ANTONIO MARAINI SCULTORE
Una volta, essendo stato domandato ad Antonio Maraini un motto che riassumesse
il suo credo artistico, egli rispose: “L’architettura è
la sincerità dell’arte; la sincerità è l’architettura
della vita.”
Queste parole hanno bisogno di una spiegazione e di un commento.
La plastica italiana degli ultimi cinquanta anni non è stata
afflitta soltanto dall’incertezza dei mezzi tecnici, ma anche
da quella dell’indirizzo ideale. Nella lotta contro il convenzionalismo
della scultura accademica e contro la schiavitù del manierismo
lisciato e inespressivo, come è avvenuto anche per la pittura,
essa smarrì spesso il concetto iniziale della reazione.
Quale era infatti il suo scopo? Combattere un idealismo affettato, che,
muovendo dal desiderio di rievocare la bellezza plastica antica; si
era congelato in ricette; sottrarsi alla rigida convenzione scolastica,
alla anatomia perfetta ma vuota di vitalità, incapace di espressione
e quindi priva di ogni ragione di esistenza.
Per conseguire codesto fine era necessaria una forte ondata di realtà
percepita ed espressa, magari un impeto di brutalità ritempratrice.
Un genio non ne avrebbe avuto bisogno, ma i geni sono rari nella storia
dell’arte moderna; perciò, per rinsanguare la plastica
che, ormai lontana dalla natura, non era più che un ricettario
di formule convenzionali, un artifizio di virtuosità tecnica
inutile perchè scopo a se stessa, nulla parve più adatto
del verismo.
Fu come un’eco profonda della famosa epopea naturalistica e popolare
dello Zola, la cui influenza si estendeva a tutte le manifestazioni
del pensiero: romanzo, teatro, pittura, scultura. E poichè nella
pittura l’impressionismo era apparso, in fondo, come una rivoluzione
contro i principi della tecnica metafisica delle Accademie, anche gli
scultori si volsero all’impressionismo, ansiosi di sostituire
alla costruzione lenta e frammentarla di un insieme plastico una visione
rapida e comprensiva.
Ma presto si comprese che l’arte plastica non poteva ridursi tutta
alle Impressioni d’Omnibus di Medardo Rosso, e un bisogno non
soltanto intellettuale ma anche sensuale riconciliò con le figurazioni
ideali gli artisti che nelle rinate allegorie ricondussero in onore
la retorica del nudo, e, modellando grovigli muscolosi in attitudini
violente, si illusero di emulare Michelangelo e Rodin.
D’altra parte anche codesto idealismo plastico, mentre voleva
proclamare la rinascita dello spiritualismo che feconda tutto il pensiero
moderno, non sapeva sottrarsi alle formule del naturalismo integrale.
La sprezzatura impressionistica e la nudità eroica, il meschino
materialismo documentario e la pretesa allegorica ubbidivano sempre
ugualmente al verbo verista. Ma verismo è parola pericolosa,
e ogni programma che si imperni su di essa diventa inevitabilmente angusto
e ingannatore quando scambi il mezzo con lo scopo e smarrisca la visione.
Codesta visione non ha smarrita Antonio Maraini, il quale, avendo per
di più compreso che la conquista dello stile deve essere compiuta
dall’intimo, non dall’esterno, ha posto tutto l’interesse
non in una contraffazione del vero “realistica” ma nel trovare
rispondenze architettoniche in un equilibrio e in una armonia di masse.
Così, mentre gli altri discutevano, polemizzavano, creavano teorie
a giustificare ogni stravagante indirizzo, mentre la maggior parte degli
artisti, divenuti a un tratto letteratoidi, illustravano e chiosavano
ogni loro pennellata e ogni colpo di scalpello, Maraini, non contaminato
da bacilli filosofici, non irrigidito da schemi cerebrali, non preoccupato
da ostentazioni di falsa cultura, - lui che ha cultura vera, costruita
su solidissime basi universitarie rimaneva attaccato alle sue idee senza
obbedire a criteri opportunistici e di moda.
* * *
Ricordo una vecchia illustrazione satirica della Jugend, nella quale
sono indicate con sette autoritratti le fasi successive dell’evoluzione
artistica di un immaginario pittore moderno, il cui nome Modeslaw Manierewicz,
è tutto un programma. Dal giorno della pubblicazione di quella
arguta e profonda presa in giro della irrequietezza frenetica che induce
gli artisti a seguire a pochi mesi di distanza le vie più contradditorie,
sono passati moltissimi anni, ma, se essa appare oggi invecchiata, è
soltanto perchè la serie delle trasformazioni di Modeslaw Manierewicz,
passato dalle lisciature accademiche all’imitazione olandese,
dal realismo del plein air alle spennellazzature impressionistiche,
dal simbolismo ingenuo alla pittura a filamenti e a puntini multicolori,
dovrebbe essere continuata fino ai giorni presenti attraverso le successive
fasi evolutive della moda.
Maraini, invece, fino dalla sua prima opera, il Perseo, che eseguì
da solo, senza maestri, nel 1910, mentre frequentava nell’Università
di Roma i corsi della facoltà di legge, e che ottenne la medaglia
d’argento all’esposizione universale di Bruxelles, poneva
solidamente i principi della sua arte, destinati a rimanere, nella loro
essenza, immutati, perchè egli doveva seguirli senza deviazioni
durante tutta la sua carriera. Nella ridda delle metodologie e degli
imparaticci truccatori Antonio Maraini non si preoccupava di essere
ne un iniziatore nè un eccentrico nè un rivoluzionario,
ma voleva essere soltanto uno scultore italiano, fedele alle belle tradizioni
dei padri, capace di comporre, aiutato da un istinto felice, secondo
una visione decorativa.
* * *
C'è una legge dei corsi e dei ricorsi non soltanto nelle grandi
vicende dell’umanità, ma anche nella storia dell’arte.
Ai periodi nei quali si compiace della semplicità dentro cui
si raccoglie la maggiore intensità di vita, succedono quelli
in cui l’artista torna a preferire il tormento della forma indagata
fino allo spasimo per presentare tutte le espressioni dell’aspetto
fisico dell’uomo. Cosi la scultura, per esempio, di volta in volta,
accentua e rinnega la sua funzione architetturale, oscillando fra lo
stilismo e il realismo più audace.
Nel V secolo a. C. e al principio del Quattrocento la scultura mira
a liberarsi dal vincolo architettonico, e l’arte è tutta
impegnata nella lotta per il conseguimento della terza dimensione. Ma
dopo la parentesi realistica, conseguita l’indipendenza da ogni
legame e l’individualità della statua come pura espressione
plastica, essa torna a schemi compositivi di un più raccolto
carattere monumentale e architettonico. E ciò che sta accadendo
ai nostri giorni.
La scultura di Antonio Maraini fino dalle prime opere è concepita
in funzione architetturale; perciò è in essa un costante
desiderio di misura, un sentimento unitario che si manifesta in semplificazioni
di linee larghe e pacate, in limpide trasfigurazioni ideali. Il tempo
non ha fatto che sviluppare queste predilezioni dell’artista,
arricchendole di quanto l’esperienza via via veniva insegnandogli.
Tale esperienza ha consistito sopra tutto in lavori affidatigli da architetti,
poichè il Piacentini, il Giovannozzi, il Ferrati, il Cerpi e
altri hanno sentito come nel Maraini l’architettura trovi una
rispondenza che gli permette di mettersi all’unisono con le loro
intenzioni. Perchè fare della scultura architettonica non significa
applicare delle statue o dei gruppi qualsiasi a un’architettura
qualunque, come è avvenuto nel monumento a Vittorio Emanuele
II in Roma, che per questo solo fatto è divenuto il campionario
di cattivo gusto della plastica italiana di venticinque anni or sono,
ma vuol dire concepire e sentire architettonicamente, dare alla figura
umana il senso statico della colonna ed il valore decorativo di un motivo
nato insieme col pilastro, con l’architrave, con la volta che
esso è destinato ad adornare.
Una tale intima compenetrazione può attuarsi soltanto per mezzo
del ritmo, che appare allo scultore contemporaneamente all’idea
cui la creta darà la forma. Come nella musica e nella poesia,
esso è l’elemento ideale, l’elemento vivo dell’opera
sua. Quest’opera non diventa creazione se in essa non penetra
l’anima espressiva e musicale, se le forme non si inseriscono
nelle forme secondo una legge misteriosa di ritmo e di proporzione,
come le note in un accordo.
Ne deriva la necessità di procedimenti tecnici e di accorgimenti
di mestiere indispensabili per accordare la ragion d’essere figurativa
dei valori plastici con quella superiore di una ideale armonia di spazi,
di linee, di chiaroscuro. Bassorilievi, gruppi, figure, tutto il Maraini
studia accuratamente con bozzetti in scala, applicati al plastico dell’edificio
cui sono destinati. Tale studio preliminare è per lo scultore
parte importantissima della preparazione dell’opera, e si addentra
fino nei minimi particolari, senza modelli, con un lavoro di pura fantasia
per potersi “musicalmente” intonare con le linee architettoniche.
Ma lo accompagnano studi dal vero delle varie parti della composizione,
in disegno e in plastica. Il Maraini infatti sa che la perfetta bellezza
non si compone solo di potere suggestivo, ma anche di armonia formale,
e che c’è un verismo il quale non esclude, ma cerca la
bellezza e la poesia, vuole l’intensità espressiva, concilia
la virtù dell'osservazione e la rappresentazione della realtà
con la commozione dell’anima e con lo splendore del sogno. Per
questo egli riesce a disciplinare la forma, a semplificare la tecnica,
a tendere allo stile senza dimenticare la realtà. Dalle statue
per il teatro Savoia in Firenze alla Pietà presentata al Concorso
per il monumento alla Madre Italiana, dalla sala individuale nella XVI
Biennale Veneziana agli stucchi per la Banca d’Italia in Roma,
dalla Via Crucis per la Cattedrale di Rodi alla Tomba di Puccini, dalle
statue per il palazzo delle Assicurazioni di Stato in Roma ai bassorilievi
per la Cappella De Ferrari a Staglieno, al fregio per il palazzo della
Società Anonima Montecatini in Milano, alla porta per la Basilica
di S. Paolo in Roma, alle Cariatidi della sede dell’Istituto delle
Assicurazioni sociali in Milano, è sempre lo stesso desiderio
di infondere una vita serena in bei corpi possenti, di sottrarsi a ogni
convenzione, di non ammettere limitazioni alle ricerche dell’armonia,
di muovere dalla realtà per creare immagini musicali secondo
un ritmo astratto sgorgato dalla fantasia. Insomma la bellezza per lui
non è che l’idea espressa in forma sensibile e vera.
Sprezzatura, fascino dell’abbozzo geniale, suggestione dell’impreciso,
tutte bellissime cose, ma nella scultura ogni fantasma emotivo deve
assumere un valore plastico e lo sforzo dell’artista deve tendere
a creare costruzioni di valore non accidentale, ma universale.
La scultura grottesca, puerile ed informe che un oscuro apparato filosofico-critico
cerca di imporre all’attenzione del pubblico, il quale nella sua
inesauribile dabbenaggine si rassegna spesso ad ammirare quello che
non capisce perchè teme di far brutta figura confessando di non
comprendere, l’arte da scansafatiche che sopprime addirittura
le difficoltà che la realtà impone, avrà la vita
di un’ora.
Antonio Maraini con la sua opera in cui equilibrio, ponderazione, volume,
gusto, senso decorativo, elementi poetici e plastici, capacità
di trasformare idealmente il vero si conciliano nella ricerca della
forma severa, ha sempre almeno la nobile ambizione di giungere all’arte
sana ed espressiva, quella che nel suoi effetti dura immutata attraverso
i tempi e il cui segreto non è nelle formule, ma nell’anima
dell’artista.
* * *
Questo, non altro, significa essere uno scultore italiano, restare
fedele alle belle tradizioni dei padri.
Anche nei sommi l’arte come linguaggio, come mezzo di espressione,
come potenza di domare la materia, è tradizione. I grandi maestri
non trasmettono le idee, le quali sono immobili e luminose dentro le
anime geniali, ma insegnano il modo di esprimerle, educano la mano a
obbedire al divino cenno interiore.
Soltanto, mentre i mediocri, i quali non scoprono le idee, riproducono
del maestri la parte formale, coloro che possono chiamarsi veramente
artisti - e oggi sono pochissimi, sebbene in nessun’altra epoca
si sia veduta tanta abbondanza di quadri e di statue - scorgono la luce
delle opere magistrali e ne sentono la potenza risvegliatrice.
Concentrandosi tutto nell’arte, vivendo di essa e per essa in
quel suo ampio studio che apre le sue vetrate sulla vista di Firenze,
tra i cipressi e gli olivi, il Maraini, nella sua gioia di respirare
dinanzi alla natura sente risvegliarsi intera, nel profondo, l’anima
che vive negli antichi capolavori dell’arte toscana.
Ma quel ricordo non serve se non a rendere più limpidi i suoi
occhi al cospetto del vero. Il vero, il reale, diventa per l’azione
magica dell’antico ciò che tra le conquiste dello spirito
merita il nome di verità.
Come non scorgere nell’Abbondanza e nella Famiglia l’influenza
delle composizioni piramidali di Raffaello? E chi non sente una larga
eco di cadenze donatelliane nella severa Maternità della Galleria
Nazionale di Roma, o un riflesso dell’arte michelangiolesca nei
tipi e negli atteggiamenti del S. Giovanni e del S. Giorgio che fiancheggiano
l’ingresso della Galleria in Piazza Portello a Genova, e nel gruppi
d'angolo del Palazzo delle Assicurazioni Sociali in Milano? E il diacono
che sostiene la Croce dietro S. Pietro in atto di fondare la Sede papale
in Roma, rappresentato su uno dei pannelli della Basilica Ostiense,
non richiama forse uno dei due angeli del Battesimo di Gesù di
Piero della Francesca nella National Gallery di Londra? Ma non è
questo che conta. L’iconografia non spiega nulla, perchè
l’arte è qualche cosa che non si coglie con i confronti,
e l’analisi non riesce mai a chiarirne il mistero. Come avviene
in ogni vero artista, il Maraini studiando l’antico muove alla
ricerca di se stesso. Egli si sviluppa ed estrae la sua personalità
dagli elementi del ricordo e della imitazione, i quali, successivamente
assorbiti per servire alla sua formazione artistica, riappaiono in un
mondo nuovo, come antiche vibrazioni sottoposte a un nuovo ritmo e a
una nuova legge.
Oggi che nei comodi seggi bene o mal conquistati, i più furibondi
salvatori dell’arte italiana, divenuti impiegati fissi della bellezza,
mettono pancia leggendo le vite dei Santi Padri, è facile proclamarsi
seguace della tradizione, ma quando quei fieri rivendicatori si lasciavano
crescere i capelli e andavano perfino in letto con la fiaccola e con
la scure in pugno, ci voleva una gran dose di coraggio a fare un’arte
schietta, semplice, italiana, evidente, la quale aspirasse a essere
come una realtà in se compiuta e non come un segnacolo e un emblema.
Questo coraggio ha potuto avere Antonio Maraini non soltanto come scultore,
ma anche come critico nobilissimo e acuto, e come segretario della Biennale
Veneziana. Basta pensare ai programmi delle due ultime esposizioni,
alla istituzione dei premi, alla obbiettività con la quale ha
cercato di far sentire agli artisti il bisogno di non immiserirsi in
pure questioni tecniche, alla formazione di quell’archivio di
fotografie, di studi, di notizie, che diverrà il più importante
repertorio, il centro più vitale di ricerche nel campo dell’arte
contemporanea. E se l’effetto non ha sempre corrisposto alle sue
intenzioni, bisogna pur pensare che la critica non ha mai avuto il potere
di creare gl’ingegni, e che un organizzatore di esposizioni deve
a forza contentarsi di quello che l'arte gli offre.
Insomma, il desiderio di chiarezza che il Maraini cerca di esprimere
nell’arte è in fondo in fondo anche nelle sue azioni, nel
senso di misura e di continuo perfezionamento che egli consegue in se
stesso e intorno a se. L’artista in lui nasce dall’uomo,
da tutto quello che, come uomo, egli accoglie in sè a nobilitare
la sua vita.
Di quanti altri si potrebbe oggi dire altrettanto?
ARDUINO COLASANTI.