SISTEMI ELLITTICI NELL’ARCHITETTURA
Il concetto di costruzioni architettoniche derivate da forme planimetriche
ellittiche con copertura costituita da sistemi di volte o di cupole
ellissoidiche, o da sistemi ancor più complessi e fantasiosi
composti con intersezioni di superfici curve, appare solo alla metà
del Cinquecento, quando l’architettura, avendo rivissuto ogni
esperienza e ardimento del romano, tenderà a nuove espressioni.
Non si trovano nell’antichità classica e romana, e tanto
meno negli sviluppi bizantini e medioevali, esempi che accennino a questo
problema: una nota Sala delle Terme di Caracalla che la sua forma planimetrica
avvicina a una curva ellittica (realmente trattasi di un perimetro risultante
da una associazione di tratti d’arco), per ragioni di analogia
con altri tipi noti, deve pensarsi coperta da una volta a crociera fiancheggiata
da absidi a curva ribassata, precorrenti analoghe soluzioni del Barocco.
Un perimetro nettamente ellittico si vede in una sala di un edificio
termale a Ostia: ma nulla può dedursi nei riguardi della sua
copertura.
L’arte romana non poteva ammettere la dissimetria derivante da
simile sistema architettonico, nè d’altra parte la pratica
costruttiva fondata sopra procedimenti elementari semplici poteva affrontare
nei suoi esordi i problemi costruttivi che questa forma implica nel
realizzare superfici e raccordi di superfici geometricamente complesse,
occorrenti ai passaggi delle volte di copertura: ardita, ingegnosa,
plastica nelle planimetrie e negli alzati di forme centrali, nel giocare
le curve di esedre e di volte (si pensi alle piante di Villa Adriana),
resta tuttavia limitata agli schemi basati esclusivamente sulle figure
geometriche elementari o sulla loro combinazione.
La prima impostazione di questa concezione si trova negli studi del
Peruzzi e del Sangallo e nel libro V del Serlio la sua consacrazione
teorica come tipo di Tempio (fig. 1). Nelle innovazioni michelangiolesche
il sentimento di questo nuovo organismo appare nelle absidi della Cappella
Sforza, nascenti nei primi disegni dal tracciamento di curve ellittiche;
e nella rotonda centrale ideata per S. Giovanni dei Fiorentini a cui
si addossano, alternandosi a vani rettangoli, cappelle ellittiche: i
segni nervosi e impetuosi di mano di Michelangelo in vari tentativi
di cappelle e di absidi si svolgono sempre in linee ellittiche, raramente
nella regolarità dell’arco.
La prima realizzazione costruttiva di edificio ellittico si ha nel S.
Andrea di Via Flaminia (1550) commesso da Giulio III al Vignola, il
quale primo applicò il nuovo tema ad un edificio isolato; sorprende
nel rigido artista la soluzione ardita di piantare la cupola ellittica
sul rettangolo, raccordando le curve delle quattro ellissi di guida
con pennacchi, alterando così audacemente la derivazione classica
del tema.
Allo stesso Vignola è attribuita la Chiesa di S. Anna dei Palafrenieri
(1572) (fig. 2) proseguita dal figlio, dove il tema è sviluppato
con maggiore ampiezza ed enfasi per il delinearsi esterno della cupola,
A. Dosio nella Cappella Niccolini in S. Croce (1585) porta a Firenze
la novità di questa architettura.
Sullo scorcio del cinquecento e sul limite del movimento Barocco, Francesco
da Volterra disegna e spicca S. Giacomo degli Incurabili (1600) ideato
in modo da essere coronato da una volta ellittica, (figg. 3-4), e la
Cappella di S. Pudenziana, nella quale l’ellissi della volta si
determina decorativamente su una vela ricavata da una superficie sferica
tagliata dai quattro lati del vano rettangolo (fig.5).
Ottavio Mascherino, architetto di grande attività sotto il pontificato
di Gregorio XIII traccia una pianta “d’un tempio fatto per
la Chiesa dello Spirito Santo in strada Giulia, ovato”. Il giro
delle colonne Interne formanti ambulacro ed il movimento delle cappelle,
lasciano intendere quali risorse architettoniche potessero derivare
da questa ricca e varia planimetria, tra le più originali e complesse
di questa prima serie di edifici ovali, (fig. 6) - derivata da un disegno
conservato all’Acc. di S. Luca).
Questo problema architettonico sembra eccitare la fantasia degli architetti
che seguono il ciclo michelangiolesco, quasi fossero attratti dalla
opposizione ch’esso presenta alle leggi della simmetria e all’ordine
classico. Federico Zuccari ne determina l’interesse artistico:
“la pianta ovale, graziosissima tra le altre, eletta per più
propria convenienza, avanza di gran lunga tutte le altre forme e similitudini
proposte da Vitruvio e da altri eccellenti ingegni nel formar templi”.
Parve che nell’ellisse si fondesse: “la forma basilicale
allungata richiesta dai precetti della Chiesa, e la cupola circolare
della Romanità” (Melano Rossi: “Tempio della Pace”)
e che essa riassumesse i caratteri e l’ampiezza del tipo planimetrico
di S. Sofia, considerata nella somma delle absidi addossate al vano
centrale e alle espansioni rettangolari degli altri due lati.
Ma l’ellissi ha pure i suoi critici, specie quando è applicata
ad edifici il cui asse maggiore è parallelo all’ingresso.
“La figura ovale ha tutto il comodo della rotonda poiché
in queste pur anche l’occhio concepisce tutto l’edifizio
ed inoltre è più capace del doppio di quello. È
però contro ragione di formare l’ovato in traverso, cosicchè
l’ingresso sia nel fianco maggiore, e per conseguenza per lo minor
diametro della figura; poichè l’occhio nel primo ingresso
misura l’edificio nella parte dove è più stretto,
e convien poi che cerchi il più ampio ne’ due lati, mirandoli
in due vedute, e per conseguenza deve formare due distinte figure, per
comprenderne il tutto”. (Passeri).
Ma il critico più feroce del sistema ovale è l’Abate
che redasse pel Duca Amedeo II un rapporto sulla costruzione del Santuario
di Mondovì di pianta ovale nel momento in cui doveva affrontarsi
il problema del voltare la grandiosa cupola, cogliendo veramente dal
punto di vista architettonico i punti di maggiore difficoltà
che si presentano nella composizione architettonica di questo sistema:
“la quarta difficoltà è per la poca bellezza, mancandovi
quelle cose nelle quali, secondo Tullio, la bellezza consiste: che sono
una ottima disposizione delle parti con certa suavità di colori.
Perchè quanto alle parti si vedranno quivi per colpa massima
della figura ovale, li pilastri variati tra loro di sito, di grossezza,
di ornamenti: li vani senza alcuna grata corrispondenza fra di loro;
li archi sopra li pilastri che nella sommità si ritireranno chi
più chi meno dal piombo delle imposte loro. La volta (come per
tutto il resto) sempre più o meno tondeggiante per un verso che
per l’altro; con li spazi tra le costole sempre diversi; e sempre
più o meno ottusa e svelta. E sporti più acuti od ottusi
da una parte che dall’altra. Onde credo sii provenuto che gli
antichi tanto vaghi di varietà niun esempio ci hanno lasciato
di fabbrica ovata che porti volta. E quelli delli moderni che l’hanno
fatto non ne hanno conseguito nè lode nè soddisfazione
corrispondente alla spesa. Anzi al di fuori non gli hanno dato forma
di cupola (come si vede in quelle di S. Giacomo delli Incurabili e di
Santa Potentiana) per il brutto effetto che avriano fatto nel mostrarsi
sempre più ottusi ed acuti da una parte che dall’altra”.
Veramente Francesco Gallo (1672-1750) seppe vincere le difficoltà
del severo ispettore del Duca Amedeo II costruendo sul tamburo del Santuario
di Mondovì eretto da Ascanio Vitozzi nel 1596, una delle più
complesse e grandi (diam. di m. 36) forme di edificio a cupola: i poderosi
contrafforti disposti dal Gallo a fiancheggiamento della volta riescono
a mascherare la dissimetria dell’ovale in modo da ottenere un
effetto che lo avvicina alla forma sferica, alterando le proporzioni
ideate dal Vitozzi, che prevedevano uno slancio ora distrutto dalla
gravità dei piloni angolari del Gallo.
Siamo anche con questa opera, per la quale furono proposti vari interessanti
progetti sempre in forma ovale dal San-Front, (architetto del Duca Carlo
Emanuele che volle questo edificio come Pantheon della sua Casa) nel
ciclo degli edifici ellittici che si svolge sotto l’influenza
vignolesca (fig.7). Già il Fornovo, aiuto del Vignola, costruiva
a Parma nel 1566, nell’Annunziata, planimetricamente composta
di due semicerchi raccordati in una forma ellittica (diametri m. 31
e m. 21), una delle più compiute opere del gruppo degli edifici
centrali, per lo svolgimento delle absidi fiancheggianti il vano centrale
dominato dalla cupola (compiuta più tardi da G. Rainaldi) e per
l’effetto dei contrafforti risalenti tra abside ed abside verso
il vertice.
Ascanio Vitozzi, orvietano, nato nel 1639, architetto militare, valoroso
capitano, architetto di Carlo Emanuele I e creatore di numerose opere
a Torino, allievo del Vignola, seguì per il Santuario di Mondovì
il tipo architettonico instaurato dal maestro, applicando alla nuova
forma ellittica alcune reminiscenze bramantesche, quali le torri angolari
che costituiscono la particolarità di questo monumento (fig.
8 e fig. 9).
Allo spirito barocco questa forma doveva offrire possibilità
e risorse di composizioni architettoniche piene di movimento. Il Bernini
infatti se ne impossessa e con un senso contenuto e misurato compone
il S. Andrea al Quirinale (1658) in forma ispirata alle rotonde romane
ma con la variante delle profonde cappelle che traforano il piedritto
facendo corona al vano centrale; la testata a grande ordine contro cui
s’adagia il portico a trabeazione curva lascia apparire lo sviluppo
del nucleo dell’edificio: la visuale laterale e più ancora
la proiezione mostrano la giusta misura e l’unità di questa
concezione e la compiuta fusione tra la rotonda che domina e il portico
che le fa fronte.
I vertici degli isolati nel trivio convergente verso piazza del Popolo,
bene si adattavano alle forme rotonde della Madonna dei Miracoli e a
quella ellittica della Chiesa della Madonna di Montesanto (1662-64)
erette da G. Rainaldi a guisa di piloni all’ingresso della antica
Via Flaminia (fig.10).
Trattasi ancora della trasformazione delle rotonde classiche nel movimento
seicentesco, ma il distacco del tamburo dell’inferiore ordine
delle cappelle, il curvarsi in forma ribassata della cupola, l’ordine
del portico a timpano che le precede, rievocazione degli analoghi pronai
classici, il contrasto con le torri campanarie, ne fanno una delle tipiche
espressioni romane che ricorreranno negli ulteriori sviluppi di simili
edifici e che, portate da artisti italiani e forestieri oltre i confini,
vi faranno riecheggiare il nome di Roma.
Il tema continua nel settecento col S. Celso in Banchi del De Dominicis
costruito sotto Clemente XII (1730) e colla chiesa del Nome di Maria
al Foro Traiano (1733, del Derizet) che tanto efficacemente, se pure
con forme fredde si contrappone alla Madonna di Loreto, assumendo nell’ambiente
e nella forma edilizia della vecchia piazza Romana una nota dominante.
Magnifici effetti scenografici per risalti di sfondi son nel vestibolo
della Chiesa di S. Croce, del Passalacqua.
In S. Giovanni Laterano, nelle Cappelle Santori e Lancellotti si hanno
forme intrecciate di tondi e di nicchie in volte e perimetri ellittici;
nella Cappella della SS. Pietà, G. A. De Rossi raggiunge una
delle più suggestive note marmoree in una intonazione di grigi
e di verdi tra le più notevoli della grande arte secentesca degli
intarsi. Larga composizione piena di fasto è quella di S. Maria
dell’Orazione del Fuga in via Giulia (costr. 1737) (fig. 11) magnificamente
giocato tra piedritto e volta ellittica e controcurve delle Cappelle:
e aggiungiamo anche la Maddalena (1676) del De Rossi, del periodo di
Innocenzo XI, che rappresenta nel settecento la continuazione in Roma
della forma ellittica, così adatta allo spirito della fastosa
e movimentata epoca.
Fuori Roma ricordiamo: in Palermo, S. Salvatore, dell’Amato (1688)
pianta e cupola eclittica con tre nicchioni e la Chiesa dei Benedettini
(1616).
A Torino la Chiesa del Corpus Domini del Vitozzi (1607), di S. Rocco
del Castellomonte e S. Trinità del Vitozzi stesso (1610).
A Orvieto: S. Giovanni Evangelista. A Piacenza: S. Giovanni del Ricchini
(1630) e tutta una ricca e varia serie di simili edifici che riassumiamo
nella fig. 13.
Una interessantissima Chiesa della Celletta perduta nella vasta piana
ferrarese, presso Argenta, fondata da Niccolò Balestri e opera
dell’Aleotti della metà del ‘600, per l’addossarsi
delle absidi circolari e rettangolari al tamburo, predominante in altezza,
molto ricorda monumenti romani noti a noi da disegni e memorie del Rinascimento
(fig. 12).
A Vicenza, Carlo Borella, architetto della Basilica di Monte Berico,
detto il Borromini vicentino, risolse in modo originale il collegamento
della Pianta ellittica con la forma rotonda della Cupola centrale nella
Chiesa dei SS. Vito e Lucia (1675-1680) trasformando il vecchio schema
del Rinascimento dell’edificio a croce con cupola su piloni, in
una analoga, ottenuta però dall’innesto della croce e della
cupola in un ovale (vedi schema a fig. 14).
Come organismo gli edifici fin qui considerati si raggruppano quanto
a forma secondo il concetto delle rotonde romane applicato alla varietà
della curva ellittica, quanto a struttura nell’aggiungersi a una
sala centrale di elementi minori: cappelle, esedre e talvolta nell’irradiarsi
dal corpo centrale di corpi architettonici annessi costituenti una unità
a sè, come ad esempio nel Santuario della Croce a Crema e con
sviluppo settecentesco nella Consolata a Torino del Guarini (eretta
nel 1679-1806). Questa, rinnova in forme settecentesche le fantasie
di Leonardo di ideali duomi nei quali intorno ad una cupola centrale
dominante si raggruppano, formando corona, minori edifici coperti anche
essi da cupole e le cattedrali fantasticate nelle invenzioni di artisti
del Rinascimento dal Di Giorgio all’Ammannati.
Le innovazioni del Borromini trovano in questo schema possibilità
pienamente conformi alla sua irrequietezza. Il suo metodo di composizione
basato sul sistema di intrecci di figure geometriche e su intersezioni
di superfici e di volumi (S. Ivo alla Sapienza risulta da un complesso
intreccio di un cerchio con triangoli e con minori cerchi tracciati
sui vertici di questi) conduce al tracciamento della, complessa figura
planimetrica di San Carlino che risulta dal raccordo di tre cerchi (fig.15):
similmente di figura planimetrica e volumetrica mista di elementi piani
e curvi è la Chiesa dei Sette Dolori; e i vari studi per l’Oratorio
di Propaganda Fide si svolgono anch’essi con varietà di
invenzioni sul tema ellittico che il Borromini applica insistentemente
nei Progetti del Palazzo Carpegna alla planimetria di un cortile, di
un vasto vestibolo e salone, e nel grande refettorio dei Filippini.
Il metodo Borrominiano è ripreso e portato a più complesse
conseguenze dalle architetture del Guarini. La Chiesa di S. Filippo
a Casale (ineseguita), la Santa Sindone, il S. Lorenzo a Torino, sono
il risultato di una composizione fatta di compenetrazioni geometriche
nelle quali dapprima sole forme poligonali, prismi, poi forme arrotondate,
cilindri di sezione circolare o ellittica, si intersecano fra loro determinando
vertici e movimento di pareti che si svolgono poi nelle volte in un
analogo intreccio di forme sferoidiche ed ellissoidiche.
Un giovane architetto di Praga Oldrich Stefan (1), già noto a
noi per altri studi nei quali sono posti in rilievo le relazioni che
l’Architettura del ‘500 e del ‘600 in Boemia ha con
l’arte italiana e la parte che artisti italiani ebbero nello svolgimento
di quel periodo artistico, in un recente studio con la revisione di
alcune attribuzioni e ponendo in evidenza l’opera di alcuni nostri
maestri, ci dà modo di innestare alla serie degli edifici a forma
ovale fin qui ricordati, un gruppo di edifici della Boemia e di Vienna
che sono in stretta e diretta dipendenza pei concetti generali architettonici
che li ispirano e per particolari affinità di forma, col gruppo
delle citate architetture del Guarini.
Propaggini del nostro Barocco per forma e ispirazione e per intervento
di artisti italiani, sono le chiese in forma ovale di Vienna, nelle
quali riscontriamo l’affinità con i tipi romani nelle planimetrie
e in alcuni caratteri dei prospetti che ripetono specialmente le linee
della S. Agnese borrominiana per il curvarsi concavo della facciata
e per l’inquadramento del motivo della cupola fra le torri campanarie.
Appartengono a questo Gruppo S. Pietro a Vienna (1730) di incerto autore,
già attribuita al Fischer von Erlach e al Hildebrandt per la
facciata e della quale si ha un disegno a firma di Gabriele Montano
con lievi varianti (fig. 16); la Chiesa del Salesiani (attribuita a
D. F. Allio), la Chiesa dei Serviti (di Fischer von Erlach) nelle quali
le facciate prendono appunto il movimento della nostra S. Agnese (fig.
17). Dello stesso Fischer è il S. Carlo Borromeo di Vienna costruito
ira il 1716-28, una delle più complete e note costruzioni ellittiche
nella pianta e nella cupola. A queste si ricollega e si ispira la Chiesa
di S. Maria Maddalena a Karlovy-vary (Carlsbad) (fig. 18) di cui esiste
un disegno di Kílien-Ignazio-Diezenhofer verso il 1730, che però
per concetto organico appartiene piuttosto al metodo guariniano riconoscibile
specialmente nelle Chiese di S. Maria Treu a Vienna (1716-21) attribuita
a Hildebrandt, a cui non è estranea l’opera di F. Bibbiena,
e nella Chiesa di Nemeké Jablonè (Gabel) del 1699-1729,
alla quale lavorarono in vari periodi Domenico Perini e P. Bianco, sebbene
sembri che il progetto sia da attribuirsi all’Hildebrandt. Dal
sistema di composizione adottato in queste chiese è evidente
che l’Hildebrandt, al quale Stefan propende ad attribuire le due
opere (2) si sia ispiralo al S. Lorenzo del Guarini in Torino.
Il tema si rinnova nei piani originari di G. B. Mattei per la Chiesa
dei Cavalieri della Croce a Praga, nella Chiesa di Linz, e si protrae
in una complicata associazione di ambienti ellittici in una basilica
del Neumann (fig. 19).
Le Chiese di S. Filippo Neri a Casale, della Santa Sindone a Torino,
del S. Lorenzo, rappresentano l’applicazione dei metodi del Guarini
alla forma centrale ch’egli trattò in un sistema più
complesso nelle Chiese di S. Filippo Neri a Torino, e, in un’altra,
ineseguita che “doveva farsi in Torino” e nella Chiesa della
Divina Provvidenza a Lisbona (fig. 20). La Chiesa di S. Maria di Ettinga
dei Teatini a Praga, progetto ineseguito del Guarini (la cui legge geometrica
è rappresentata nella (fig. 20) è in stretta dipendenza
con le precedenti.
Risalta da questi schemi la novità del sistema che risulta dalla
successiva intersezione degli elementi circolari ed ellittici tra loro,
o dall’unione di figure curve e poligonali: intersezioni che si
prolungano nelle superfici delle coperture e le determinano (intersezioni
di sfere, di ellissoidi, e di questi con piani e superfici cilindriche.
Si vedano perciò le soluzioni esposte nel libro delle “Architetture
di Guarino Guarini”).
Lo Stefan ci fa conoscere un gruppo di edifici che si costruirono in
Boemia tra il 1698 e il 1710: di evidente ispirazione Guariniana e che
ci interessano anche nei riguardi delle forme ellittiche poiché
ne sono più complesse applicazioni. Tali la Chiesa Oboristê
(Schema A, fig. 21 e fig. 22) che serve di canone intermediario tra
il gruppo delle Chiese di tipo di Maria Treu e quello delle chiese strettamente
ovali (Salesiani, S. Pietro, S. Maddalena): la Chiesa di S. Nicola a
Malastrana a Praga: la Chiesa di S. Margherita a Brevnon presso Praga
(schema B, fig. 21) gruppo attribuito a Cristoforo Dienzenhofer.
Si aggiungono inoltre a questa la Chiesa di S. Chiara Cheb, nella quale
appare la compenetrazione di due formazioni ellissoidali, la Chiesa
di Banz in Germania (schema C, fig. 21) che fu ritenuta modello di alcune
chiese Boeme, ma che deve ritenersi invece posteriori a queste.
Il congiungimento tra queste opere boeme e quelle italiane risale all’intervento
diretto del Guarini col suo progetto per la Chiesa di S. Maria di Ettinga
dei Teatini del 1769 e forse con la sua presenza in Praga: “con
la sua genialità influì profondamente sulla psicologia
architettonica della Praga di quel tempo alla quale si apriva così
una nuova strada..... la Storia dell’Architettura boema deve render
grazia a tali rapporti per l’incalcolabile serie delle sue belle
ed importanti opere nonchè per la posizione che è riuscita
a conquistare nella storia dell’Architettura dell’Europa
centrale”.
È una nuova pagina dei rapporti che tra architettura boema e
italiana durano per due secoli dal rinascimento all’ottocento.
Alla fine del XVII secolo architetti italiani appaiono in posizione
di dirigenti Domenico Martinelli, Professore dell’Accademia Romana
di S. Luca, porta la tendenza romana, influendo sugli artefici indigeni
che andavano intanto parallelamente formando una loro scuola, nella
quale (anche quando cessa “l’importazione diretta delle
idee da parte degli architetti della Penisola”) “l'eredità
arehitettonica italiana” trova un terreno atto allo sviluppo (3).
È in questa scuola Boema che si continua dopo la morte, del Borromini
e del Guarini la magnifica pagina del barocco italiano e particolarmente
questa dei sistemi ellittici che sorti nella pienezza del Cinquecento,
sviluppatisi nel Sei-Settecento italiano si propagano così brillantemente
nel monumenti ora studiati.
VINCENZO FASOLO.
(1) OLDRICH STEFAN: Oslohové podstatê central nich staveb
u Kil. Ign. Dienzenhofera. (Sullo stile delle costruzioni a pianta centrale
di Kilien Ignazio Diezenhofer) in «Zolástni otisk z Památek
archeologickych», XXXV, fase. 3-4.
(2) Si veda: BRUNO GRIMSCHITZ: Johan Lucas Híldebrandt Kirchenbauten.
Wiener Jahrbuch, V-VI vol.: E. MORPURGO: Un architetto genovese a Vienna:
G. Luca Hildenbrandt. Riv. di Architettura, anno III, fasc. VI.
(3) La famiglia dei Dieazenhofer si inserisce in questa catena di sviluppi.
Al suo capostipite Cristoforo fu attribuito il gruppo degli edifici
sunnominati. Gli studi dello Stefan però pur riconoscendo che
questi ebbe parte nelle costruzioni, vedendo in quelle opere qualità
superiori alle capacità di Cristoforo che era di una famiglia
di capomastri, riportano a un architetto di maggior levatura questi
edifici: egli ritiene che questo possa essere J. Luca Hildebrandt. Interessante
figura d’artista formatosi in Italia e forse a Roma con studi
diretti sotto l’influenza di Carlo Fontana che appare il suo maestro:
gode di rinomanza sulla fine del XVII secolo come architetto ingegnere
della Corte. In quel tempo i due Bibbiena, Francesco e Ferdinando, Andrea
Pozzo operavano in Boemia, ma specializzati in prospettive, in scenografie,
non sembrano all’autore così approfonditi architetti quali
ai rivelano quelli che idearono e condussero gli edifici studiati che
rappresentano una così importante riforma degli spazi architetturali;
similmente Gian Santini nominato ed operante anche esso in Boemia nella
stessa epoca seguiva altre tendenze.