L’Esposizione Internazionale di
Architettura Moderna in Budapest
(Diario a tre dimensioni)
I. - IMPRESSIONI DI VIAGGIO
Il mio spirito di isolano si ritrae e si esalta a un tempo riguardando
la piccola carta d’Europa, bianco su bleu, con le sanguinanti
tracce dei percorsi dei treni diretti, che mi è stata recapitata
insieme ai biglietti di viaggio.
Eppure questa città provinciale mi sembra un’appropriata
stazione di partenza per slanciarsi verso un’adunata di spiriti
nuovi.
Forse il vivere all’ombra dell’Etna, - gigante mostruoso
di bellezza e di orrore, che continuamente ci richiama all’unica
realtà della vita, che è la morte; il trovarsi separato
da tanta storia, da tanto mare, da tanti gradi di latitudine, dalle
metropoli, in cui turbina il vortice di rinnovamento, è un bene:
mi procura un punto di vista prospettico profondissimo: crea uno spesso
filtro attraverso cui passano lentamente le sostanze attive.
E le adunate, le esposizioni internazionali di architettura, hanno proprio
qualcosa dei fenomeni di cristallizzazione, per cui, dalla torbida soluzione
generale, vedi chiaramente sorgere il miracolo delle nette cristallizzazioni
di verità, di principii, in piccoli trasparenti solidi geometrici.
Per interpretare tali fenomeni, e le leggi che vi presiedono e che ne
discendono, bisogna essere preparatissimi in generale, e, in particolare,
sereni; non infiammati, cioè, di questo o di quel principio,
di questa o di quella scuola: indirizzi, principii, scuole, sono in
arte distinzioni o effimere o dannose; quando non sono aggregati di
egoismi o di interessi che non si possono mostrare in pubblico, e si
cacciano, perciò, entro un involucro metallico etichettato, raggiungendo
il vantaggio di nasconderli alla vista e di ricavare un immenso rumore
appena vengono agitati.
* * *
Queste lunghe permanenze in treno prima ti svegliano, corpo e spirito,
in seguito ti annoiano, corpo e spirito, e ciò sino a quando
tu ripeti per la ennesima volta il percorso consueto; dopo, ti cullano
il corpo e ti svegliano lo spirito. Passato il confine (pensare che
dietro quella sbarra in bianco e nero, che si abbassa e si innalza,
ci sono cinquecentomila morti!), lo spirito lascia l’involucro
fisico e vive, vigila, trema, ansioso di apprendere dietro l’oscuro,
fitto e irto linguaggio straniero.
* * *
Attraverso cinque confini ho appreso, infatti, delle profonde verità
internazionali che mi serviranno a comprendere bene l’esposizione
internazionale che mi preparo a vedere.
Credo di aver capito che alla livellazione grigio-verde dei corpi, alla
livellazione delle nazionalità, - procurata da cinque anni di
flagello, che aveva fatto affiorare il senso eguagliatore di umanità,
- è seguito un nuovo fenomeno: in questa materia che sembrava
uniforme, - e che una pace giusta avrebbe reso, se non in definitivo,
per lungo tempo uniforme, - la pace consumata a Versailles ha soffiato
la tempesta, ha riscavato solchi e voragini che si vanno continuamente
rivelando. Credo di aver capito che il senso della nazionalità
si è ridestato più aspro, più infiammato di prima,
negli uni per difendere, negli altri per strappare il mal tolto.
E allora in architettura, - guaina dello spirito delle nazioni, - si
dovrebbe veder succedere all’indirizzo universalistico, razionalista,
che caratterizzò il periodo seguito al dopoguerra, un indirizzo
di reazione in cui gli spiriti vengono ripotenziati dalle dighe della
nazionalità e della personalità; e ciò soprattutto
attraverso le espressioni delle nazioni più vincitrici e più
vinte. L’Italia, per la universalità della sua geografia,
della sua storia, della sua civiltà, dovrebbe assumere, in questo
ritorno di spiriti, una funzione elettiva, polare.
* * *
Lungo questi millecinquecento chilometri che vado percorrendo dal Brennero
a Budapest, non vedo che un panorama quasi uniforme, il quale si va
disponendo come uno scenario di fondo, contro cui sopravvive e si proietta
ciò che ho visto, - quale vortice turbinoso di mondi diversi!,
- da Catania al Brennero.
* * *
- “Ave María sempre verde”, salmodiano i campi in
rapida cadenza al treno che fila. E i campanili dei paesini intervallano
la nenia ripetendo, con una genuflessione:
- Ora pro nobis.
Ogni tanto qualche stazione introduce il suo cicaleccio mondano nella
rapida giaculatoria che la natura mormora a sè stessa. Tu puoi
misurare la importanza delle stazioni che va sfiorando il treno, - verme
emporio, veloce carro di Tespi che ha per palcoscenico il vagone ristorante,
- dal rumore, - durata e tonalità, - che squarcia la verde orazione.
* * *
Quale clamore! È Budapest. Budapest che non vedevo da sedici
anni. Quale ansia di rivederti, di guardarti negli occhi, folle amica
della giovinezza.
Balcone orientale d'Europa, vibrante iridescente diaframma di osmosi
tra occidente e oriente.
Con quel tuo linguaggio irto ed aspro, per cui lo spirito appuntisce
disperatamente l’acuzie intuitiva per comprenderti; con quelle
tue donne - orchidee dalle vesti leggere, dai colori avvampanti.
* * *
Si, tu sei sempre bella, Budapest.
Tu sei il balcone aperto sul mistero, il balcone sul cui parapetto l’onda
dell’oceano orientale s’infrange, facendo vibrare le sottili
balaustre in ferro, destando una irrequieta armonia, in cui s’insinua
un languore che vuole e non vuole scatenarsi, e trema una nostalgia
che non concede tregua: quella che i tuoi tzigani ci ripetono, nei caffè,
troppo da vicino al padiglione auricolare.
Balcone d’oriente alla cui soglia l’onda dell’oceano
slavo, domata, abbandona incessantemente conchiglie, coralli, buccine,
tutte le gemme del liquidi palazzi di turchese.
Le tue donne hanno sempre quelle lunghe ciglia da cui cadono ombre perchè
lampeggino ancor più le pupille stellanti, così come le
carni olivastre rendono di smalto il bianco degli occhi; hanno le ciglia
assai lunghe e le gonne assai corte.
* * *
Budapest, non sei più tu.
Gli è che il mondo è andato oltre, e noi ce ne avvediamo
in occasione di questi bruschi ritorni al passato, anche a quello dell’altro
ieri.
Ormai abbiamo udito sino alla sazietà sincopare e borbottare
i jazz negri, in confronto dei quali le convulsioni dei tuoi tzigani
diventano ronzii molesti di ventilatori elettrici malamente lubrificati.
(E poi, si può ballare al ritmo delle tue rapsodie? No. E dunque?).
Anche le gemme, i colori di cui riluci dai piedi alla testa, (quel mutevole
gorgo del Danubio, quelle cupole sgargianti) non ci fanno più
impressione: le donne hanno ormai adunato nel poco spazio del volto
impasti cromatici ben più violenti, per cui è diventata
sopportabile anche la pittura novecento.
Ora le gonne si sono fatte lunghe, come le maniche, come i capelli.
La donna che oggi ci piace ha il volto cupamente eburneo, appena sottolineato
dal trucco; le gonne che essa porta carezzano il suolo; essa veste di
nero, assai semplicemente, e si adorna di un solo gioiello: una breve
collana di piccole egualissime perle segna il nascimento del collo,
emergente da una ellissi, al disotto della quale resta pudicamente chiuso
tutto ciò che era prima largamente rivelato dagli acuti squarciati
appuntiti sul recto e sul verso.
Noi abbiamo oggi una passione, che ci pare definitiva, per Stoccolma:
ci piace quell’ambiente vasto e composto, frastagliato e orizzontaleggiante:
ci ha durevolmente conquistato, - durata: un lustro circa, - il suo
Palazzo municipale, solenne, massiccio, pensoso.
* * *
Budapest, non sei più tu.
No, non è questione di guerra, di pace, di mutilazione, di crisi:
tutte cose per cui ti amiamo ancor più di prima.
È questione di rotazione degli spiriti.
Sono io che non sono più io: e questa verità, pur somigliando
a quelle balzate dalla filosofia pirandelliana, è pianissima,
pacifica. Tu ben sai che il nostro tempo è pazzo, diciamo meglio,
attraverso un grazioso eufemismo: è dinamico.
Presto ci manderanno nella luna entro un proiettile lanciato nell’etere,
con velocità astrale, dal formidabile univoco scoppio di innumerevoli
razzi.
È per questo che se mi affaccio da questo balcone, aperto sui
giardini d’oriente, il profumo delle aure imbalsamate da cui ricavai,
or sono sedici anni, tanta ebrezza, mi sembra appassito: sale lento
con la sottile nebbia svaporante dal Danubio. Anche la fiala che custodisce
il liquido esilarante ha perduto le iridescenze che i raggi del mio
spirito vi accendevano attraversandola. La tua architettura non mi piace
più.
* * *
Ma se guardo fissamente il Danubio, le radici del mio spirito tremano,
e da profondità che non conoscevo in me.
Ecco ciò che meglio di tutto, - serpeggiante, mutevole, iridescente;
profondità e spuma, terra e cielo insieme, - rappresenta il transito,
nel mondo, dello spirito di un artista che tutto in sè l’incombente
cielo vuole riflettere; che tutte le sponde vuole conoscere, - pietre
ed erbe, macerie e carogne, - prima di sfociare a morte nell’oceano.
Nascere non si sa come ne da dove, vivere in piena autonomia, tutto
accogliendo ciò che la natura offre, lasciando dietro a se, prima
di sciogliersi nello infinito, l’immortale letto, strappato grano
a grano alla terra.
Ad ogni istante diverso.
Fisso per l’eternità.
Perciò io contemplo ciò che in te c’è di
mutevole e fisso insieme, per cui ancora mi piaci tanto: il tuo fiume
che pare una tortile lama viva brulicante di gemme; così come
il tuo cielo, brulicante di stelle, che, estatico, contempla, coi suoi
mille occhi abbrividenti, la terra, dormiente, che ama da tempo senza
potersi avvicinare a lei: Rudello e Melisenda.
Il firmamento.
Punto.
II. - PANORAMA ARCHITETTONICO EUROPEO
Per dominare l’immenso panorama offerto dall’architettura
contemporanea bisogna arrampicarsi lungo le erte scorciatoie e guadagnare
le vette.
Questa esposizione offre, fra gli altri, anche il grande vantaggio di
essere sorta in seguito a una severa selezione, e ci porta quindi subito
alla quota di livello mille: nè pianure, nè colline: alta
montagna.
Consideriamo di ogni gruppo le cime dominatrici:
Olanda - Dudok: Sono dolente di spogliare l’altare che il novecento
architettonico ha elevato al più significativo dei suoi rappresentanti.
Noi ammiriamo le profonde qualità di sintesi, di proprietà,
di probità, di questo vero artista.
Il suo semplicismo è squisito.
Egli è il poeta della geometria: così per le soluzioni
planimetriche che per l’aggregazione delle masse.
La sua architettura “ci restituisce in forme iridate lo spirito
essenziale delle macchine”.
Ma guardiamo a profondo, dopo aver subito l’abbaglio di tanta
poesia materializzata.
Per ottenere questa alternanza di pieni e di vuoti, di orizzontali e
di verticali, caratteristica della sua cifra, - ho detto cifra, - architettonica,
il Dudok lascia al buio gli ultimi piani di molti dei suoi edifici,
o li illumina con tettoie a vetri, pur avendo a disposizione il sole;
e ricorre assai spesso a torri altissime che servono a niente.
E codesta è cifra, non è sana architettura destinata in
primo luogo a servire i bisogni del tema: fiore e frutto della poesia
debbono, nel nostro campo, sorgere da robustissime radici fitte nella
essenzialità del tema.
È assai più ragionevole il prezioso e complicato Gabriele
Valvassori che nel Palazzo Doria di Roma, attraverso un originale e
ardito legamento di luci, risolve la necessità tematica di affacciare
degnamente sul Corso con ambienti altissimi, medii e ammezzati.
Quella è architettura decorativa irrazionale.
Questa è decorazione architettonica razionale.
In quanto al ritmo tra masse parallelopipede, orizzontali e verticali,
esso viene direttamente dalla Toscana: tale ritmo il Dudok ha colto
studiando le caratteristiche cittaduzze sparse in quegli ameni colli,
su cui le torri, acute come pugnali, sembrano tenerle infisse.
Ma codesti nidi di sparvieri, costruiti per l’offesa e la difesa,
non hanno niente a che vedere con quelle guglie decorative delle scuole
e delle caserme dudokiane, che pare debbano rimanere schiacchiate tra
terra piatta e cielo piatto d’Olanda.
Oud. - Sento venire da radici più profonde l’arte dell’antipapa
olandese: quanto rigoglio di rinnovamento se, nella stessa religione
moderna, troviamo due tiare in opposizione.
Egli si staglia più netto, più energico, nel cielo dell’architettura
contemporanea.
E più convinto, e fa più convinti.
Egli è il classico dell’organicità architettonica.
Il suo sdegno per l’ordine fittizio, per la simmetria preconcetta
del mondo classico, è sincero, e ricorda la passione di Josef
Olbrich.
Ma, come sempre, la passione apre le porte all’ebbrezza.
Eccoci dinanzi al De Klerk, audace e mordace, con le sue “musiche
pitagoriche della materia sottoposta a un ritmo”, con quelle sue
strisce di edifici, - che per centinaia di metri tagliano il basso cielo
di Amsterdam mediante una cornice implacabilmente orizzontale, - tutti
muro e luci, luci e muro; sul cui massiccio serpeggiano, come enormi
frecce vive, le scalee formate dai ballatoi: basse e lunghe quinte che
aspettano di conchiudersi nel Tempio dell’Energia.
Se ponete bruscamente un impreparato dinanzi a queste case cubiche di
cemento, di acciaio e di vetro, - tutte spalancate o tutte serrate alla
luce, - quegli crederà che tali edifici siano destinati ad accogliere
gli abitanti della luna, che un giorno o l’altro andremo a rilevare
a domicilio.
Gli architetti d’Olanda non si preoccupano che della moderna Gestaltung,
la quale deve portare la bellezza nuova sino ai borghesi, agli umili.
Sono tutti compresi da questo lavoro formativo di un carattere architettonico
sgorgante dalla perfetta rispondenza della costruzione allo scopo, del
materiale al fine, dell’organismo all’idea animatrice.
Per tutto ciò che riguarda l’architettura minore vi sono
ormai modelli perfetti: ma entrati che siamo nel dilemma in cui si dibatte
l’architettura contemporanea per avere una forma definitiva, estensibile
dal modesto all’aulico, - per cui il piccolo S. Pietro in Montorio
vale la grande Cancelleria, - anche questi formidabili rinnovatori,
si arrestano.
* * *
Germania. - Forse è la Germania che ci darà il grandioso
edificio monumentale di stile moderno che andiamo ansiosamente cercando?
Disinganniamoci: essa ci darà il colossale, ma non il grandioso.
Queste immense cattedrali dell’industria moderna, culminanti negli
stabilimenti Siemens di Hans Hertlein, hanno un ritmo modulare meschino;
vivono della ripetizione ossessionante di un solo elemento-pensiero;
sopravvivono di spirito gotico, destinato irrimediabilmente a sparire
dinanzi al trionfo della orizzontale.
Con la sua profonda sensibilità creativa se n’è
accorto Wilheim Kreis, - prima della guerra classiccheggiante, - che,
lavorando sul modulo quadrato, è arrivato alla quadrata solenne
espressione della singolare Stazione di Meissen.
E se Dominicus Böhm, nelle chiese di Magonza, dà ancora
un fiotto di vita alle acute forme gotiche, scarnificandole per arrivare
ai costoloni e ai pilastri, - attraverso ai quali i franco-muratori
presentirono il cemento armato, - il Fahrenkampf, sviluppando lo stesso
tema, abiura il gotico, pur tenendosi alla verticale, e il Mendelsohn,
coi suoi cinema, lo seppellisce definitivamente per far trionfare l’architettura
meccanicizzata.
Hans Poelzig, - coi suoi colossali elaborati e le sue immense cupole
di stalagmiti, vuole mordere il cielo: ma i suoi edifici sono grandissimi
e non grandiosi; non vi circola il sangue della ispirazione, della vitalità;
il suo respirare è grosso e affannoso: egli è astruso
e grossolano: tutti i grandi artisti tedeschi, appunto perchè
grandi, debbono, nel volo di aquila spiccato verso il settimo cielo,
assumere anche il contrappeso di tali deficienze: debbono essere, perciò,
astrusi e grossolani.
(Automaticamente il pensiero corre a quella specie di Maddalena, che,
nella scena centrale del Venerdì Santo, asciuga con le sue trecce
i piedi di Parsifal; a questo goffo tentativo di trasportare il dramma
di Cristo nelle nebbie mistico-sensuali del cielo alemanno).
* * *
La Gestaltung, la nuova forma architettonica generata nellimmensa,
rutilante, potente fucina tedesca, cerca ora la via del mare; la prua
dei sottili vascelli leggeri invade i mari del nord, condottiero l’Oud
che, da Stoccolma, viene attratto a Rotterdam.
Un’altra via di sbocco, ma di snaturalizzazione, si crea automaticamente
la Gestaltung attraverso una zona neutra: la Svizzera.
Le casette di abitazione di Meis Van Der Rohe si possono confondere
con quelle dello svizzero Le Corbusier o del francese Mallet-Stevens.
È in questa architettura minore che la travolgente corrente moderna
ha agito compiutamente: ha assalito la piccola cosa, l’ha travolta
e riplasmata.
* * *
Svizzera. - Era logico attendersi che l’internazionale, policroma,
incuneata Svizzera desse all’architettura contemporanea a carattere
internazionalista il suo profeta. Se l’architetto Pfischer, con
la sua stazione di Zurigo, e il Moser, con la sua Chiesa di Basilea,
poggiano e derivano dal solenni maestri tedeschi, cosí come fanno
i maggiori esponenti degli altri cantoni, che gettano ponti verso il
vicino confine, l’architetto Le Corbusier si leva su gli altri
quale profeta e predicatore della nuova religione internazionale, il
cui vangelo si può concentrare nei seguenti aforismi:
Non esiste passato. - Non esiste confine. - La macchina è il
nostro Dio.
* * *
Russia. - Le turbe russe si sono infatti, in seguito all’irresistibile
richiamo, messe in ginocchio adorando il nuovo Messia, a cui hanno commesso
l’empireo del razionalismo: un edificio destinato a ospitare un
ministero, che non avrà finestre: una serie di vetri fissi farà
penetrare la luce in una gabbia di cemento, in cui l’aria sarà
immessa meccanicamente.
Qualcosa per cui la Biblioteca di Leningrado di Nikoliski, la Casa in
Mosca di Walikowski, - una gabbia in vetro e ferro appena fasciata di
cemento, - la Casa di Grinberg, - tutto il contrario della precedente,
- e il Teatro di Schnessew, verranno ad assumere il valore e il significato
di monumenti arcaici.
* * *
Francia. - S’intuisce con quale viva ansia penetriamo in Francia.
C’è qui sangue latino, e buon sangue, che finge di mentire
quando ve n’è convenienza, - e ci interessa di sapere in
che modo esso reagisce e assimila il germe nuovo trascinato dalle correnti
esotiche che premono, avviate per terra e per mare.
È sangue che, come l’italiano, non vuol perdere le sue
caratteristiche.
Ma la complessa zona di contatto con le sei nazioni continentali di
confine, il flusso continuo e vivace dei centri babelici d’America,
- di cui Parigi è diventata la testa di ponte europea, - devono
avere profondamente influito sullo spirito francese, irrequieto e pratico
insieme, raccolto e invadente.
Sono quindi contrasti e battaglie, proprio come in Italia.
Augusto Perret da tempo, attraverso una nuova sostanza costruttiva,
ha imposto una nuova linea decorativa; la sua architettura di cemento
armato, da prima denigrata e vituperata, si è ora acclimatata,
polarizzando lo spirito moderno francese a tal punto che la si vuole
battezzare francese di origine, di sangue e di spirito.
Sappiamo che così non è.
Il seme è esotico, di poi trapiantato in Francia: curato razionalmente
ha dato bellissimi fiori nazionali.
Accanto al Perret incontriamo Tony Garnier, interessante elemento reattivo
lionese alla tendenza snaturalizzante parigina, il Granet, il Mathon,
il Le Franc, il Bourgeois, il Siclis e il grandeggiante Mallet-Stevens,
che nelle sue piccole cubiche case a serie si mette in riga coi modernisti
del resto di Europa: ma quando egli si isola e si ambienta, risorge
nelle sue opere tutto il clima aristocratico che nella razza ha distillato
attraverso i secoli, entro cui essa si affina sempre più, e crea
villa Yères.
Così tu vedi ripetersi il fenomeno che avveniva allorché
la guerra ci normalizzò, ci standardizzò, ci eguagliò:
eravamo tutti vestiti in serie, tutti in grigio-verde, ma tu distinguevi
il signore a cento metri di distanza.
Egli stesso ora ci avverte che l’impeto iniziale di rinnovamento
si frange, si attenua, nella ricerca del particolare.
* * *
Austria. – Dopo la nazione più vittoriosa, la nazione
più vinta: l’Austria. Il brusco decadimento politico doveva
necessariamente portare con sé un decadentismo artistico. Rimane
però ancora altissima, forse insuperata, sempre viva di sole,
una cima: Josef Hoffman.
Vogliamo solo mettere in evidenza, - quale fenomeno riflesso della Gestaltung
e di immediata influenza occidentale, - gli edifici socialisti.
“In Vienna l’edilizia recentissima ha un solo carattere:
la praticità; un solo costruttore: il Comune; un solo scopo:
politico”.
Da cui gli enormi casermoni di mille alloggi in cui è timidamente
affidata una funzione decorativa al colore applicato sugli elementi
separatori, - rilevati leggermente rispetto alla mastodontica massa
squadrata e bianca, - con la loro bizzarra forma di fumaioli e di tolde
di comando di navi.
Il poco sole rimasto a scaldare questa terra, scivolando lungo i solitarii
viali di Schoenbrunn, si è fermato nella Carl Marx Hof.
* * *
Ungheria. - Lo stesso non possiamo dire, con nostro vivo rammarico,
dell’Ungheria, che ci abbagliò a Milano nel 1906, allorchè
per diventare nuovi non si doveva diventare esotici; e, piuttosto che
allungar lo sguardo fuori i confini, si cercava con amore ed emozione
il fiore sotto gli occhi, il fiore che si era prima calpestato. L’arte
rusticana, oh tempi quanto lontani! Mancante di un capo autonomo, la
massa degli architetti magiari è come sballottata tra riva olandese
e riva tedesca.
* * *
Mari del Nord, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia. - È
necessario ritornare nei mari del nord per conchiudere il nostro ciclo.
Il Baltico, questo mare quasi chiuso, rappresenta oggi ciò che
per secoli rappresentò il Mediterraneo: il bacino della civiltà
architettonica.
Il sole di questa civiltà ha raggiunto il suo zenit nel paraggi
di questa latitudine, e vi sta fermo, essendovi faticosamente pervenuto
dall’Egitto, via Atene, Roma, Monaco, Berlino, con durevoli ritorni
a Roma.
L’Olanda si allieta di questo sole quasi meridiano e rifiorisce,
come abbiamo visto, attraverso una flora, vivace, nuova, aulentissima.
Ma, cosa assai strana, la Scandinavia, la Danimarca e la Finlandia,
reagiscono, pur essendo più lontane dagli antichi centri tradizionalisti,
alla moderna Gestaltung olandese, vivace, travolgente, spregiudicata,
per cui abbiamo visto l’Oud emigrare da Stoccolma a Rotterdam.
La Danimarca, questo estremo tentacolo del continente europeo, vibra
ancora di classicismo e trasmette le sue vibrazioni alla Scandinavia.
In Finlandia, l’ascetico architetto finlandese Eliel Saarinen,
- accortosi che i suoi poemi mistici in pietra non trovavano nella sua
terra le aure di modernità necessarie alla piena vita, - ha preferito
sfidare le vertigini dei cieli americani, lanciando contr’essi
le sue guglie dolomitiche.
Ma stiano tranquilli i tradizionalisti, l’architetto americano
J. Mead Howells, il più ardito dominatore dei cieli newyorkesi,
rappresentante gli Stati Uniti al XII Congresso di Architettura, - ha
dichiarato, appena posto piede in questa vecchia terra, che “i
grattacieli non sono prodotti di esportazione”.
Mentre il Berlage, maestro olandese dell’anteguerra della moderna
architettura, viene superato dal Dudok, e dall’Oud, l’arte
dello squisito, finissimo, fiordato Boberg, sopravvive sul calmo e laborioso
telaio scandinavo, attraverso le più vivaci forme attualistiche,
per quanto più snelle, più squadrate, più aderenti
alla vita attuale. Il Bergsten del Padiglione svedese dell’Esposizione
di arti decorative di Parigi, l’Asplund della Biblioteca di Stoccolma,
anche il Tengbom della Chiesa di Hogalid, e sopratutto il Lallersiedt
della Scuola politecnica di Stoccolma, ricordano i caratteri somatici
del grande e buon papà, il Boberg; e tutte le loro opere hanno
una chiarezza, una semplicità e un ordine classico, purissimamente
classico, pur non somigliando neanche da lontano al Palladio, al Vignola,
al Brunellesco.
Qualità tutte che culminano nel potente, sereno e raccolto Palazzo
Comunale di Stoccolma dell’Oestberg; a cui risponde dall’altra
riva il Palazzo della Polizia di Copenaghen del Kampmann.
Qui oltre che scuole, casette in serie, alloggi popolari, hangars, edifici
industriali, troviamo nobilissimi, potenti, sereni edifici rappresentativi
di un popolo, di una nazione; edifici in cui una razza ritrova l’espressione
di sè stessa, vive, si specchia e si riconosce: compiute perfette
manifestazioni di architettura per collettività.
E questi edifici sono classici, cioè in assoluto contrasto con
i principii universalistici, meccanicistici, razionalistici di Le Corbusier,
l’apostolo del razionalismo che ha predicato bene e razzolato
male; sono classici perchè chiari di forma, nobilitati e animati
da un pensiero profondo, che viene da sorgenti lontanissime, dalle sorgenti
da cui è venuta la razza, la civiltà, che quella accompagna
e circonda in un’atmosfera distillata nei secoli; sono classici
e sono anche aderenti al gusto e alla vita attuali, pratici, cioè,
utili, solidi, costruiti con materiale nobilissimo e con tecnica perfetta.
Chi ha assistito ad una festa, ad un congresso svoltosi nel Salone d’oro
del Palazzo municipale di Stoccolma, ha avuto la sensazione che anche
la nostra civiltà ha il suo Campidoglio, se non il suo Partenone.
Tutto un popolo ritrova finalmente sè stesso, documenta la sua
vita di oggi, in continuazione della sua storia di ieri, in questa solenne
architettura.
Tutto un popolo che ha raccolto il passato, come in un sacrario, nel
Museo all’aperto di Skanzen, verso cui si reca in pellegrinaggio,
dinanzi a cui si genuflette in adorazione; ma che vive, lieto e libero,
per le nuove vie di Stoccolma, e archivia le sue nascite, celebra le
sue nozze, esalta i suoi fasti nel nuovo edificio municipale.
E tutto ciò fa con animo semplice, ordinato, ben lontano dalle
modernizzanti frenesie teutoniche, dalla ripugnanza al companatico dell’Olanda,
dalle intestine clamorose lotte artistiche di Francia e d’Italia.
III. - NOI E GLI ALTRI
Budapest, Vienna, Venezia, Firenze, Roma, Catania.
Quale vertiginoso trasvolare, quale stupefacente panorama di bellezze.
E, insieme, quale patente e potente dimostrazione delle cause per cui
noi arriviamo in ritardo in questo rinnovarsi che fa l’Europa
dall’interno all’esterno.
Il fenomeno è in atto, e anche se tu chiudi gli occhi per non
vedere, ti arriva agli orecchi il rombo fragoroso dell’attività
di quell’immenso cantiere che le razze giovani si sono foggiate
lungo i mari del nord.
Le razze giovani, più fresche di noi, più ricche di noi,
meno gravate, nella faticosa marcia, per l’aspra erta che porta
al nuovo dal fardello della tradizione: magnifico fardello che tutti
c’invidiano, che ci renderà superbi e superiori allorchè
saremo giunti alla meta, ma che per ora grava, e come !, sulle nostre
spalle.
Se per gli architetti non italiani, vivere, evolversi nella tradizione,
significa modellare, riplasmare, trascinare nella incessante corrente
del progresso una materia uno, per noi architetti italiani ciò
significa agire su una materia dieci, formata da dieci unità
di natura diversa a seconda della regione di provenienza. (Beati i razionalisti
che con il loro esperanto architettonico si sono liberati di questo
fardello, di questo problema, di così grave responsabilità;
e vanno nudi alla mèta).
* * *
Dinanzi a questo stimolo dell’ineluttabile la massa dei nostri
architetti si è tripartita.
Gli elementi di una sparuta ala sinistra, ansiosa di vivere nel nostro
tempo, hanno espatriato, e si son tuffati nel bacino nordico, ritenendo
che queste acque, come quelle sacre e prodigiose di Lourdes, abbiano
il potere di guarire le piaghe del corpo. Ne sono venuti fuori imbacuccati
in clamidi nuove nuove, goffe goffe, suscitando lo scherno e l’ira
degli elementi dell’ala destra; i quali hanno reagito intensamente,
recalcitrando, tenendosi sempre più aggrappati alle muraglie
di Palazzo Pitti, alle colonne di S. Pietro, alle inferriate di Palazzo
Doria, sempre più paurosi che il furioso impeto di rinnovamento
finisca per strapparli dalle origini.
Tra queste due ali di mimetismo, ultramodernista e ultratradizionalista,
vive una massa che ripete, mitigati, i caratteri estremi, e si compone
nel centro in una falange che opera e procede in perfetta saggezza e
con piena padronanza di mezzi e di convinzioni: è il veicolo
elettrico che non vuole escire dal binario della tradizione, e, traendo
la energia cinetica dallo spirito nuovo, procede velocemente oltre.
Perchè la pace sia con noi è necessario che la grande
massa degli italiani non resti estranea a questo mirabile travaglio
di rinnovamento; che non si arresti alla considerazione superficiale
del fenomeno; che conforti l’impresa, assai ardua, con la sua
comprensione. Comprensione delle masse: miracolosa energia radiante
per i condottieri.
* * *
E l’adunata di Budapest comprova quanto ho detto.
Per generale riconoscimento il salone centrale dell’Esposizione
di Architettura, destinato, con gesto assai simpatico e significativo,
all’Italia, - era il più vario, il più nobile, il
più riposante. Frutto, questo, della sagace selezione operata
da principio, della nobiltà e freschezza del vaso in cui le opere
erano presentate; ma, sopratutto, conseguenza del fatto che gli architetti
italiani hanno capito, si sono svegliati, e, nella grande e migliore
massa, - escludendo cioè la sparuta ala sinistra ultramodernista
e la obesa ala destra ultratradizionalista,- procedono ora compatti,
sereni, lungo il cammino della tradizione: l’oscuro ingombro separante
la continuità di questo cammino è stato vinto. Sono rimasti
indietro, genuflessi dinanzi ai capolavori del passato, i fanatici idolatri;
e si sono velocemente affrancati i frenetici di oltrepassare, gli smaniosi
di novità; i quali, pure di vestire secondo l’ultima moda,
si sono rivolti a sarti esotici. Intendo parlare dei razionalisti.
I primi, più che ossessionati da un’idolatria, sono pavidi
di perdere posizioni malamente o degnamente guadagnate, che dovrebbero
ad altri cedere. Peccano di aridità e di egoismo.
I secondi, più che animati da una fede, hanno urgenza di arrivare
presto, sùbito, anche impreparati: vogliono sboccare al successo,
pratico, tangibile e goderselo presto. Da cui le esasperazioni del novecento
scultoreo, pittorico e architettonico, nelle cui fila, contro un artista
apostolo di buona fede, stanno nove neofiti di fede dubbia.
Le vie seguite dai maggiori, che impiegavano trent’anni per capire
una mano (anatomia e espressività), e poi ne facevano un capolavoro
nel capolavoro, attraverso le vie della naturalezza, sono troppo oscure,
faticose, aspre.
Si può vincere, sfondare, anche con la deformazione intelligente,
col bluff: da cui il sincretismo in architettura, e di poi il razionalismo.
Esso ha fatto passi giganteschi, ha cinto di una fascia il mondo, da
Parigi a New York a Tokio.
Tale capacità di espansione non è però da confondere
con quella propria degli stili, per cui il Rinascimento italiano conquistò
e dominò rapidamente il mondo. No. Essa viene dalla facilità
di uso, di adattamento, dalla meccanicità del sistema. Mi ricorda
la rapida conquista del mondo compiuta, circa trent’anni fa, dal
regolo calcolatore, per cui i costruttori si improvvisavano ingegneri
e architetti.
Ciò prova, e indubbiamente, che di tale movimento spirituale
si sentiva bisogno.
Infatti esso ha rappresentato un violento energetico reattivo contro
l’astenia, dico meglio, contro la profonda catalessi in cui giaceva
l’architettura dell’ottocento: tutta fronzoli, tutta floscia,
tutta maschera. Senza pensiero negli artisti e senza risonanza nella
collettività.
Voglio però aggiungere che tale benefica funzione è finita,
o quasi; che le violente oscillazioni pendolari estreme tendono ora
allo equilibrio centrale.
E questo è il corollario più vivo disceso dall’adunata
internazionale di Budapest.
* * *
Da una sommaria prima visita ai saloni della esposizione tu ritraevi
un senso di monotonia, di livellamento, a cui dava il tono centrale
la formidabile sala della Germania: tavole quadrate, dense, tutt’eguali
di dimensioni, tutt’egualí di colore: nero e grigio; che
sembravano tutte eguali nel pensiero generatore, ma non avevano in comune
che l’atteggiamento spirituale da cui questo pensiero discendeva.
Percorrendo gli interminabili uniformi allineamenti di vuoti e di pieni,
di pieni e di vuoti, dei quartieri nuovi di Berlino o di Rotterdam,
la tua primitiva sensazione, di gioia e di freschezza, svapora a causa
della esasperante distesa degli uniformi paraventi che sembrano messi
li per nascondere lo svolgimento materiale, e solo materiale, della
vita; e tu credi di esser preda di un incubo, che solo può vincere
la visione del mare, di un giardino, o di un’architettura passatista.
Cosi, allorchè, dopo aver visitato le varie sale, tu sboccavi
nel salone centrale destinato all’Italia, il tuo incubo era vinto.
Sembrava di sboccare inaspettatamente, dopo ore ed ore di viaggio lungo
un serpeggiante nastro di strade alpestri, - fiancheggiate ossessionantemente
da pini e abeti, da abeti e pini, - contro uno di quei sereni laghi
alpini in cui limpidamente si specchia la circostante varia chiostra
delle creste montagnose; in cui precipitano e trovano pace le irrequiete
correnti degli impluvii.
E se dopo questa visione antiquata, classica, diciamo pure passatista,
tu ritornavi indietro, e, con questa luce nuova nello spirito, riguardavi
il gruppo delle sale in cui sboccavano le correnti della Gestaltung,
ti accorgevi che questa vivace corrente artistica nord europea, dopo
aver livellato, col suo impeto travolgente, razze, popoli, regioni,
si è già franta, si è già raccolta in larghi
bacini nazionali, in cui le dighe della razza e della personalità
riprendono la loro funzione potenziatrice; ti accorgevi che siamo entrati
nettamente nella fase reattiva alla standardizzazione.
Il generoso popolo magiaro, - a cui volevamo assai bene ieri, a cui
vogliamo ancora più bene oggi, - ha per primo compreso che l’Italia
è ancora una volta chiamata a ritmare, assumendo le funzioni
di volano, questo impeto di rinnovamento che non ha una legge armonica;
per cui attualmente ci troviamo presi tra modernismo olandese e modernismo
tedesco come tra i margini di una morsa.
Abbiamo avuto tutti, più che la sensazione, la prova che il centro
razionalista tedesco ripiega e devia, lasciando la formula meccanica,
- su cui si sono buttati ansiosi e famelici, come su una facile preda,
i faciloni e gli arrivisti di tutto il mondo, - per imprimere e animare
di una nota di originalità e di poesia la rigidità meccanica
degli edifici in serie; per cui l’architettura, - liberata con
tanti nostri sforzi dagli impresari, costruttori, dai codici vignoleschi,
da gli ingegneri, - si avviava a ritornare alla originale schiavitù,
ancora più addomesticata, ancora più imprigionata entro
un facile formulario universale.
La personalità, - questo divino segreto che Dio attribuisce agli
uomini e alle razze elette, - finalmente reagisce, rompendo le fila
della nuova collettività francomassone che va da Parigi a Tokio,
a cui danno largo contributo i centri ebraici.
Concludendo: la benefica funzione reattiva con la quale il razionalismo
ha ridestato l’architettura giacente nella grave astenia tradizionalista,
lasciata in eredità dall’ottocento, si è, secondo
me e secondo molti altri, conchiusa, o si sta conchiudendo.
Amo moltissimo i giovani, in mezzo ai quali vivo e rivivo me stesso.
Non vorrei che, per eccesso di entusiasmo per il nuovo, continuassero
a ritenere che il razionalismo sia una stazione di arrivo, un eden a
cui sono inconsciamente attratti da seduzioni ingannevoli, sopratutto
dalla facilità del cammino sboccante rapidamente nel successo
effimero.
Il razionalismo è una stazione di transito verso vie maestre
stese al sole in continuazione, non in sovrapposizione, - badiamo bene,
- di gloriose vie lungo le quali passarono i nostri maggiori, lasciando
sul cammino le loro opere come ex voto dedicati al genio immortale della
razza.
* * *
Ecco perchè nel centro dell'Esposizione stava l’Italia.
L’Italia nè tedesca, nè olandese, nè francese:
italiana. L’Italia di oggi, potente e serena.
Questa lunga e divina Italia, - connessa al continente europeo attraverso
la rugosa saldatura alpina, e pencolante nel bacino mediterraneo, che
la sciacqua e risciacqua incessantemente, con questa zattera siciliana
spinta verso l’Africa, - ha assorbito, reagito, filtrato il germe
della Gestaltung, che è stato assimilato, e, già normalizzato,
entra nel circolo vitale beneficamente, come un siero fisiologico.
Ci sono centri cospicui di rinnovamento: Torino, Milano, Roma, Catania;
zone di medio e zone di lento rinnovamento; zone morte.
Torino, per disposizioni storiche, geografiche e per qualità
di artisti, è divenuta il quartier generale dell’ala sinistra
avente il suo posto di comando nel Palazzo Gualino, che abbiamo già
visto a pezzo a pezzo lungo la nostra peregrinazione europea, e, prima
ancora, nelle riviste esotiche. E questa è esasperazione del
novecentismo.
È con vero dolore che si vedono giovani di fervido ingegno italiano
accanirsi a cancellare dispoticamente dalle loro opere ogni attributo
di italianità, che pure è sorto spontaneo, persino l’aggettivo,
il profumo italiano, pur di obbedire ad uno schema, a un programma preconcetto.
No. L’arte, ogni arte, sopratutto l’architettura, ha un
incancellabile carattere di ereditarietà; l’architettura
è, sì, tormento che sale dall’intimo dello spirito,
nel cui profondo si insinuano le prime radici capillari della sensibilità,
- così come il mandorlo spinge nella dura lava gli elastici aculei
dei sottili tentacoli; ma è poi canto, espansione, libero inno
al cielo verso cui ogni cosa organizzata si rivolge.
Non è mortificazione, ma rapimento, esaltazione, dopo una profonda
maturazione.
Preferisco vedere il leccio selvatico, la cui semente è stata
gettata dal vento casualmente in una forra, aspra e silenziosa, da cui
esplode impetuosa la pianta con la sua vita organizzata in fronde, in
foglie, in gemme, piuttosto che il leccio addomesticato in forme geometriche
e improprie, sedili, arcate, fontane, - del parco di Schönbrunn.
Dove non c’è libertà esterna, contro disciplina
interna, non c’è arte.
Anche il tedesco, parlato da un italiano, non è, non devessere
il tedesco parlato da un tedesco.
E lo stesso italiano, parlato da un siciliano si distingue da quello
parlato da un torinese.
Milano è il vertice di un vasto cono d’influenza a basi
larghissime, che vanno dalla Francia all’Austria.
Ma i lombardi non si lasciano inebbriare da queste aure esotiche che
passano gelide su cicatrici non totalmente rimarginate.
Con misura, vorrei dire con circospezione, si sono rivolti all’architettura
dei loro nonni, e, senza far salto, hanno cercato di saldare i vasi
sanguigni tra tessuto nuovo e antico.
Non è certamente questa la via maestra per sfondare, per guadagnare
il cielo; per ciò fare ci vuole tormento, audacia, ala.
E ala gagliarda ha un gruppo di giovani in piena ascensione.
Roma, per disposizioni storiche, geografiche, politiche e qualità
di artisti, è divenuta il quartier generale della massa centrale,
che ha il suo condottiero in Marcello Piacentini. Questo artista, ha
avuto il merito grandissimo di aprire a poco a poco le nostre finestre,
da tempo serrate, al soffio travolgente spirante dal nord, prima che
esso sbattesse le imposte, rompesse i vetri e mandasse tutto per aria
in casa nostra.
Egli stesso ha graduato l’assorbimento degli aromi di cui quest’aura
nuova è pregna, a cui i suoi e i nostri polmoni non erano abituati,
evitando l’ebbrezza esaltante e la polmonite debilitante.
E non ha voluto bere di quella droga soporifera indigena preparata versando
poche gocce di absinthe in molta acqua del Tevere; preparata, cioè,
secondo una formula per cui il nuovo veniva a essere creato col paradosso
dell’antico: così un edificio scolastico fingeva una terma
di Augusto.
Aderenza dell’edificio, per struttura interna e composizione esterna,
al tema;
Aderenza della forma ai materiali;
Aderenza dell’edificio all’ambiente, in generale e in particolare;
Chiarezza, misura, semplicità; poche ornamentazioni, e solo quelle
che dimostrano il diritto di esistere.
Ecco i canoni del nuovo indirizzo, che ha da essere nuovo perchè
deve servire bisogni nuovi, pur trascinando nei suoi sviluppi l’antico,
così come il gorgo del fiume trascina il grano di pietra dalle
sorgenti all’infinito.
Palermo, per disposizioni e attitudini storiche, geografiche, politiche
e qualità di artisti, è divenuta il quartier generale
del cadente mimetismo tradizionalista.
Contro cui, però, la Sicilia orientale, con quartier generale
a Catania, reagisce vivacemente attraverso una pienezza di maturazione,
lungamente elaborata in profondità, e una gagliarda fioritura
che affaccia al suolo con impeto, se non vulcanico, primaverile.
Rivedo, dopo tanti trapassi, con profonda tenerezza, con un senso di
commosso smarrimento, il mio cielo profondo e denso; e sott’esso
un pettine ispido e frastagliato: le colate laviche dell’eruzione
del 1927, ancora fumiganti allorchè rabbiosamente le addenta
il piccone rivolgitore.
La natura ha violentemente scombinato l’orografia di una zona;
l’idrografia venne di conseguenza a mutarsi.
Il coltivatore misantropo non volle, non seppe comprendere che ciò
che pareva immutabile erasi mutato. E non si mosse.
Vennero le piogge, e le sue terre, salve dal fuoco, vennero distrutte
dalle acque.
Il coltivatore folle credette riparare al nuovo stato di cose creando
nuovi argini, e le acque distrussero opere e terre.
Il coltivatore saggio, con animo forte, raccolse, prima di abbandonarle,
dalle terre destinate a morire il miglior seme, e, fattane una cernita,
lo trapiantò nelle terre che le nuove piogge avrebbero reso feconde.
Dopo annose fatiche egli riavrà la ricchezza.
Cosi è dell’architettura contemporanea; mutati spirito
e bisogni del nostro tempo, come mutati!, - così come venne a
mutamento l’orografia della zona etnea, è venuta a mutamento
anche la sua idrografia: le correnti artistiche.
Anche gli architetti di oggi, dinanzi al fenomeno di rivoluzione che
agita il mondo artistico, si sono divisi in tre schiere, come i coltivatori
della flagellata plaga: i folli, i misantropi, i savii.
* * *
Con questa biblica visione la mia divina terra suggella in verità
ciò che io ho appreso, a grado a grado, con gioia e fatica.
Così il lievito del sapere acquista la forma splendente.
E se alzo lo sguardo io vedo la cima dell’Etna: questa mostruosa
e affascinante sorgente di bene e di male, di ricchezza e di distruzione,
di vita e di morte.
Essa ha ululi cupi, ma ha anche voci suadenti; ha un suo palpito continuo
che riconosco bene come l’alterna voce della pendola del mio studio:
cara voce.
Ad ogni alternanza questo mostruoso orologio solare ripete: “Hora
incerta Mors certa”.
Torniamo al lavoro.
Catania, 18 Settembre 1930 - VIII.
FRANCESCO FICHERA.