FASCICOLO VII - MARZO 1931
VINCENZO FASOLO : Sistemi ellittici nell'architettura, con 23 illustrazioni

SISTEMI ELLITTICI NELL’ARCHITETTURA


Il concetto di costruzioni architettoniche derivate da forme planimetriche ellittiche con copertura costituita da sistemi di volte o di cupole ellissoidiche, o da sistemi ancor più complessi e fantasiosi composti con intersezioni di superfici curve, appare solo alla metà del Cinquecento, quando l’architettura, avendo rivissuto ogni esperienza e ardimento del romano, tenderà a nuove espressioni.
Non si trovano nell’antichità classica e romana, e tanto meno negli sviluppi bizantini e medioevali, esempi che accennino a questo problema: una nota Sala delle Terme di Caracalla che la sua forma planimetrica avvicina a una curva ellittica (realmente trattasi di un perimetro risultante da una associazione di tratti d’arco), per ragioni di analogia con altri tipi noti, deve pensarsi coperta da una volta a crociera fiancheggiata da absidi a curva ribassata, precorrenti analoghe soluzioni del Barocco. Un perimetro nettamente ellittico si vede in una sala di un edificio termale a Ostia: ma nulla può dedursi nei riguardi della sua copertura.
L’arte romana non poteva ammettere la dissimetria derivante da simile sistema architettonico, nè d’altra parte la pratica costruttiva fondata sopra procedimenti elementari semplici poteva affrontare nei suoi esordi i problemi costruttivi che questa forma implica nel realizzare superfici e raccordi di superfici geometricamente complesse, occorrenti ai passaggi delle volte di copertura: ardita, ingegnosa, plastica nelle planimetrie e negli alzati di forme centrali, nel giocare le curve di esedre e di volte (si pensi alle piante di Villa Adriana), resta tuttavia limitata agli schemi basati esclusivamente sulle figure geometriche elementari o sulla loro combinazione.
La prima impostazione di questa concezione si trova negli studi del Peruzzi e del Sangallo e nel libro V del Serlio la sua consacrazione teorica come tipo di Tempio (fig. 1). Nelle innovazioni michelangiolesche il sentimento di questo nuovo organismo appare nelle absidi della Cappella Sforza, nascenti nei primi disegni dal tracciamento di curve ellittiche; e nella rotonda centrale ideata per S. Giovanni dei Fiorentini a cui si addossano, alternandosi a vani rettangoli, cappelle ellittiche: i segni nervosi e impetuosi di mano di Michelangelo in vari tentativi di cappelle e di absidi si svolgono sempre in linee ellittiche, raramente nella regolarità dell’arco.
La prima realizzazione costruttiva di edificio ellittico si ha nel S. Andrea di Via Flaminia (1550) commesso da Giulio III al Vignola, il quale primo applicò il nuovo tema ad un edificio isolato; sorprende nel rigido artista la soluzione ardita di piantare la cupola ellittica sul rettangolo, raccordando le curve delle quattro ellissi di guida con pennacchi, alterando così audacemente la derivazione classica del tema.
Allo stesso Vignola è attribuita la Chiesa di S. Anna dei Palafrenieri (1572) (fig. 2) proseguita dal figlio, dove il tema è sviluppato con maggiore ampiezza ed enfasi per il delinearsi esterno della cupola, A. Dosio nella Cappella Niccolini in S. Croce (1585) porta a Firenze la novità di questa architettura.
Sullo scorcio del cinquecento e sul limite del movimento Barocco, Francesco da Volterra disegna e spicca S. Giacomo degli Incurabili (1600) ideato in modo da essere coronato da una volta ellittica, (figg. 3-4), e la Cappella di S. Pudenziana, nella quale l’ellissi della volta si determina decorativamente su una vela ricavata da una superficie sferica tagliata dai quattro lati del vano rettangolo (fig.5).
Ottavio Mascherino, architetto di grande attività sotto il pontificato di Gregorio XIII traccia una pianta “d’un tempio fatto per la Chiesa dello Spirito Santo in strada Giulia, ovato”. Il giro delle colonne Interne formanti ambulacro ed il movimento delle cappelle, lasciano intendere quali risorse architettoniche potessero derivare da questa ricca e varia planimetria, tra le più originali e complesse di questa prima serie di edifici ovali, (fig. 6) - derivata da un disegno conservato all’Acc. di S. Luca).
Questo problema architettonico sembra eccitare la fantasia degli architetti che seguono il ciclo michelangiolesco, quasi fossero attratti dalla opposizione ch’esso presenta alle leggi della simmetria e all’ordine classico. Federico Zuccari ne determina l’interesse artistico: “la pianta ovale, graziosissima tra le altre, eletta per più propria convenienza, avanza di gran lunga tutte le altre forme e similitudini proposte da Vitruvio e da altri eccellenti ingegni nel formar templi”. Parve che nell’ellisse si fondesse: “la forma basilicale allungata richiesta dai precetti della Chiesa, e la cupola circolare della Romanità” (Melano Rossi: “Tempio della Pace”) e che essa riassumesse i caratteri e l’ampiezza del tipo planimetrico di S. Sofia, considerata nella somma delle absidi addossate al vano centrale e alle espansioni rettangolari degli altri due lati.
Ma l’ellissi ha pure i suoi critici, specie quando è applicata ad edifici il cui asse maggiore è parallelo all’ingresso.
“La figura ovale ha tutto il comodo della rotonda poiché in queste pur anche l’occhio concepisce tutto l’edifizio ed inoltre è più capace del doppio di quello. È però contro ragione di formare l’ovato in traverso, cosicchè l’ingresso sia nel fianco maggiore, e per conseguenza per lo minor diametro della figura; poichè l’occhio nel primo ingresso misura l’edificio nella parte dove è più stretto, e convien poi che cerchi il più ampio ne’ due lati, mirandoli in due vedute, e per conseguenza deve formare due distinte figure, per comprenderne il tutto”. (Passeri).
Ma il critico più feroce del sistema ovale è l’Abate che redasse pel Duca Amedeo II un rapporto sulla costruzione del Santuario di Mondovì di pianta ovale nel momento in cui doveva affrontarsi il problema del voltare la grandiosa cupola, cogliendo veramente dal punto di vista architettonico i punti di maggiore difficoltà che si presentano nella composizione architettonica di questo sistema: “la quarta difficoltà è per la poca bellezza, mancandovi quelle cose nelle quali, secondo Tullio, la bellezza consiste: che sono una ottima disposizione delle parti con certa suavità di colori. Perchè quanto alle parti si vedranno quivi per colpa massima della figura ovale, li pilastri variati tra loro di sito, di grossezza, di ornamenti: li vani senza alcuna grata corrispondenza fra di loro; li archi sopra li pilastri che nella sommità si ritireranno chi più chi meno dal piombo delle imposte loro. La volta (come per tutto il resto) sempre più o meno tondeggiante per un verso che per l’altro; con li spazi tra le costole sempre diversi; e sempre più o meno ottusa e svelta. E sporti più acuti od ottusi da una parte che dall’altra. Onde credo sii provenuto che gli antichi tanto vaghi di varietà niun esempio ci hanno lasciato di fabbrica ovata che porti volta. E quelli delli moderni che l’hanno fatto non ne hanno conseguito nè lode nè soddisfazione corrispondente alla spesa. Anzi al di fuori non gli hanno dato forma di cupola (come si vede in quelle di S. Giacomo delli Incurabili e di Santa Potentiana) per il brutto effetto che avriano fatto nel mostrarsi sempre più ottusi ed acuti da una parte che dall’altra”.
Veramente Francesco Gallo (1672-1750) seppe vincere le difficoltà del severo ispettore del Duca Amedeo II costruendo sul tamburo del Santuario di Mondovì eretto da Ascanio Vitozzi nel 1596, una delle più complesse e grandi (diam. di m. 36) forme di edificio a cupola: i poderosi contrafforti disposti dal Gallo a fiancheggiamento della volta riescono a mascherare la dissimetria dell’ovale in modo da ottenere un effetto che lo avvicina alla forma sferica, alterando le proporzioni ideate dal Vitozzi, che prevedevano uno slancio ora distrutto dalla gravità dei piloni angolari del Gallo.
Siamo anche con questa opera, per la quale furono proposti vari interessanti progetti sempre in forma ovale dal San-Front, (architetto del Duca Carlo Emanuele che volle questo edificio come Pantheon della sua Casa) nel ciclo degli edifici ellittici che si svolge sotto l’influenza vignolesca (fig.7). Già il Fornovo, aiuto del Vignola, costruiva a Parma nel 1566, nell’Annunziata, planimetricamente composta di due semicerchi raccordati in una forma ellittica (diametri m. 31 e m. 21), una delle più compiute opere del gruppo degli edifici centrali, per lo svolgimento delle absidi fiancheggianti il vano centrale dominato dalla cupola (compiuta più tardi da G. Rainaldi) e per l’effetto dei contrafforti risalenti tra abside ed abside verso il vertice.
Ascanio Vitozzi, orvietano, nato nel 1639, architetto militare, valoroso capitano, architetto di Carlo Emanuele I e creatore di numerose opere a Torino, allievo del Vignola, seguì per il Santuario di Mondovì il tipo architettonico instaurato dal maestro, applicando alla nuova forma ellittica alcune reminiscenze bramantesche, quali le torri angolari che costituiscono la particolarità di questo monumento (fig. 8 e fig. 9).
Allo spirito barocco questa forma doveva offrire possibilità e risorse di composizioni architettoniche piene di movimento. Il Bernini infatti se ne impossessa e con un senso contenuto e misurato compone il S. Andrea al Quirinale (1658) in forma ispirata alle rotonde romane ma con la variante delle profonde cappelle che traforano il piedritto facendo corona al vano centrale; la testata a grande ordine contro cui s’adagia il portico a trabeazione curva lascia apparire lo sviluppo del nucleo dell’edificio: la visuale laterale e più ancora la proiezione mostrano la giusta misura e l’unità di questa concezione e la compiuta fusione tra la rotonda che domina e il portico che le fa fronte.
I vertici degli isolati nel trivio convergente verso piazza del Popolo, bene si adattavano alle forme rotonde della Madonna dei Miracoli e a quella ellittica della Chiesa della Madonna di Montesanto (1662-64) erette da G. Rainaldi a guisa di piloni all’ingresso della antica Via Flaminia (fig.10).
Trattasi ancora della trasformazione delle rotonde classiche nel movimento seicentesco, ma il distacco del tamburo dell’inferiore ordine delle cappelle, il curvarsi in forma ribassata della cupola, l’ordine del portico a timpano che le precede, rievocazione degli analoghi pronai classici, il contrasto con le torri campanarie, ne fanno una delle tipiche espressioni romane che ricorreranno negli ulteriori sviluppi di simili edifici e che, portate da artisti italiani e forestieri oltre i confini, vi faranno riecheggiare il nome di Roma.
Il tema continua nel settecento col S. Celso in Banchi del De Dominicis costruito sotto Clemente XII (1730) e colla chiesa del Nome di Maria al Foro Traiano (1733, del Derizet) che tanto efficacemente, se pure con forme fredde si contrappone alla Madonna di Loreto, assumendo nell’ambiente e nella forma edilizia della vecchia piazza Romana una nota dominante.
Magnifici effetti scenografici per risalti di sfondi son nel vestibolo della Chiesa di S. Croce, del Passalacqua.
In S. Giovanni Laterano, nelle Cappelle Santori e Lancellotti si hanno forme intrecciate di tondi e di nicchie in volte e perimetri ellittici; nella Cappella della SS. Pietà, G. A. De Rossi raggiunge una delle più suggestive note marmoree in una intonazione di grigi e di verdi tra le più notevoli della grande arte secentesca degli intarsi. Larga composizione piena di fasto è quella di S. Maria dell’Orazione del Fuga in via Giulia (costr. 1737) (fig. 11) magnificamente giocato tra piedritto e volta ellittica e controcurve delle Cappelle: e aggiungiamo anche la Maddalena (1676) del De Rossi, del periodo di Innocenzo XI, che rappresenta nel settecento la continuazione in Roma della forma ellittica, così adatta allo spirito della fastosa e movimentata epoca.
Fuori Roma ricordiamo: in Palermo, S. Salvatore, dell’Amato (1688) pianta e cupola eclittica con tre nicchioni e la Chiesa dei Benedettini (1616).
A Torino la Chiesa del Corpus Domini del Vitozzi (1607), di S. Rocco del Castellomonte e S. Trinità del Vitozzi stesso (1610).
A Orvieto: S. Giovanni Evangelista. A Piacenza: S. Giovanni del Ricchini (1630) e tutta una ricca e varia serie di simili edifici che riassumiamo nella fig. 13.
Una interessantissima Chiesa della Celletta perduta nella vasta piana ferrarese, presso Argenta, fondata da Niccolò Balestri e opera dell’Aleotti della metà del ‘600, per l’addossarsi delle absidi circolari e rettangolari al tamburo, predominante in altezza, molto ricorda monumenti romani noti a noi da disegni e memorie del Rinascimento (fig. 12).
A Vicenza, Carlo Borella, architetto della Basilica di Monte Berico, detto il Borromini vicentino, risolse in modo originale il collegamento della Pianta ellittica con la forma rotonda della Cupola centrale nella Chiesa dei SS. Vito e Lucia (1675-1680) trasformando il vecchio schema del Rinascimento dell’edificio a croce con cupola su piloni, in una analoga, ottenuta però dall’innesto della croce e della cupola in un ovale (vedi schema a fig. 14).
Come organismo gli edifici fin qui considerati si raggruppano quanto a forma secondo il concetto delle rotonde romane applicato alla varietà della curva ellittica, quanto a struttura nell’aggiungersi a una sala centrale di elementi minori: cappelle, esedre e talvolta nell’irradiarsi dal corpo centrale di corpi architettonici annessi costituenti una unità a sè, come ad esempio nel Santuario della Croce a Crema e con sviluppo settecentesco nella Consolata a Torino del Guarini (eretta nel 1679-1806). Questa, rinnova in forme settecentesche le fantasie di Leonardo di ideali duomi nei quali intorno ad una cupola centrale dominante si raggruppano, formando corona, minori edifici coperti anche essi da cupole e le cattedrali fantasticate nelle invenzioni di artisti del Rinascimento dal Di Giorgio all’Ammannati.
Le innovazioni del Borromini trovano in questo schema possibilità pienamente conformi alla sua irrequietezza. Il suo metodo di composizione basato sul sistema di intrecci di figure geometriche e su intersezioni di superfici e di volumi (S. Ivo alla Sapienza risulta da un complesso intreccio di un cerchio con triangoli e con minori cerchi tracciati sui vertici di questi) conduce al tracciamento della, complessa figura planimetrica di San Carlino che risulta dal raccordo di tre cerchi (fig.15): similmente di figura planimetrica e volumetrica mista di elementi piani e curvi è la Chiesa dei Sette Dolori; e i vari studi per l’Oratorio di Propaganda Fide si svolgono anch’essi con varietà di invenzioni sul tema ellittico che il Borromini applica insistentemente nei Progetti del Palazzo Carpegna alla planimetria di un cortile, di un vasto vestibolo e salone, e nel grande refettorio dei Filippini.
Il metodo Borrominiano è ripreso e portato a più complesse conseguenze dalle architetture del Guarini. La Chiesa di S. Filippo a Casale (ineseguita), la Santa Sindone, il S. Lorenzo a Torino, sono il risultato di una composizione fatta di compenetrazioni geometriche nelle quali dapprima sole forme poligonali, prismi, poi forme arrotondate, cilindri di sezione circolare o ellittica, si intersecano fra loro determinando vertici e movimento di pareti che si svolgono poi nelle volte in un analogo intreccio di forme sferoidiche ed ellissoidiche.
Un giovane architetto di Praga Oldrich Stefan (1), già noto a noi per altri studi nei quali sono posti in rilievo le relazioni che l’Architettura del ‘500 e del ‘600 in Boemia ha con l’arte italiana e la parte che artisti italiani ebbero nello svolgimento di quel periodo artistico, in un recente studio con la revisione di alcune attribuzioni e ponendo in evidenza l’opera di alcuni nostri maestri, ci dà modo di innestare alla serie degli edifici a forma ovale fin qui ricordati, un gruppo di edifici della Boemia e di Vienna che sono in stretta e diretta dipendenza pei concetti generali architettonici che li ispirano e per particolari affinità di forma, col gruppo delle citate architetture del Guarini.
Propaggini del nostro Barocco per forma e ispirazione e per intervento di artisti italiani, sono le chiese in forma ovale di Vienna, nelle quali riscontriamo l’affinità con i tipi romani nelle planimetrie e in alcuni caratteri dei prospetti che ripetono specialmente le linee della S. Agnese borrominiana per il curvarsi concavo della facciata e per l’inquadramento del motivo della cupola fra le torri campanarie. Appartengono a questo Gruppo S. Pietro a Vienna (1730) di incerto autore, già attribuita al Fischer von Erlach e al Hildebrandt per la facciata e della quale si ha un disegno a firma di Gabriele Montano con lievi varianti (fig. 16); la Chiesa del Salesiani (attribuita a D. F. Allio), la Chiesa dei Serviti (di Fischer von Erlach) nelle quali le facciate prendono appunto il movimento della nostra S. Agnese (fig. 17). Dello stesso Fischer è il S. Carlo Borromeo di Vienna costruito ira il 1716-28, una delle più complete e note costruzioni ellittiche nella pianta e nella cupola. A queste si ricollega e si ispira la Chiesa di S. Maria Maddalena a Karlovy-vary (Carlsbad) (fig. 18) di cui esiste un disegno di Kílien-Ignazio-Diezenhofer verso il 1730, che però per concetto organico appartiene piuttosto al metodo guariniano riconoscibile specialmente nelle Chiese di S. Maria Treu a Vienna (1716-21) attribuita a Hildebrandt, a cui non è estranea l’opera di F. Bibbiena, e nella Chiesa di Nemeké Jablonè (Gabel) del 1699-1729, alla quale lavorarono in vari periodi Domenico Perini e P. Bianco, sebbene sembri che il progetto sia da attribuirsi all’Hildebrandt. Dal sistema di composizione adottato in queste chiese è evidente che l’Hildebrandt, al quale Stefan propende ad attribuire le due opere (2) si sia ispiralo al S. Lorenzo del Guarini in Torino.
Il tema si rinnova nei piani originari di G. B. Mattei per la Chiesa dei Cavalieri della Croce a Praga, nella Chiesa di Linz, e si protrae in una complicata associazione di ambienti ellittici in una basilica del Neumann (fig. 19).
Le Chiese di S. Filippo Neri a Casale, della Santa Sindone a Torino, del S. Lorenzo, rappresentano l’applicazione dei metodi del Guarini alla forma centrale ch’egli trattò in un sistema più complesso nelle Chiese di S. Filippo Neri a Torino, e, in un’altra, ineseguita che “doveva farsi in Torino” e nella Chiesa della Divina Provvidenza a Lisbona (fig. 20). La Chiesa di S. Maria di Ettinga dei Teatini a Praga, progetto ineseguito del Guarini (la cui legge geometrica è rappresentata nella (fig. 20) è in stretta dipendenza con le precedenti.
Risalta da questi schemi la novità del sistema che risulta dalla successiva intersezione degli elementi circolari ed ellittici tra loro, o dall’unione di figure curve e poligonali: intersezioni che si prolungano nelle superfici delle coperture e le determinano (intersezioni di sfere, di ellissoidi, e di questi con piani e superfici cilindriche. Si vedano perciò le soluzioni esposte nel libro delle “Architetture di Guarino Guarini”).
Lo Stefan ci fa conoscere un gruppo di edifici che si costruirono in Boemia tra il 1698 e il 1710: di evidente ispirazione Guariniana e che ci interessano anche nei riguardi delle forme ellittiche poiché ne sono più complesse applicazioni. Tali la Chiesa Oboristê (Schema A, fig. 21 e fig. 22) che serve di canone intermediario tra il gruppo delle Chiese di tipo di Maria Treu e quello delle chiese strettamente ovali (Salesiani, S. Pietro, S. Maddalena): la Chiesa di S. Nicola a Malastrana a Praga: la Chiesa di S. Margherita a Brevnon presso Praga (schema B, fig. 21) gruppo attribuito a Cristoforo Dienzenhofer.
Si aggiungono inoltre a questa la Chiesa di S. Chiara Cheb, nella quale appare la compenetrazione di due formazioni ellissoidali, la Chiesa di Banz in Germania (schema C, fig. 21) che fu ritenuta modello di alcune chiese Boeme, ma che deve ritenersi invece posteriori a queste.
Il congiungimento tra queste opere boeme e quelle italiane risale all’intervento diretto del Guarini col suo progetto per la Chiesa di S. Maria di Ettinga dei Teatini del 1769 e forse con la sua presenza in Praga: “con la sua genialità influì profondamente sulla psicologia architettonica della Praga di quel tempo alla quale si apriva così una nuova strada..... la Storia dell’Architettura boema deve render grazia a tali rapporti per l’incalcolabile serie delle sue belle ed importanti opere nonchè per la posizione che è riuscita a conquistare nella storia dell’Architettura dell’Europa centrale”.
È una nuova pagina dei rapporti che tra architettura boema e italiana durano per due secoli dal rinascimento all’ottocento. Alla fine del XVII secolo architetti italiani appaiono in posizione di dirigenti Domenico Martinelli, Professore dell’Accademia Romana di S. Luca, porta la tendenza romana, influendo sugli artefici indigeni che andavano intanto parallelamente formando una loro scuola, nella quale (anche quando cessa “l’importazione diretta delle idee da parte degli architetti della Penisola”) “l'eredità arehitettonica italiana” trova un terreno atto allo sviluppo (3). È in questa scuola Boema che si continua dopo la morte, del Borromini e del Guarini la magnifica pagina del barocco italiano e particolarmente questa dei sistemi ellittici che sorti nella pienezza del Cinquecento, sviluppatisi nel Sei-Settecento italiano si propagano così brillantemente nel monumenti ora studiati.

VINCENZO FASOLO.

(1) OLDRICH STEFAN: Oslohové podstatê central nich staveb u Kil. Ign. Dienzenhofera. (Sullo stile delle costruzioni a pianta centrale di Kilien Ignazio Diezenhofer) in «Zolástni otisk z Památek archeologickych», XXXV, fase. 3-4.
(2) Si veda: BRUNO GRIMSCHITZ: Johan Lucas Híldebrandt Kirchenbauten. Wiener Jahrbuch, V-VI vol.: E. MORPURGO: Un architetto genovese a Vienna: G. Luca Hildenbrandt. Riv. di Architettura, anno III, fasc. VI.
(3) La famiglia dei Dieazenhofer si inserisce in questa catena di sviluppi. Al suo capostipite Cristoforo fu attribuito il gruppo degli edifici sunnominati. Gli studi dello Stefan però pur riconoscendo che questi ebbe parte nelle costruzioni, vedendo in quelle opere qualità superiori alle capacità di Cristoforo che era di una famiglia di capomastri, riportano a un architetto di maggior levatura questi edifici: egli ritiene che questo possa essere J. Luca Hildebrandt. Interessante figura d’artista formatosi in Italia e forse a Roma con studi diretti sotto l’influenza di Carlo Fontana che appare il suo maestro: gode di rinomanza sulla fine del XVII secolo come architetto ingegnere della Corte. In quel tempo i due Bibbiena, Francesco e Ferdinando, Andrea Pozzo operavano in Boemia, ma specializzati in prospettive, in scenografie, non sembrano all’autore così approfonditi architetti quali ai rivelano quelli che idearono e condussero gli edifici studiati che rappresentano una così importante riforma degli spazi architetturali; similmente Gian Santini nominato ed operante anche esso in Boemia nella stessa epoca seguiva altre tendenze.

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