FASCICOLO V E VI - GENNAIO-FEBBRAIO 1931
FRANCESCO FICHERA : L'Esposizione Internazionale di Architettura Moderna in Budapest, con 217 illustrazioni

L’Esposizione Internazionale di Architettura Moderna in Budapest

(Diario a tre dimensioni)

I. - IMPRESSIONI DI VIAGGIO

Il mio spirito di isolano si ritrae e si esalta a un tempo riguardando la piccola carta d’Europa, bianco su bleu, con le sanguinanti tracce dei percorsi dei treni diretti, che mi è stata recapitata insieme ai biglietti di viaggio.
Eppure questa città provinciale mi sembra un’appropriata stazione di partenza per slanciarsi verso un’adunata di spiriti nuovi.
Forse il vivere all’ombra dell’Etna, - gigante mostruoso di bellezza e di orrore, che continuamente ci richiama all’unica realtà della vita, che è la morte; il trovarsi separato da tanta storia, da tanto mare, da tanti gradi di latitudine, dalle metropoli, in cui turbina il vortice di rinnovamento, è un bene: mi procura un punto di vista prospettico profondissimo: crea uno spesso filtro attraverso cui passano lentamente le sostanze attive.
E le adunate, le esposizioni internazionali di architettura, hanno proprio qualcosa dei fenomeni di cristallizzazione, per cui, dalla torbida soluzione generale, vedi chiaramente sorgere il miracolo delle nette cristallizzazioni di verità, di principii, in piccoli trasparenti solidi geometrici.
Per interpretare tali fenomeni, e le leggi che vi presiedono e che ne discendono, bisogna essere preparatissimi in generale, e, in particolare, sereni; non infiammati, cioè, di questo o di quel principio, di questa o di quella scuola: indirizzi, principii, scuole, sono in arte distinzioni o effimere o dannose; quando non sono aggregati di egoismi o di interessi che non si possono mostrare in pubblico, e si cacciano, perciò, entro un involucro metallico etichettato, raggiungendo il vantaggio di nasconderli alla vista e di ricavare un immenso rumore appena vengono agitati.

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Queste lunghe permanenze in treno prima ti svegliano, corpo e spirito, in seguito ti annoiano, corpo e spirito, e ciò sino a quando tu ripeti per la ennesima volta il percorso consueto; dopo, ti cullano il corpo e ti svegliano lo spirito. Passato il confine (pensare che dietro quella sbarra in bianco e nero, che si abbassa e si innalza, ci sono cinquecentomila morti!), lo spirito lascia l’involucro fisico e vive, vigila, trema, ansioso di apprendere dietro l’oscuro, fitto e irto linguaggio straniero.

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Attraverso cinque confini ho appreso, infatti, delle profonde verità internazionali che mi serviranno a comprendere bene l’esposizione internazionale che mi preparo a vedere.
Credo di aver capito che alla livellazione grigio-verde dei corpi, alla livellazione delle nazionalità, - procurata da cinque anni di flagello, che aveva fatto affiorare il senso eguagliatore di umanità, - è seguito un nuovo fenomeno: in questa materia che sembrava uniforme, - e che una pace giusta avrebbe reso, se non in definitivo, per lungo tempo uniforme, - la pace consumata a Versailles ha soffiato la tempesta, ha riscavato solchi e voragini che si vanno continuamente rivelando. Credo di aver capito che il senso della nazionalità si è ridestato più aspro, più infiammato di prima, negli uni per difendere, negli altri per strappare il mal tolto.
E allora in architettura, - guaina dello spirito delle nazioni, - si dovrebbe veder succedere all’indirizzo universalistico, razionalista, che caratterizzò il periodo seguito al dopoguerra, un indirizzo di reazione in cui gli spiriti vengono ripotenziati dalle dighe della nazionalità e della personalità; e ciò soprattutto attraverso le espressioni delle nazioni più vincitrici e più vinte. L’Italia, per la universalità della sua geografia, della sua storia, della sua civiltà, dovrebbe assumere, in questo ritorno di spiriti, una funzione elettiva, polare.

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Lungo questi millecinquecento chilometri che vado percorrendo dal Brennero a Budapest, non vedo che un panorama quasi uniforme, il quale si va disponendo come uno scenario di fondo, contro cui sopravvive e si proietta ciò che ho visto, - quale vortice turbinoso di mondi diversi!, - da Catania al Brennero.

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- “Ave María sempre verde”, salmodiano i campi in rapida cadenza al treno che fila. E i campanili dei paesini intervallano la nenia ripetendo, con una genuflessione:
- Ora pro nobis.
Ogni tanto qualche stazione introduce il suo cicaleccio mondano nella rapida giaculatoria che la natura mormora a sè stessa. Tu puoi misurare la importanza delle stazioni che va sfiorando il treno, - verme emporio, veloce carro di Tespi che ha per palcoscenico il vagone ristorante, - dal rumore, - durata e tonalità, - che squarcia la verde orazione.

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Quale clamore! È Budapest. Budapest che non vedevo da sedici anni. Quale ansia di rivederti, di guardarti negli occhi, folle amica della giovinezza.
Balcone orientale d'Europa, vibrante iridescente diaframma di osmosi tra occidente e oriente.
Con quel tuo linguaggio irto ed aspro, per cui lo spirito appuntisce disperatamente l’acuzie intuitiva per comprenderti; con quelle tue donne - orchidee dalle vesti leggere, dai colori avvampanti.

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Si, tu sei sempre bella, Budapest.
Tu sei il balcone aperto sul mistero, il balcone sul cui parapetto l’onda dell’oceano orientale s’infrange, facendo vibrare le sottili balaustre in ferro, destando una irrequieta armonia, in cui s’insinua un languore che vuole e non vuole scatenarsi, e trema una nostalgia che non concede tregua: quella che i tuoi tzigani ci ripetono, nei caffè, troppo da vicino al padiglione auricolare.
Balcone d’oriente alla cui soglia l’onda dell’oceano slavo, domata, abbandona incessantemente conchiglie, coralli, buccine, tutte le gemme del liquidi palazzi di turchese.
Le tue donne hanno sempre quelle lunghe ciglia da cui cadono ombre perchè lampeggino ancor più le pupille stellanti, così come le carni olivastre rendono di smalto il bianco degli occhi; hanno le ciglia assai lunghe e le gonne assai corte.

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Budapest, non sei più tu.
Gli è che il mondo è andato oltre, e noi ce ne avvediamo in occasione di questi bruschi ritorni al passato, anche a quello dell’altro ieri.
Ormai abbiamo udito sino alla sazietà sincopare e borbottare i jazz negri, in confronto dei quali le convulsioni dei tuoi tzigani diventano ronzii molesti di ventilatori elettrici malamente lubrificati. (E poi, si può ballare al ritmo delle tue rapsodie? No. E dunque?).
Anche le gemme, i colori di cui riluci dai piedi alla testa, (quel mutevole gorgo del Danubio, quelle cupole sgargianti) non ci fanno più impressione: le donne hanno ormai adunato nel poco spazio del volto impasti cromatici ben più violenti, per cui è diventata sopportabile anche la pittura novecento.
Ora le gonne si sono fatte lunghe, come le maniche, come i capelli. La donna che oggi ci piace ha il volto cupamente eburneo, appena sottolineato dal trucco; le gonne che essa porta carezzano il suolo; essa veste di nero, assai semplicemente, e si adorna di un solo gioiello: una breve collana di piccole egualissime perle segna il nascimento del collo, emergente da una ellissi, al disotto della quale resta pudicamente chiuso tutto ciò che era prima largamente rivelato dagli acuti squarciati appuntiti sul recto e sul verso.
Noi abbiamo oggi una passione, che ci pare definitiva, per Stoccolma: ci piace quell’ambiente vasto e composto, frastagliato e orizzontaleggiante: ci ha durevolmente conquistato, - durata: un lustro circa, - il suo Palazzo municipale, solenne, massiccio, pensoso.

* * *

Budapest, non sei più tu.
No, non è questione di guerra, di pace, di mutilazione, di crisi: tutte cose per cui ti amiamo ancor più di prima.
È questione di rotazione degli spiriti.
Sono io che non sono più io: e questa verità, pur somigliando a quelle balzate dalla filosofia pirandelliana, è pianissima, pacifica. Tu ben sai che il nostro tempo è pazzo, diciamo meglio, attraverso un grazioso eufemismo: è dinamico.
Presto ci manderanno nella luna entro un proiettile lanciato nell’etere, con velocità astrale, dal formidabile univoco scoppio di innumerevoli razzi.
È per questo che se mi affaccio da questo balcone, aperto sui giardini d’oriente, il profumo delle aure imbalsamate da cui ricavai, or sono sedici anni, tanta ebrezza, mi sembra appassito: sale lento con la sottile nebbia svaporante dal Danubio. Anche la fiala che custodisce il liquido esilarante ha perduto le iridescenze che i raggi del mio spirito vi accendevano attraversandola. La tua architettura non mi piace più.

* * *

Ma se guardo fissamente il Danubio, le radici del mio spirito tremano, e da profondità che non conoscevo in me.
Ecco ciò che meglio di tutto, - serpeggiante, mutevole, iridescente; profondità e spuma, terra e cielo insieme, - rappresenta il transito, nel mondo, dello spirito di un artista che tutto in sè l’incombente cielo vuole riflettere; che tutte le sponde vuole conoscere, - pietre ed erbe, macerie e carogne, - prima di sfociare a morte nell’oceano.
Nascere non si sa come ne da dove, vivere in piena autonomia, tutto accogliendo ciò che la natura offre, lasciando dietro a se, prima di sciogliersi nello infinito, l’immortale letto, strappato grano a grano alla terra.
Ad ogni istante diverso.
Fisso per l’eternità.

Perciò io contemplo ciò che in te c’è di mutevole e fisso insieme, per cui ancora mi piaci tanto: il tuo fiume che pare una tortile lama viva brulicante di gemme; così come il tuo cielo, brulicante di stelle, che, estatico, contempla, coi suoi mille occhi abbrividenti, la terra, dormiente, che ama da tempo senza potersi avvicinare a lei: Rudello e Melisenda.
Il firmamento.
Punto.


II. - PANORAMA ARCHITETTONICO EUROPEO

Per dominare l’immenso panorama offerto dall’architettura contemporanea bisogna arrampicarsi lungo le erte scorciatoie e guadagnare le vette.
Questa esposizione offre, fra gli altri, anche il grande vantaggio di essere sorta in seguito a una severa selezione, e ci porta quindi subito alla quota di livello mille: nè pianure, nè colline: alta montagna.
Consideriamo di ogni gruppo le cime dominatrici:
Olanda - Dudok: Sono dolente di spogliare l’altare che il novecento architettonico ha elevato al più significativo dei suoi rappresentanti. Noi ammiriamo le profonde qualità di sintesi, di proprietà, di probità, di questo vero artista.
Il suo semplicismo è squisito.
Egli è il poeta della geometria: così per le soluzioni planimetriche che per l’aggregazione delle masse.
La sua architettura “ci restituisce in forme iridate lo spirito essenziale delle macchine”.
Ma guardiamo a profondo, dopo aver subito l’abbaglio di tanta poesia materializzata.
Per ottenere questa alternanza di pieni e di vuoti, di orizzontali e di verticali, caratteristica della sua cifra, - ho detto cifra, - architettonica, il Dudok lascia al buio gli ultimi piani di molti dei suoi edifici, o li illumina con tettoie a vetri, pur avendo a disposizione il sole; e ricorre assai spesso a torri altissime che servono a niente.
E codesta è cifra, non è sana architettura destinata in primo luogo a servire i bisogni del tema: fiore e frutto della poesia debbono, nel nostro campo, sorgere da robustissime radici fitte nella essenzialità del tema.
È assai più ragionevole il prezioso e complicato Gabriele Valvassori che nel Palazzo Doria di Roma, attraverso un originale e ardito legamento di luci, risolve la necessità tematica di affacciare degnamente sul Corso con ambienti altissimi, medii e ammezzati.
Quella è architettura decorativa irrazionale.
Questa è decorazione architettonica razionale.
In quanto al ritmo tra masse parallelopipede, orizzontali e verticali, esso viene direttamente dalla Toscana: tale ritmo il Dudok ha colto studiando le caratteristiche cittaduzze sparse in quegli ameni colli, su cui le torri, acute come pugnali, sembrano tenerle infisse.
Ma codesti nidi di sparvieri, costruiti per l’offesa e la difesa, non hanno niente a che vedere con quelle guglie decorative delle scuole e delle caserme dudokiane, che pare debbano rimanere schiacchiate tra terra piatta e cielo piatto d’Olanda.
Oud. - Sento venire da radici più profonde l’arte dell’antipapa olandese: quanto rigoglio di rinnovamento se, nella stessa religione moderna, troviamo due tiare in opposizione.
Egli si staglia più netto, più energico, nel cielo dell’architettura contemporanea.
E più convinto, e fa più convinti.
Egli è il classico dell’organicità architettonica.
Il suo sdegno per l’ordine fittizio, per la simmetria preconcetta del mondo classico, è sincero, e ricorda la passione di Josef Olbrich.
Ma, come sempre, la passione apre le porte all’ebbrezza.
Eccoci dinanzi al De Klerk, audace e mordace, con le sue “musiche pitagoriche della materia sottoposta a un ritmo”, con quelle sue strisce di edifici, - che per centinaia di metri tagliano il basso cielo di Amsterdam mediante una cornice implacabilmente orizzontale, - tutti muro e luci, luci e muro; sul cui massiccio serpeggiano, come enormi frecce vive, le scalee formate dai ballatoi: basse e lunghe quinte che aspettano di conchiudersi nel Tempio dell’Energia.
Se ponete bruscamente un impreparato dinanzi a queste case cubiche di cemento, di acciaio e di vetro, - tutte spalancate o tutte serrate alla luce, - quegli crederà che tali edifici siano destinati ad accogliere gli abitanti della luna, che un giorno o l’altro andremo a rilevare a domicilio.
Gli architetti d’Olanda non si preoccupano che della moderna Gestaltung, la quale deve portare la bellezza nuova sino ai borghesi, agli umili.
Sono tutti compresi da questo lavoro formativo di un carattere architettonico sgorgante dalla perfetta rispondenza della costruzione allo scopo, del materiale al fine, dell’organismo all’idea animatrice.
Per tutto ciò che riguarda l’architettura minore vi sono ormai modelli perfetti: ma entrati che siamo nel dilemma in cui si dibatte l’architettura contemporanea per avere una forma definitiva, estensibile dal modesto all’aulico, - per cui il piccolo S. Pietro in Montorio vale la grande Cancelleria, - anche questi formidabili rinnovatori, si arrestano.

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Germania. - Forse è la Germania che ci darà il grandioso edificio monumentale di stile moderno che andiamo ansiosamente cercando? Disinganniamoci: essa ci darà il colossale, ma non il grandioso.
Queste immense cattedrali dell’industria moderna, culminanti negli stabilimenti Siemens di Hans Hertlein, hanno un ritmo modulare meschino; vivono della ripetizione ossessionante di un solo elemento-pensiero; sopravvivono di spirito gotico, destinato irrimediabilmente a sparire dinanzi al trionfo della orizzontale.
Con la sua profonda sensibilità creativa se n’è accorto Wilheim Kreis, - prima della guerra classiccheggiante, - che, lavorando sul modulo quadrato, è arrivato alla quadrata solenne espressione della singolare Stazione di Meissen.
E se Dominicus Böhm, nelle chiese di Magonza, dà ancora un fiotto di vita alle acute forme gotiche, scarnificandole per arrivare ai costoloni e ai pilastri, - attraverso ai quali i franco-muratori presentirono il cemento armato, - il Fahrenkampf, sviluppando lo stesso tema, abiura il gotico, pur tenendosi alla verticale, e il Mendelsohn, coi suoi cinema, lo seppellisce definitivamente per far trionfare l’architettura meccanicizzata.
Hans Poelzig, - coi suoi colossali elaborati e le sue immense cupole di stalagmiti, vuole mordere il cielo: ma i suoi edifici sono grandissimi e non grandiosi; non vi circola il sangue della ispirazione, della vitalità; il suo respirare è grosso e affannoso: egli è astruso e grossolano: tutti i grandi artisti tedeschi, appunto perchè grandi, debbono, nel volo di aquila spiccato verso il settimo cielo, assumere anche il contrappeso di tali deficienze: debbono essere, perciò, astrusi e grossolani.
(Automaticamente il pensiero corre a quella specie di Maddalena, che, nella scena centrale del Venerdì Santo, asciuga con le sue trecce i piedi di Parsifal; a questo goffo tentativo di trasportare il dramma di Cristo nelle nebbie mistico-sensuali del cielo alemanno).

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La Gestaltung, la nuova forma architettonica generata nellimmensa, rutilante, potente fucina tedesca, cerca ora la via del mare; la prua dei sottili vascelli leggeri invade i mari del nord, condottiero l’Oud che, da Stoccolma, viene attratto a Rotterdam.
Un’altra via di sbocco, ma di snaturalizzazione, si crea automaticamente la Gestaltung attraverso una zona neutra: la Svizzera.
Le casette di abitazione di Meis Van Der Rohe si possono confondere con quelle dello svizzero Le Corbusier o del francese Mallet-Stevens.
È in questa architettura minore che la travolgente corrente moderna ha agito compiutamente: ha assalito la piccola cosa, l’ha travolta e riplasmata.

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Svizzera. - Era logico attendersi che l’internazionale, policroma, incuneata Svizzera desse all’architettura contemporanea a carattere internazionalista il suo profeta. Se l’architetto Pfischer, con la sua stazione di Zurigo, e il Moser, con la sua Chiesa di Basilea, poggiano e derivano dal solenni maestri tedeschi, cosí come fanno i maggiori esponenti degli altri cantoni, che gettano ponti verso il vicino confine, l’architetto Le Corbusier si leva su gli altri quale profeta e predicatore della nuova religione internazionale, il cui vangelo si può concentrare nei seguenti aforismi:
Non esiste passato. - Non esiste confine. - La macchina è il nostro Dio.

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Russia. - Le turbe russe si sono infatti, in seguito all’irresistibile richiamo, messe in ginocchio adorando il nuovo Messia, a cui hanno commesso l’empireo del razionalismo: un edificio destinato a ospitare un ministero, che non avrà finestre: una serie di vetri fissi farà penetrare la luce in una gabbia di cemento, in cui l’aria sarà immessa meccanicamente.
Qualcosa per cui la Biblioteca di Leningrado di Nikoliski, la Casa in Mosca di Walikowski, - una gabbia in vetro e ferro appena fasciata di cemento, - la Casa di Grinberg, - tutto il contrario della precedente, - e il Teatro di Schnessew, verranno ad assumere il valore e il significato di monumenti arcaici.

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Francia. - S’intuisce con quale viva ansia penetriamo in Francia.
C’è qui sangue latino, e buon sangue, che finge di mentire quando ve n’è convenienza, - e ci interessa di sapere in che modo esso reagisce e assimila il germe nuovo trascinato dalle correnti esotiche che premono, avviate per terra e per mare.
È sangue che, come l’italiano, non vuol perdere le sue caratteristiche.
Ma la complessa zona di contatto con le sei nazioni continentali di confine, il flusso continuo e vivace dei centri babelici d’America, - di cui Parigi è diventata la testa di ponte europea, - devono avere profondamente influito sullo spirito francese, irrequieto e pratico insieme, raccolto e invadente.
Sono quindi contrasti e battaglie, proprio come in Italia.
Augusto Perret da tempo, attraverso una nuova sostanza costruttiva, ha imposto una nuova linea decorativa; la sua architettura di cemento armato, da prima denigrata e vituperata, si è ora acclimatata, polarizzando lo spirito moderno francese a tal punto che la si vuole battezzare francese di origine, di sangue e di spirito.
Sappiamo che così non è.
Il seme è esotico, di poi trapiantato in Francia: curato razionalmente ha dato bellissimi fiori nazionali.
Accanto al Perret incontriamo Tony Garnier, interessante elemento reattivo lionese alla tendenza snaturalizzante parigina, il Granet, il Mathon, il Le Franc, il Bourgeois, il Siclis e il grandeggiante Mallet-Stevens, che nelle sue piccole cubiche case a serie si mette in riga coi modernisti del resto di Europa: ma quando egli si isola e si ambienta, risorge nelle sue opere tutto il clima aristocratico che nella razza ha distillato attraverso i secoli, entro cui essa si affina sempre più, e crea villa Yères.
Così tu vedi ripetersi il fenomeno che avveniva allorché la guerra ci normalizzò, ci standardizzò, ci eguagliò: eravamo tutti vestiti in serie, tutti in grigio-verde, ma tu distinguevi il signore a cento metri di distanza.
Egli stesso ora ci avverte che l’impeto iniziale di rinnovamento si frange, si attenua, nella ricerca del particolare.

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Austria. – Dopo la nazione più vittoriosa, la nazione più vinta: l’Austria. Il brusco decadimento politico doveva necessariamente portare con sé un decadentismo artistico. Rimane però ancora altissima, forse insuperata, sempre viva di sole, una cima: Josef Hoffman.
Vogliamo solo mettere in evidenza, - quale fenomeno riflesso della Gestaltung e di immediata influenza occidentale, - gli edifici socialisti.
“In Vienna l’edilizia recentissima ha un solo carattere: la praticità; un solo costruttore: il Comune; un solo scopo: politico”.
Da cui gli enormi casermoni di mille alloggi in cui è timidamente affidata una funzione decorativa al colore applicato sugli elementi separatori, - rilevati leggermente rispetto alla mastodontica massa squadrata e bianca, - con la loro bizzarra forma di fumaioli e di tolde di comando di navi.
Il poco sole rimasto a scaldare questa terra, scivolando lungo i solitarii viali di Schoenbrunn, si è fermato nella Carl Marx Hof.

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Ungheria. - Lo stesso non possiamo dire, con nostro vivo rammarico, dell’Ungheria, che ci abbagliò a Milano nel 1906, allorchè per diventare nuovi non si doveva diventare esotici; e, piuttosto che allungar lo sguardo fuori i confini, si cercava con amore ed emozione il fiore sotto gli occhi, il fiore che si era prima calpestato. L’arte rusticana, oh tempi quanto lontani! Mancante di un capo autonomo, la massa degli architetti magiari è come sballottata tra riva olandese e riva tedesca.

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Mari del Nord, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia. - È necessario ritornare nei mari del nord per conchiudere il nostro ciclo.
Il Baltico, questo mare quasi chiuso, rappresenta oggi ciò che per secoli rappresentò il Mediterraneo: il bacino della civiltà architettonica.
Il sole di questa civiltà ha raggiunto il suo zenit nel paraggi di questa latitudine, e vi sta fermo, essendovi faticosamente pervenuto dall’Egitto, via Atene, Roma, Monaco, Berlino, con durevoli ritorni a Roma.
L’Olanda si allieta di questo sole quasi meridiano e rifiorisce, come abbiamo visto, attraverso una flora, vivace, nuova, aulentissima.
Ma, cosa assai strana, la Scandinavia, la Danimarca e la Finlandia, reagiscono, pur essendo più lontane dagli antichi centri tradizionalisti, alla moderna Gestaltung olandese, vivace, travolgente, spregiudicata, per cui abbiamo visto l’Oud emigrare da Stoccolma a Rotterdam.
La Danimarca, questo estremo tentacolo del continente europeo, vibra ancora di classicismo e trasmette le sue vibrazioni alla Scandinavia.
In Finlandia, l’ascetico architetto finlandese Eliel Saarinen, - accortosi che i suoi poemi mistici in pietra non trovavano nella sua terra le aure di modernità necessarie alla piena vita, - ha preferito sfidare le vertigini dei cieli americani, lanciando contr’essi le sue guglie dolomitiche.
Ma stiano tranquilli i tradizionalisti, l’architetto americano J. Mead Howells, il più ardito dominatore dei cieli newyorkesi, rappresentante gli Stati Uniti al XII Congresso di Architettura, - ha dichiarato, appena posto piede in questa vecchia terra, che “i grattacieli non sono prodotti di esportazione”.
Mentre il Berlage, maestro olandese dell’anteguerra della moderna architettura, viene superato dal Dudok, e dall’Oud, l’arte dello squisito, finissimo, fiordato Boberg, sopravvive sul calmo e laborioso telaio scandinavo, attraverso le più vivaci forme attualistiche, per quanto più snelle, più squadrate, più aderenti alla vita attuale. Il Bergsten del Padiglione svedese dell’Esposizione di arti decorative di Parigi, l’Asplund della Biblioteca di Stoccolma, anche il Tengbom della Chiesa di Hogalid, e sopratutto il Lallersiedt della Scuola politecnica di Stoccolma, ricordano i caratteri somatici del grande e buon papà, il Boberg; e tutte le loro opere hanno una chiarezza, una semplicità e un ordine classico, purissimamente classico, pur non somigliando neanche da lontano al Palladio, al Vignola, al Brunellesco.
Qualità tutte che culminano nel potente, sereno e raccolto Palazzo Comunale di Stoccolma dell’Oestberg; a cui risponde dall’altra riva il Palazzo della Polizia di Copenaghen del Kampmann.
Qui oltre che scuole, casette in serie, alloggi popolari, hangars, edifici industriali, troviamo nobilissimi, potenti, sereni edifici rappresentativi di un popolo, di una nazione; edifici in cui una razza ritrova l’espressione di sè stessa, vive, si specchia e si riconosce: compiute perfette manifestazioni di architettura per collettività.
E questi edifici sono classici, cioè in assoluto contrasto con i principii universalistici, meccanicistici, razionalistici di Le Corbusier, l’apostolo del razionalismo che ha predicato bene e razzolato male; sono classici perchè chiari di forma, nobilitati e animati da un pensiero profondo, che viene da sorgenti lontanissime, dalle sorgenti da cui è venuta la razza, la civiltà, che quella accompagna e circonda in un’atmosfera distillata nei secoli; sono classici e sono anche aderenti al gusto e alla vita attuali, pratici, cioè, utili, solidi, costruiti con materiale nobilissimo e con tecnica perfetta.
Chi ha assistito ad una festa, ad un congresso svoltosi nel Salone d’oro del Palazzo municipale di Stoccolma, ha avuto la sensazione che anche la nostra civiltà ha il suo Campidoglio, se non il suo Partenone.
Tutto un popolo ritrova finalmente sè stesso, documenta la sua vita di oggi, in continuazione della sua storia di ieri, in questa solenne architettura.
Tutto un popolo che ha raccolto il passato, come in un sacrario, nel Museo all’aperto di Skanzen, verso cui si reca in pellegrinaggio, dinanzi a cui si genuflette in adorazione; ma che vive, lieto e libero, per le nuove vie di Stoccolma, e archivia le sue nascite, celebra le sue nozze, esalta i suoi fasti nel nuovo edificio municipale.
E tutto ciò fa con animo semplice, ordinato, ben lontano dalle modernizzanti frenesie teutoniche, dalla ripugnanza al companatico dell’Olanda, dalle intestine clamorose lotte artistiche di Francia e d’Italia.

III. - NOI E GLI ALTRI

Budapest, Vienna, Venezia, Firenze, Roma, Catania.
Quale vertiginoso trasvolare, quale stupefacente panorama di bellezze. E, insieme, quale patente e potente dimostrazione delle cause per cui noi arriviamo in ritardo in questo rinnovarsi che fa l’Europa dall’interno all’esterno.
Il fenomeno è in atto, e anche se tu chiudi gli occhi per non vedere, ti arriva agli orecchi il rombo fragoroso dell’attività di quell’immenso cantiere che le razze giovani si sono foggiate lungo i mari del nord.
Le razze giovani, più fresche di noi, più ricche di noi, meno gravate, nella faticosa marcia, per l’aspra erta che porta al nuovo dal fardello della tradizione: magnifico fardello che tutti c’invidiano, che ci renderà superbi e superiori allorchè saremo giunti alla meta, ma che per ora grava, e come !, sulle nostre spalle.
Se per gli architetti non italiani, vivere, evolversi nella tradizione, significa modellare, riplasmare, trascinare nella incessante corrente del progresso una materia uno, per noi architetti italiani ciò significa agire su una materia dieci, formata da dieci unità di natura diversa a seconda della regione di provenienza. (Beati i razionalisti che con il loro esperanto architettonico si sono liberati di questo fardello, di questo problema, di così grave responsabilità; e vanno nudi alla mèta).

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Dinanzi a questo stimolo dell’ineluttabile la massa dei nostri architetti si è tripartita.
Gli elementi di una sparuta ala sinistra, ansiosa di vivere nel nostro tempo, hanno espatriato, e si son tuffati nel bacino nordico, ritenendo che queste acque, come quelle sacre e prodigiose di Lourdes, abbiano il potere di guarire le piaghe del corpo. Ne sono venuti fuori imbacuccati in clamidi nuove nuove, goffe goffe, suscitando lo scherno e l’ira degli elementi dell’ala destra; i quali hanno reagito intensamente, recalcitrando, tenendosi sempre più aggrappati alle muraglie di Palazzo Pitti, alle colonne di S. Pietro, alle inferriate di Palazzo Doria, sempre più paurosi che il furioso impeto di rinnovamento finisca per strapparli dalle origini.
Tra queste due ali di mimetismo, ultramodernista e ultratradizionalista, vive una massa che ripete, mitigati, i caratteri estremi, e si compone nel centro in una falange che opera e procede in perfetta saggezza e con piena padronanza di mezzi e di convinzioni: è il veicolo elettrico che non vuole escire dal binario della tradizione, e, traendo la energia cinetica dallo spirito nuovo, procede velocemente oltre.
Perchè la pace sia con noi è necessario che la grande massa degli italiani non resti estranea a questo mirabile travaglio di rinnovamento; che non si arresti alla considerazione superficiale del fenomeno; che conforti l’impresa, assai ardua, con la sua comprensione. Comprensione delle masse: miracolosa energia radiante per i condottieri.

* * *

E l’adunata di Budapest comprova quanto ho detto.
Per generale riconoscimento il salone centrale dell’Esposizione di Architettura, destinato, con gesto assai simpatico e significativo, all’Italia, - era il più vario, il più nobile, il più riposante. Frutto, questo, della sagace selezione operata da principio, della nobiltà e freschezza del vaso in cui le opere erano presentate; ma, sopratutto, conseguenza del fatto che gli architetti italiani hanno capito, si sono svegliati, e, nella grande e migliore massa, - escludendo cioè la sparuta ala sinistra ultramodernista e la obesa ala destra ultratradizionalista,- procedono ora compatti, sereni, lungo il cammino della tradizione: l’oscuro ingombro separante la continuità di questo cammino è stato vinto. Sono rimasti indietro, genuflessi dinanzi ai capolavori del passato, i fanatici idolatri; e si sono velocemente affrancati i frenetici di oltrepassare, gli smaniosi di novità; i quali, pure di vestire secondo l’ultima moda, si sono rivolti a sarti esotici. Intendo parlare dei razionalisti.
I primi, più che ossessionati da un’idolatria, sono pavidi di perdere posizioni malamente o degnamente guadagnate, che dovrebbero ad altri cedere. Peccano di aridità e di egoismo.
I secondi, più che animati da una fede, hanno urgenza di arrivare presto, sùbito, anche impreparati: vogliono sboccare al successo, pratico, tangibile e goderselo presto. Da cui le esasperazioni del novecento scultoreo, pittorico e architettonico, nelle cui fila, contro un artista apostolo di buona fede, stanno nove neofiti di fede dubbia.
Le vie seguite dai maggiori, che impiegavano trent’anni per capire una mano (anatomia e espressività), e poi ne facevano un capolavoro nel capolavoro, attraverso le vie della naturalezza, sono troppo oscure, faticose, aspre.
Si può vincere, sfondare, anche con la deformazione intelligente, col bluff: da cui il sincretismo in architettura, e di poi il razionalismo.
Esso ha fatto passi giganteschi, ha cinto di una fascia il mondo, da Parigi a New York a Tokio.
Tale capacità di espansione non è però da confondere con quella propria degli stili, per cui il Rinascimento italiano conquistò e dominò rapidamente il mondo. No. Essa viene dalla facilità di uso, di adattamento, dalla meccanicità del sistema. Mi ricorda la rapida conquista del mondo compiuta, circa trent’anni fa, dal regolo calcolatore, per cui i costruttori si improvvisavano ingegneri e architetti.
Ciò prova, e indubbiamente, che di tale movimento spirituale si sentiva bisogno.
Infatti esso ha rappresentato un violento energetico reattivo contro l’astenia, dico meglio, contro la profonda catalessi in cui giaceva l’architettura dell’ottocento: tutta fronzoli, tutta floscia, tutta maschera. Senza pensiero negli artisti e senza risonanza nella collettività.
Voglio però aggiungere che tale benefica funzione è finita, o quasi; che le violente oscillazioni pendolari estreme tendono ora allo equilibrio centrale.
E questo è il corollario più vivo disceso dall’adunata internazionale di Budapest.

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Da una sommaria prima visita ai saloni della esposizione tu ritraevi un senso di monotonia, di livellamento, a cui dava il tono centrale la formidabile sala della Germania: tavole quadrate, dense, tutt’eguali di dimensioni, tutt’egualí di colore: nero e grigio; che sembravano tutte eguali nel pensiero generatore, ma non avevano in comune che l’atteggiamento spirituale da cui questo pensiero discendeva.
Percorrendo gli interminabili uniformi allineamenti di vuoti e di pieni, di pieni e di vuoti, dei quartieri nuovi di Berlino o di Rotterdam, la tua primitiva sensazione, di gioia e di freschezza, svapora a causa della esasperante distesa degli uniformi paraventi che sembrano messi li per nascondere lo svolgimento materiale, e solo materiale, della vita; e tu credi di esser preda di un incubo, che solo può vincere la visione del mare, di un giardino, o di un’architettura passatista.
Cosi, allorchè, dopo aver visitato le varie sale, tu sboccavi nel salone centrale destinato all’Italia, il tuo incubo era vinto.
Sembrava di sboccare inaspettatamente, dopo ore ed ore di viaggio lungo un serpeggiante nastro di strade alpestri, - fiancheggiate ossessionantemente da pini e abeti, da abeti e pini, - contro uno di quei sereni laghi alpini in cui limpidamente si specchia la circostante varia chiostra delle creste montagnose; in cui precipitano e trovano pace le irrequiete correnti degli impluvii.
E se dopo questa visione antiquata, classica, diciamo pure passatista, tu ritornavi indietro, e, con questa luce nuova nello spirito, riguardavi il gruppo delle sale in cui sboccavano le correnti della Gestaltung, ti accorgevi che questa vivace corrente artistica nord europea, dopo aver livellato, col suo impeto travolgente, razze, popoli, regioni, si è già franta, si è già raccolta in larghi bacini nazionali, in cui le dighe della razza e della personalità riprendono la loro funzione potenziatrice; ti accorgevi che siamo entrati nettamente nella fase reattiva alla standardizzazione.
Il generoso popolo magiaro, - a cui volevamo assai bene ieri, a cui vogliamo ancora più bene oggi, - ha per primo compreso che l’Italia è ancora una volta chiamata a ritmare, assumendo le funzioni di volano, questo impeto di rinnovamento che non ha una legge armonica; per cui attualmente ci troviamo presi tra modernismo olandese e modernismo tedesco come tra i margini di una morsa.
Abbiamo avuto tutti, più che la sensazione, la prova che il centro razionalista tedesco ripiega e devia, lasciando la formula meccanica, - su cui si sono buttati ansiosi e famelici, come su una facile preda, i faciloni e gli arrivisti di tutto il mondo, - per imprimere e animare di una nota di originalità e di poesia la rigidità meccanica degli edifici in serie; per cui l’architettura, - liberata con tanti nostri sforzi dagli impresari, costruttori, dai codici vignoleschi, da gli ingegneri, - si avviava a ritornare alla originale schiavitù, ancora più addomesticata, ancora più imprigionata entro un facile formulario universale.
La personalità, - questo divino segreto che Dio attribuisce agli uomini e alle razze elette, - finalmente reagisce, rompendo le fila della nuova collettività francomassone che va da Parigi a Tokio, a cui danno largo contributo i centri ebraici.
Concludendo: la benefica funzione reattiva con la quale il razionalismo ha ridestato l’architettura giacente nella grave astenia tradizionalista, lasciata in eredità dall’ottocento, si è, secondo me e secondo molti altri, conchiusa, o si sta conchiudendo.
Amo moltissimo i giovani, in mezzo ai quali vivo e rivivo me stesso. Non vorrei che, per eccesso di entusiasmo per il nuovo, continuassero a ritenere che il razionalismo sia una stazione di arrivo, un eden a cui sono inconsciamente attratti da seduzioni ingannevoli, sopratutto dalla facilità del cammino sboccante rapidamente nel successo effimero.
Il razionalismo è una stazione di transito verso vie maestre stese al sole in continuazione, non in sovrapposizione, - badiamo bene, - di gloriose vie lungo le quali passarono i nostri maggiori, lasciando sul cammino le loro opere come ex voto dedicati al genio immortale della razza.

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Ecco perchè nel centro dell'Esposizione stava l’Italia. L’Italia nè tedesca, nè olandese, nè francese: italiana. L’Italia di oggi, potente e serena.
Questa lunga e divina Italia, - connessa al continente europeo attraverso la rugosa saldatura alpina, e pencolante nel bacino mediterraneo, che la sciacqua e risciacqua incessantemente, con questa zattera siciliana spinta verso l’Africa, - ha assorbito, reagito, filtrato il germe della Gestaltung, che è stato assimilato, e, già normalizzato, entra nel circolo vitale beneficamente, come un siero fisiologico.
Ci sono centri cospicui di rinnovamento: Torino, Milano, Roma, Catania; zone di medio e zone di lento rinnovamento; zone morte.
Torino, per disposizioni storiche, geografiche e per qualità di artisti, è divenuta il quartier generale dell’ala sinistra avente il suo posto di comando nel Palazzo Gualino, che abbiamo già visto a pezzo a pezzo lungo la nostra peregrinazione europea, e, prima ancora, nelle riviste esotiche. E questa è esasperazione del novecentismo.
È con vero dolore che si vedono giovani di fervido ingegno italiano accanirsi a cancellare dispoticamente dalle loro opere ogni attributo di italianità, che pure è sorto spontaneo, persino l’aggettivo, il profumo italiano, pur di obbedire ad uno schema, a un programma preconcetto.
No. L’arte, ogni arte, sopratutto l’architettura, ha un incancellabile carattere di ereditarietà; l’architettura è, sì, tormento che sale dall’intimo dello spirito, nel cui profondo si insinuano le prime radici capillari della sensibilità, - così come il mandorlo spinge nella dura lava gli elastici aculei dei sottili tentacoli; ma è poi canto, espansione, libero inno al cielo verso cui ogni cosa organizzata si rivolge.
Non è mortificazione, ma rapimento, esaltazione, dopo una profonda maturazione.
Preferisco vedere il leccio selvatico, la cui semente è stata gettata dal vento casualmente in una forra, aspra e silenziosa, da cui esplode impetuosa la pianta con la sua vita organizzata in fronde, in foglie, in gemme, piuttosto che il leccio addomesticato in forme geometriche e improprie, sedili, arcate, fontane, - del parco di Schönbrunn.
Dove non c’è libertà esterna, contro disciplina interna, non c’è arte.
Anche il tedesco, parlato da un italiano, non è, non devessere il tedesco parlato da un tedesco.
E lo stesso italiano, parlato da un siciliano si distingue da quello parlato da un torinese.
Milano è il vertice di un vasto cono d’influenza a basi larghissime, che vanno dalla Francia all’Austria.
Ma i lombardi non si lasciano inebbriare da queste aure esotiche che passano gelide su cicatrici non totalmente rimarginate.
Con misura, vorrei dire con circospezione, si sono rivolti all’architettura dei loro nonni, e, senza far salto, hanno cercato di saldare i vasi sanguigni tra tessuto nuovo e antico.
Non è certamente questa la via maestra per sfondare, per guadagnare il cielo; per ciò fare ci vuole tormento, audacia, ala.
E ala gagliarda ha un gruppo di giovani in piena ascensione.

Roma, per disposizioni storiche, geografiche, politiche e qualità di artisti, è divenuta il quartier generale della massa centrale, che ha il suo condottiero in Marcello Piacentini. Questo artista, ha avuto il merito grandissimo di aprire a poco a poco le nostre finestre, da tempo serrate, al soffio travolgente spirante dal nord, prima che esso sbattesse le imposte, rompesse i vetri e mandasse tutto per aria in casa nostra.
Egli stesso ha graduato l’assorbimento degli aromi di cui quest’aura nuova è pregna, a cui i suoi e i nostri polmoni non erano abituati, evitando l’ebbrezza esaltante e la polmonite debilitante.
E non ha voluto bere di quella droga soporifera indigena preparata versando poche gocce di absinthe in molta acqua del Tevere; preparata, cioè, secondo una formula per cui il nuovo veniva a essere creato col paradosso dell’antico: così un edificio scolastico fingeva una terma di Augusto.
Aderenza dell’edificio, per struttura interna e composizione esterna, al tema;
Aderenza della forma ai materiali;
Aderenza dell’edificio all’ambiente, in generale e in particolare;
Chiarezza, misura, semplicità; poche ornamentazioni, e solo quelle che dimostrano il diritto di esistere.
Ecco i canoni del nuovo indirizzo, che ha da essere nuovo perchè deve servire bisogni nuovi, pur trascinando nei suoi sviluppi l’antico, così come il gorgo del fiume trascina il grano di pietra dalle sorgenti all’infinito.
Palermo, per disposizioni e attitudini storiche, geografiche, politiche e qualità di artisti, è divenuta il quartier generale del cadente mimetismo tradizionalista.
Contro cui, però, la Sicilia orientale, con quartier generale a Catania, reagisce vivacemente attraverso una pienezza di maturazione, lungamente elaborata in profondità, e una gagliarda fioritura che affaccia al suolo con impeto, se non vulcanico, primaverile.
Rivedo, dopo tanti trapassi, con profonda tenerezza, con un senso di commosso smarrimento, il mio cielo profondo e denso; e sott’esso un pettine ispido e frastagliato: le colate laviche dell’eruzione del 1927, ancora fumiganti allorchè rabbiosamente le addenta il piccone rivolgitore.
La natura ha violentemente scombinato l’orografia di una zona; l’idrografia venne di conseguenza a mutarsi.
Il coltivatore misantropo non volle, non seppe comprendere che ciò che pareva immutabile erasi mutato. E non si mosse.
Vennero le piogge, e le sue terre, salve dal fuoco, vennero distrutte dalle acque.
Il coltivatore folle credette riparare al nuovo stato di cose creando nuovi argini, e le acque distrussero opere e terre.
Il coltivatore saggio, con animo forte, raccolse, prima di abbandonarle, dalle terre destinate a morire il miglior seme, e, fattane una cernita, lo trapiantò nelle terre che le nuove piogge avrebbero reso feconde.
Dopo annose fatiche egli riavrà la ricchezza.
Cosi è dell’architettura contemporanea; mutati spirito e bisogni del nostro tempo, come mutati!, - così come venne a mutamento l’orografia della zona etnea, è venuta a mutamento anche la sua idrografia: le correnti artistiche.
Anche gli architetti di oggi, dinanzi al fenomeno di rivoluzione che agita il mondo artistico, si sono divisi in tre schiere, come i coltivatori della flagellata plaga: i folli, i misantropi, i savii.

* * *

Con questa biblica visione la mia divina terra suggella in verità ciò che io ho appreso, a grado a grado, con gioia e fatica.
Così il lievito del sapere acquista la forma splendente.
E se alzo lo sguardo io vedo la cima dell’Etna: questa mostruosa e affascinante sorgente di bene e di male, di ricchezza e di distruzione, di vita e di morte.
Essa ha ululi cupi, ma ha anche voci suadenti; ha un suo palpito continuo che riconosco bene come l’alterna voce della pendola del mio studio: cara voce.
Ad ogni alternanza questo mostruoso orologio solare ripete: “Hora incerta Mors certa”.
Torniamo al lavoro.
Catania, 18 Settembre 1930 - VIII.

FRANCESCO FICHERA.

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