Giardino del Padiglione, opera di Luca Fancelli. elevata intorno al 1500, e che posteriori lavori, specialmente con la chiusura delle due altane e l’innalzamento del corpo centrale, velarono ma non distrussero e che attende anch’essa la sua redenzione.
Fra questi due estremi, Piazza Sordello e Giardino del Padiglione, i Gonzaga eressero un gruppo imponente di fabbriche che si elevano solenni e maestose e che in parte soltanto sono visibili dall’esterno e cioè sul lato di nord-ovest da Piazzetta del Paradiso oppure, di sopra ai loggiati settecenteschi di Piazzetta Santa Barbara, sul loro fianco di nord-est (fig. 9).
Corridoi, porticati, giardini e loggiati (figg. 10, 11, 12, 13 e 14) legano e donano aria e luce ad appartamenti e a stanze che dal capriccio artistico di principi furono, nella successione degli anni, variamente tormentate, sopraponendo decorazioni a decorazioni e riunendo o dividendo piani e locali e stanze in una febbre di cose nuove o cedendo anche a mutate condizioni del vivere.
Ma se in tutti i Gonzaga fu ardore di opere edilizie e decorative così da rendere per tre secoli almeno la loro casa centro di vita artistica, Guglielmo, terzo duca, dal 1550 al 1587 è quello che lasciò maggiori orme, in tutto il Palazzo, di una indomita attività trasformatrice della dimora che gli avi suoi gli avevano pur preparata così bella, affidandosi, venuto a morte Giulio Romano, che già aveva servito Federico II, il figlio di Francesco e d’Isabella d’Este, agli architetti Bertani prima e Sebregondi di poi.
Di tutto il Palazzo Ducale è Corte Vecchia invero la parte che più ha risentito della bizzaria umana dal trecento fino all’epoca di Maria Teresa e al periodo napoleonico, due momenti questi che, nei soffitti specialmente, fermarono la sorte di molti ambienti nella loro forma cinquecentesca o seicentesca, e mutarono completamente aspetto e dimensioni a molti altri. Di questi alcuni restano anche oggi; ma ad altri fu possibile ridare, almeno nelle linee generali, negli ultimi restauri, l’antico carattere.
Restarono cioè e non subirono nè restauri nè modificazioni dalla fine del secolo XVIII i due gabinetti e la stanza dell’imperatrice, la sala dei fiumi, le sale dello zodiaco, dei mori, degli specchi, dei principi (fig. 15) e quelle degli arazzi (fig. 16). Queste ultime riebbero però, dopo e per la gloria di Vittorio Veneto, i meravigliosi tessuti che ad esse danno nome e che l’Austria aveva trasportato a Vienna nel 1866. È tutta una esaltazione di immagini, di colori, di fantasiose e pur contenute composizioni, cornice degnissima a statue greche di rara purità di linee. Poichè in Corte Vecchia, per una felice convenzione fra Comune e Governo, sono ora custodite le molte sculture greche e romane che formavano già il museo cittadino, distribuite non a testimonianza fredda di antiche bellezze, ma a dar vita ad ambienti ricchi di colori e di decorazioni ed a riaverne riflessi singolarissimi.
Tutti gli altri ambienti hanno richiesto lavori di ripristino, non pochi nè lievi, per ridurli così come oggi li vedono, ammirando, visitatori nostrani e stranieri.
Demoliti dal Patricolo, intorno al 1903, al momento cioè del ripristino della facciata, gli ammezzati costruiti, lungo il grandioso ambiente - m. 68 di profondità - oggi detto Corridoio di Passerino, emersero di sotto agli intonachi delle pareti e sul soffitto in legname, luminose traccie d’arte decorativa trecentesca che ci consentono di pensare alle stanze e di figurarci l’antico quartiere originario, mentre nel retrostante appartamento, detto delle Principesse o della Guastalla, tolte dalle pareti le stoffe e dai soffitti le calci applicate dal Pozzo, per le sue decorazioni neoclassiche e fredde a guazzo, sono riapparsi gli ambienti creati dal Viani, integri nelle dimensioni, nei fregi superiori, nei soffitti in legname dipinto. Non solo, ma sulle tormentate pareti di fondo sono anche qui venute in luce traccie di decorazioni trecentesche e, importantissima, una scena frescata della crocifissione di gustoso carattere del trecento toscano.
Profonde trasformazioni furono fatte dal Pacchioni nell’appartamento Ducale, che nell’epoca napoleonica era stato malamente rinnovato. Della costruzione cinquecentesca non restano che i soffitti con le imprese del Crogiuolo, d’oro su fondo azzurro, e del Labirinto e forse nella prima delle sale i pannelli con la storia di Giuditta, aggiudicati al pittore cremonese Menghi. Coprono le pareti in tutte tre le stanze belle stoffe antiche ed ebbe quella del Labirinto, come pannelli, quattro tele attribuite a Palma il giovane, e quella del Crogiuolo, a fregio, immediatamente sotto il soffitto, fu dotata di tele attribuite a Lorenzo Costa il giovane, tele queste che probabilmente vengono dalla sala dello Zodiaco. Una bella serie di quadri del Bazzani, del fiammingo Pourbous, del Rubens, del Fetti, oltre due arazzi tessuti a Mantova su cartoni di Giulio Romano, completano l’arredamento parietale: un assieme molto nobile e di buon gusto.

Per la sistemazione in Corte Vecchia del Museo di sculture greco-romane, nel 1924, si riaprì l’antico accesso al Palazzo, su dall’ultimo ripiano dello scalone secentesco, ricostruendo la scala di otto gradini che immette alla saletta di accesso, a destra, verso le sale della raccolta egizia, dell’arte moderna e della rameria, ambienti però di nessun carattere artistico, ed, a sinistra, al salone, un tempo detto delle Cariatidi per le brutte immagini a guazzo che, nell’ottocento, sostituirono la decorazione del Viani che vi aveva dipinte a tempera figure di imperatori romani. Di tale decorazione però negli ultimi restauri non furono rinvenute che scialbe traccie frammentarie non certo sufficienti per un restauro.
E se il Pacchioni nulla trovò delle decorazioni anteriori nelle sale dei principi e in quella dei papi, a chi gli successe, non riuscì trovare precedenti motivi decorativi nelle due salette dell’alcova e nella grandiosa ma nuda Galleria nuova (fig.17), ambienti che, durante la guerra, col salone degli Arcieri, furono quartieri di soldati americani. All’estremità di questa trovasi la vastissima sala degli Arcieri alla quale si accede direttamente anche dal piano terreno per la scala che vi sale dall’atrio aperto verso l’antico brolo, ora detto Piazza della Lega Lombarda. Questo salone, dovuto al Viani ma che alcune decorazioni parietali settecentesche avevano indotto ad attribuirlo ad uno dei Bibbiena, l’Austria lo aveva lasciato mancante di tutti i ripiani del soffitto e di alcune cariatidi; fu restaurato (fig. 18) su poche ma evidenti traccie nel 1925, a commemorare il venticinquesimo anniversario del regno di Vittorio Emanuele III. È riuscito un ambiente grandioso sì ma un po’ freddo: tuttavia nella sobrietà delle tinte e dei rilievi non pare indegno di custodire i sei arazzi depositati in Palazzo, a custodia, dalla Chiesa Cattedrale di Mantova, Furono tessuti a Parigi per ordine del vescovo frate Francesco Gonzaga su cartoni dell’Andreasino o del Ghisi.
Dall’appartamento Ducale fino alla scaletta di Eleonora Medici, soppresso lo stanzino da bagno dell’epoca napoleonica e fatta risorgere la cappella Guglielmina col superbo soffitto a botte in stucchi dorati su fondo verdognolo, non molto venne fatto, onde, specialmente nelle stanze di Giove e di Leda, restarono le fredde tempere, sui soffitti a cannicci, dei primi anni dell’ottocento. In quella di Leda venne riaperto l’accesso alla scaletta che scende all’appartamento dei Nani. Nell’appartamento invece detto del Paradiso furono fatti restauri pittorici importanti e nella scaletta che vi accede (detta di Eleonora Medici perché la tradizione vuole che qui fosse l’appartamento della moglie di Vincenzo) che riebbe l’antica luce e, più, nelle due interessanti salette delle città ove risorsero nelle lunette belle piante di città, mentre nei soffitti piatti, a cannicciati, larghi tratti furono rintonacati e ridipinti. Le varie traccie emerse di decorazione parietale, in parte anteriore forse agli attuali soffitti, e in parte coeve, furono convenientemente lasciate in mostra e raccordate con tinte neutre. Ebbe nuova vita il camerino delle Cicogne nel quale si tolsero alcune figure del fortunoso volatile, orrendamente ridipinte a tempera nel settecento e parvero più belle le poche originali superstite, dipinte ad affresco nel cinquecento. Nella sala degli elementi delle diverse decorazioni parietali riapparse, sotto strati di calce recenti, si prescelse quella superiore come meglio intonata agli stucchi ed ai festoni di frutta della vôlta, pur lasciando in mostra un tratto delle altre due sottostanti, su di una parete opportunamente poi ricoperta con una tela ad olio, non bella ma coeva.
È da questa stanza e dalle prossime, incluse tutte nella costruzione fancelliana, che viene a questo appartamento il nome di Paradiso, perché dalle sue finestre l’occhio abbraccia un paesaggio di singolare bellezza virgiliana, calma e un po’ soffusa di malinconia, in cui hanno giuoco mirabile, le placide acque del lago inferiore dai riflessi argentei e freddi e solo a volte rotti da brevi guizzi di azzurro celestrino; più lontano, il verde fresco dei canneti e, sul fondo, all’orizzonte, un fluttuare timido di salici, d’olmi e di svettanti pioppi cipressini.
Gravi mutamenti subirono le seguenti due stanze nelle quali, o Vincenzo II o poco appresso Carlo di Nevers (non è ben certo), trasportarono, di cinque forse facendone due, i famosi gabinetti che Isabella d’Este, intorno al 1521, aveva per suo godimento fatti costruire al pianterreno di Corte Vecchia in contiguità dell’appartamento detto di S. Croce. Rimossi di quassù nel 1917 e trasportati a Firenze quando, dopo Caporetto, si temette di incursioni aeree nemiche, si pensò, quando ritornarono, di ricomporli al pianterreno, nei loro ambienti originari, perché là tra la magnifica sala di Leonbruno e la deliziosa intimità del giardinetto segreto, meglio dicessero la loro signorilità e la raffinatezza artistica della bella e dotta Marchesana. Al loro posto, però, quassù, al Paradiso, vennero collocate le belle copie dei gabinetti stessi che erano state fatte a spese della Provincia di Mantova nel 1911, per il padiglione della Lombardia, alla Esposizione di Roma.
Parchi furono i restauri nella quarta stanza, quella delle piastrelle, dal soffitto a riquadri ottagonali, a piccole rosette, a leggere dorature su fondi grigio-verde; nello stanzone con le tele dipinte a paesaggi, probabilmente del Viani, e col soffitto in legno a grandi riquadri decorati sul tipo di quelli dell’appartamento della Guastalla, e nei tre passetti (delizioso quello del sole) che guidano allo scalone quattrocentesco a forti alzate.
È nella Casa dei Nani, giù nei mezzanini, che la signorile bizzarria dei Gonzaga meglio si fa conoscere, casa eretta intorno al 1600, non forse a vera e propria abitazione dei minuscoli buffoni di corte, ma a soddisfare un capriccio del momento. La costruzione è ricavata in un vasto ambiente terreno a volto; vi danno accesso dal loggiato orientale del cortile d’onore, attraverso un grazioso atrio a volto ricco di stucchi, tre minuscole scale, affiancate, dalla breve alzata di sette centimetri; ed è composto di basse e strette camerette (fig. 19), di corridoietti, di sgomberi, di una cappelletta; ma ricco di stucchi e di cornici graziose, e intonato il tutto in cosi sapienti proporzioni da renderlo un vero, dilettoso gioiello.
Lo Stato, dal 1903 ad oggi, ha dato cospicui fondi per i restauri statici, murari e dei tetti specialmente, che ormai malamente reggevano; il Comune assunse le spese di riordinamento delle collezioni artistiche; la Società degli amici di Palazzo Ducale, sorta sui primi del secolo ad iniziativa di Alessandro Luzio, sovvenuta dalla Provincia, da enti pubblici e da privati, attese con crescente fervore ai restauri pittorici e li iniziò, prima della guerra, valendosi del pittore Comolli di Milano, nel corridoio dei Mori (fig. 20). Questo magnifico ambiente che ricorda le loggie vaticane, dovuto a Giulio Romano, era stato ridotto, in epoca non precisata, in parte a latrine e in parte a deposito di carbone e di legna ed era così rimasto fino ai primi anni di questo secolo.
Ma su tutte le risurrezioni delle quali gli amici del Palazzo, in Corte Vecchia, vanno lodati, sta singolarissima quella della Camera dei Falconi, con decorazioni di sapore correggesco, forse dovuta al Ghisi. Nel periodo napoleonico, questa bella camera che lega quella dello Zodiaco di Costa il giovane all’altra stanzetta dei Mori, era stata divisa con un muro in due ambienti ed ebbe la vôlta tagliata in due all’incrocio o raccordo del nuovo vôlto: un intonaco spesso di calce ricopri pareti e vôlta per far luogo ad una di quelle fredde decorazioni che vediamo ancora nelle sale di Giove e di Leda e in quella dell’arte moderna. Il restauro pittorico è del mantovano Arturo Raffaldini che ormai dal 1921 con grande perizia tecnica e con intelletto d’amore lavora a ridar vita al nostro Monumento.

CLINIO COTTAFAVI.

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