FASCICOLO V-VI GENNAIO-FEBBRAIO 1930
LUIGI PICCINATO: Il "Momento Urbanistico" alla Prima Mostra Nazionale dei Piani Regolatori, con 51 illustrazioni
Tra un passato tranquillo e statico che si sta chiudendo ed un avvenire dinamico che si spalanca alla vita nazionale, le nostre città sono oggi in pieno nella fase di lavoro per la preparazione del loro domani: mai nella nostra storia urbanistica si è attraversato un periodo più fervido e nello stesso tempo più delicato. Delicato, ho detto: e oserei dire pericoloso, in quanto che l’esplosione della nuova attività edilizia ha portato in primo piano il problema urbanistico così improvvisamente da non consentire quella lenta indispensabile preparazione di studi, che ha permesso ad altri popoli di affrontare il problema con maggior sicurezza.
Infatti noi italiani siamo costretti in gran parte a materiare di dolorose esperienze la nostra tecnica: e dell’altrui esperienza si può, si deve anzi, approfittare, solo in quanto si possano raffrontare situazioni e problemi. E se da un lato la deficienza di studi storici veramente organici per una identificazione generale dei problemi ci impedisce spesse volte di vedere illuminatamente le soluzioni, dall’altro lato tutta una nuova modernissima concezione urbanistica sta sconvolgendo quanto in materia sembra già patrimonio acquisito; e avviene quindi che, mentre gli uffici tecnici preparano piani di ampliamento e di trasformazione da attuarsi come indispensabili, la rapidità del progresso degli studi denunzia già questi progetti come erronei e dannosi.
Ed ecco quel senso di disorientamento generale e quella difficoltà di una reciproca comprensione che si manifestano sempre quando manca un comune vocabolario che fissi una volta per tutte idee e concetti.
D’altro lato, mentre si discute e si polemizza e si tenta di chiarire i problemi, la forza travolgente della vita sconvolge i piani e compromette le soluzioni: e se si pensa contemporaneamente (per accennare ad un solo lato della questione) al notevole tesoro artistico-edilizio ogni giorno minato dalla vita moderna e alle nuove necessità che d’ogni parte sorgono e che finiscono per vivere in noi in modo irrefrenabile, ci si persuade che mai come oggi e occorsa una chiarificazione di tutte le nostre idee urbanistiche.
Noi oggi stiamo creando le città di domani: un nostro errore può compromettere l’avvenire o distruggere irreparabilmente pagine gloriose del nostro passato. Nelle basi della vita futura delle nostre città che oggi si stanno ponendo, sono racchiusi in germe tutti gli sviluppi di domani: sviluppi pratici, artistici, economici, igienici, tutto è sintetizzato in forma di energia potenziale in quello che oggi si progetta.
Prima di tutto quindi, chiarire le idee.

Se la prima Mostra Nazionale dei piani regolatori (1), inaugurata in occasione del XII Congresso internazionale dell’abitazione e dei piani regolatori, ha servito quale potente mezzo di propaganda dei nuovi progressi del nostro urbanesimo, pur tuttavia la sua massima portata pratica e stata quella di averci offerto appunto il mezzo di guardare chiaramente dentro noi stessi, di vagliare le nostre forze, di individuare i problemi e le soluzioni, di mostrarci insomma nitidissima, anche sotto le dorature e la pompa di una esposizione, la verità del momento urbanistico.
Praticamente la mostra appariva divisa in due settori: quello dei piani compilati dagli uffici pubblici e quello dei piani studiati dai privati, indipendentemente dalla ufficiosità o meno dei progetti. Ed è sotto questo aspetto che conviene esaminare la portata della Mostra stessa la quale, specchio fedele della vita urbanistica, rivelava un certo senso di dualismo tra le due posizioni suaccennate, Le quali scaturiscono e da una opposta concezione funzionale della città e, in certi casi, dalla incompiutezza degli studi e dei rilievi preparatori necessari alla soluzione dei temi.
Per passare ad un esame dettagliato e da osservare appunto come molte città attraversino ancora la fase di studio e di preparazione (e non può essere altrimenti data la complessità dei problemi). Tale il caso, per esempio, della città di Napoli che si è presentata ufficialmente alla Mostra con una ricchezza ed una abbondanza di materiale veramente eccezionali. Ma dall’insieme sfuggiva completamente una concezione unitaria dello scheletro di un piano regolatore che ponesse le principali questioni e le risolvesse; mentre invece la grande quantità di grafici e tabelle e piante storiche, ecc. (figg. 1-4), stava a testificare il progresso degli studi preparatori che, convenientemente compresi, potranno condurre alla soluzione, Accanto alla mostra ufficiale, l’architetto V. Pantaleo presentava all’opposto un suo studio che abbraccia il tema globalmente (figg. 5-8), cercando di dare all’insieme una ossatura generale di base senza la quale ogni piano regolatore si risolve in inutili, spesso dannose, soluzioni di dettaglio.
Napoli è una città a sviluppo successivo laterale e non città stellare come tale va studiata, inquadrata e risolta (2), In questo senso il tema napoletano era difatti studiato dallo schema di piano regolatore a suo tempo proposto dalla apposita commissione presieduta dal prof. G. Giovannoni, il quale ha portato la difficile questione in termini più esatti, prospettando tutto il piano sotto la luce dell’inquadramento generale,
Anche Milano, che all’opposto di Napoli è una città radiale, si presentava con grande ricchezza di tavole (figg. 9-12) in modo da dare esatta la comprensione del grave problema nel quale l’impreparazione politico urbanistica degli ultimi cinquant’anni ha fatto cadere l’intera città. Mentre difatti qualche decennio fa era forse ancora possibile, con un previdente piano di decentramento, deviare dalla zona storica del Duomo il traffico e l’interesse edilizio, risolvendo lo schema monocentrico in uno schema policentrico, oggi invece la situazione appare quasi disperata.
E già il piano Napoleonico del 1807, che oggi guardiamo con estremo interesse, racchiudeva nelle sue linee schematiche, una chiarezza di visioni che, ove fosse stata seguita, avrebbe risolto il problema generale.
Particolare interesse destavano le moltissime tavole dei progetti vincitori del primo, secondo e terzo premio del noto concorso (del quale la nostra Rivista ebbe a suo tempo ad occuparsi (3)) e specialmente quella che riassumeva la soluzione del centro della città prospettata dal Club degli Urbanisti mediante un completo anello a racchetta inteso all’isolamento della zona centrale. Figurava inoltre la tavola gigantesca (fig. 12) del piano ufficiale di trasformazione della zona centrale; il quale non può non riflettere l’incertezza caotica dello stato di fatto; e quando sarà eseguito (avulso com’è dal piano generale di ampliamento) ben poco potrà lasciare intatto della vecchia Milano caratteristica: chiaro insegnamento delle conseguenze della imprevidenza urbanistica del nostro passato.
Il Comune di Torino (figg. 13-15) presentava all’opposto il suo caratteristico piano ordinatissimo che continua, senza infamia e senza lode, il sistema impostato fin dall’epoca romana nel proseguire il quale, non bada ad evitare gravi errori di dettaglio negli incroci, nelle piazze, nelle lottizzazioni.
Nella stessa povertà di dettaglio cade anche il piano che Bologna (figg. 16-17) propone a variante del vecchio progetto del 1889. Anche questa città, come già Milano, avrebbe potuto (e forse se si volesse sarebbe ancora possibile) salvare il meraviglioso centro storico artistico spostando verso Nord il suo asse centrale oggi impostato su Via Rizzoli e dare allo sviluppo cittadino un andamento infinitamente più brillante e moderno di quello che acconsentirà la simplicitas del piano ottocentesco e dell’attuale che, sotto certi aspetti, peggiora la situazione.
Così Padova presentava gli studi per la piazza che occuperà parte dell’area delle demolizioni centrali.
È questo proprio il caso tipo di un piano di trasformazione che, male concepito, ha finito per ridursi, là dove la speculazione edilizia ha avuto ragione di tutto, alla realizzazione di un solo dettaglio: quello di una piazza avulsa dall’organismo della città. D’altro lato il Gruppo degli Urbanisti di Roma esponeva il proprio piano completo (fig. 18) che già i lettori di questa Rivista conoscono (4).
Ma di fronte a Padova stava l’insegnamento della città di Bergamo che presentava sotto il titolo di “Bergamo rinnovata” la completa documentazione fotografica della realizzazione del piano di Marcello Piacentini (5) inteso alla conservazione della vecchia città e alla creazione di un nuovo modernissimo centro cittadino fuori della cerchia delle mura. Ed è proprio cosi: solo la creazione del nuovo può salvare l’antico.
Con questo stesso spirito è concepito il piano regolatore e di ampliamento di Santa Maria degli Angeli presso Assisi presentato dal Gruppo degli Urbanisti di Roma suggerito dal prof. Giovannoni (fig. 19).
È basato questo piano sul criterio di coordinare e valorizzare lo sviluppo edilizio del piccolo centro in formazione presso la stazione ferroviaria, in modo che questo assuma su di sè gran parte dell’attività edilizia, che altrimenti non potrebbe non accentrarsi nella vetusta cittadina con gravissimo danno estetico ed economico.
Questo della formazione spontanea dei nuovi centri in pianura, ai piedi delle medioevali cittadine arrampicate sulle alture, è tema obbligato e comune oramai a tutte le città minori dell’Italia Appenninica ed Assisi ha il merito di averne affrontato la soluzione prima di ogni altra consorella e prima che un disordinato e sporadico agglomeramento edilizio abbia compromesso ogni progetto razionale.
Con la stessa analogia, ma in proporzioni ben più vaste e complesse, si presenta il problema dell’avvenire di Venezia, città chiusa dalle sue lagune, e per la quale tutto lo sviluppo edilizio del retroterra di Marghera rappresenterà la grande valvola di sicurezza.
Il Comune di Venezia si presentava difatti alla Mostra con tutto il vasto piano regolatore di Mestre e di Marghera al quale era unito un gigantesco plastico.
La portata di questo piano è vastissima ed esorbita da un valore puramente locale: la formazione prevista ed avviata del nuovo quartiere urbano (figg. 21-22) accanto alla grande zona industriale porterà ad un grandissimo sviluppo generale sia per la fortunata posizione, sia per la risonanza nel problema intrinseco globale che porta spontaneamente allo sviluppo della regione, Venezia potrà così superare il pericolo della trasformazione edilizia e potrà (anzi dovrà) conservare intatto il suo sontuoso patrimonio artistico unico al mondo, come già hanno fatto Norimberga e Bergamo ed i moltissimi esempi stranieri della più moderna tecnica urbanistica. Ma v’è ancor di più: mentre la città potrà sfollarsi agevolmente e provvedere di conseguenza ai restauri e alla valorizzazione dei monumenti, in pari tempo trarrà dalle sue nuove industrie e dal suo porto ricchezza e vita del tutto nuove.
Ove il piano di Mestre fosse innestato ad un vasto piano regionale fino a Chioggia da un lato e fino a Padova e Treviso dall’altro, Venezia verrebbe a signoreggiare una regione ricchissima di sviluppi presenti e futuri. E noi ci auguriamo che il Comune di Venezia sappia aprire gli occhi in tempo per dare alla città, con una saggia politica urbanistica, proprio questo sviluppo di decentramento verso terra anzichè far gravare erroneamente tutto il retroterra sulla compagine edilizia della vetusta gloriosissima città che non potrebbe non soffrirne grandemente.
La questione dei piani regionali si affaccia ora in Italia con carattere di assoluta urgenza: e la politica agricola e le nuove bonifiche e la presenza di vastissime zone di interesse turistico sono altrettanti fattori che spingono ad affrontare il problema.
La città di Foggia esponeva alla Mostra i progetti completi del concorso per il piano regolatore vinto dal Gruppo degli Urbanisti di Roma, già ampiamente illustrato dalla nostra Rivista (6) e che quindi non riportiamo.
Ma qui ci preme solo insistere sulla importanza che nel caso di Foggia (città a concentramento rurale) ha assunto il piano generale di decentramento rurale. Il quale permetterà un graduale sfollamento della popolazione agricola e quindi una chiarificazione dei valori edilizi cittadini contemporanea alla valorizzazione dell’intera regione.
Analoga, sebbene diversa nel valore e nelle premesse, è la situazione di Genova e delle riviere che cingono il suo Golfo: ove fosse possibile stringere tutti i Comuni rivieraschi in un unico piano regionale (come già da anni hanno saputo fare i Comuni della Costa Azzurra (7)), si otterrebbe una stupenda valorizzazione turistica ed economica dell’intera regione, evitando sperpero di energie e di valori. Il Comune di Genova invece, lungi dal comprendere l’importanza di una tale concezione, non ha ancora elaborato, nonostante concorsi e polemiche, un vero piano regolatore moderno; ed è avvenuto che verso levante ad esempio, lo sviluppo edilizio ha guastato le bellezze panoramiche compromettendo il futuro. Fortunatamente però la parte vecchia della città, più per la forza delle cose e della posizione che per la volontà degli uomini, è sfuggita sino ad oggi ad una vera e propria devastazione dato il completo spostamento del centro cittadino verso levante.
Il piano regolatore di Formia (figg. 26 e 27) studiato dal prof. G. Giovannoni mostrava chiaramente la via da seguire nello sviluppo delle nostre spiaggie: separazione delle zone portuali-industriali da quelle balneari e residenziali, valorizzazione delle spiaggie e delle loro bellezze accanto alle vecchie città.
La situazione dei Comuni della riviera ligure si ripete analoga in quella dei Comuni Vesuviani intorno a Napoli, in quelli della costa sicula orientale da Messina a Catania, in molte zone della riviera adriatica da Ancona a Pescara e oltre, ed infine in molte coste dei laghi dell’Italia settentrionale.
Piani regionali di carattere non turistico ma industriale, sul tipo di quello del distretto minerario della Ruhr, sarebbero necessari in Lombardia; mentre altri di carattere puramente agricolo si impongono per le nuove zone di bonifica.
Infine, indipendentemente dai motivi di carattere o turistico, o industriale, o agricolo, o di protezione del paesaggio, ma anche tenendo presente il solo problema edilizio, grandi piani regionali dovrebbero coordinare la vita delle zone limitrofe alle grandi città.
Poichè il tema di un piano regolatore interno di una città può grandemente trasformarsi, o addirittura risolversi, con la compilazione di un piano regionale. La connessione tra le due posizioni è cosi intima e profonda da non potersi pensare l’una senza tenere conto dell’altra o addirittura senza subordinare l’una all’altra.
Così l’eccessivo inurbamento di certe città dovrebbe essere risolto proprio con piani regionali di completo decentramento pensati in modo da facilitare la permanenza della popolazione nella campagna: mentre d’altro lato i paesi esistenti dovrebbero essere collegati tra loro da una rete stradale studiata in maniera da impedire inutili sovrapposizioni di interessi locali e sperpero di energie.
Certo per raggiungere questa concezione urbanistica unitaria si impongono Consorzi di Comuni, che si sostituiscano al singolo, e che sostituiscano anzi all’interesse singolo l’interesse generale della regione. La fondazione di questi Consorzi, già sviluppata su larga scala in Francia, in Germania e sopratutto in Inghilterra (già nel 1928 vi erano in questo paese più di 60 Comitati regionali per una estensione di quasi metà del territorio nazionale) troverebbe proprio in questo momento in Italia un clima politico-economico favorevolissimo. Fino ad oggi invece nulla di simile si è fatto in Italia, quantunque l’interesse degli studiosi sia grandissimo: difatti il tema sarà all’ordine del giorno per il prossimo XIII Congresso per i Piani regolatori.
Connesso con i problemi della viabilità che i piani regionali dovrebbero risolvere e quello particolare dell’attraversamento dei centri urbani da parte delle arterie principali di collegamento provinciale, le quali necessariamente dovrebbero essere deviate verso la periferia in modo da non interferire nè con la parte storico-artistica della città nè con quella d’immediato sviluppo.
In questo senso ad esempio, la provinciale Roma-Abruzzo, nel progetto del piano di Tivoli, presentato da A. Scalpelli, del Gruppo degli Urbanisti di Roma, era deviata in modo da acconsentire il decongestionamento della parte alta della cittadina e facilitarne la sistemazione igienico-estetica (figg. 23-25).
Proprio nelle sale dedicate alla capitale quel senso di dualismo tra studiosi privati e uffici tecnici, al quale si è accennato e che tutta la Mostra lasciava trasparire, era sensibilissimo. Accanto ad un riassunto del piano ufficiale della città si schieravano infatti con una grande ricchezza di tavole due completi progetti elaborati da due gruppi di tecnici liberi professionisti oltre ad altri studi parziali dovuti ad architetti isolati.
Non che Roma proprio manchi di un piano ufficiale (come qualcuno ha insinuato) da richiedere l’intervento dei privati: ma piuttosto Roma possiede un piano regolatore di ordinaria amministrazione che non sembra soddisfare nè alle esigenze della Capitale nè corrispondere ai recenti progressi degli studi urbanistici.
È difatti un piano che segue e subisce, più che non lo disciplini, il travolgente sviluppo edilizio e che ha finito per acconsentire l’addossarsi per ogni lato della città dei nuovi continui anelli periferici di costruzioni in modo da far prevedere il soffocamento per congestione. Sembrerebbe quasi mancare a questo piano la concezione unitaria di una vera e propria ossatura di arterie stradali principali, distribuita con fermezza e decisione, atta a dare uno schema, una propria fisonomia urbanistica alla città.
Questo di Roma è d’altronde un tema così vasto, così complesso, che non è facile assommarne tutti gli aspetti nella attività di un ordinario ufficio. Se le città minori, per impostare la soluzione dei loro modesti piani regolatori, sentono il bisogno di valersi di idee nuove, selezionate attraverso pubblici e liberi concorsi, è esagerato pretendere la soluzione del problema romano dalla normale attività burocratica di un ufficio, sia pure ottimo. Questo spieghi la ragione dei due progetti privati (8).
I quali tutti e due pongono nettamente sul tappeto la questione dell’assetto definitivo della città attuale e quello dello sviluppo futuro attraverso una concezione urbanistica unitaria: ma, mentre partono da identici presupposti arrivano a concezioni finali notevolmente diverse.
Il primo, il progetto del Gruppo “Burbera” (figg. 33-42), propostosi la conservazione della parte più artistica della città antica compresa dall’ansa del Tevere e dal Corso Umberto, crea un sistema di due nuove grandi arterie di attraversamento ortogonale il quale dovrebbe assumersi il carico del traffico che ora congestiona le insufficienti arterie del Corso e del Tritone. All’incrocio di questi due grandi assi radiali centrali si formerà il centro monumentale moderno della città con il Palazzo delle Poste ed altri pubblici edifici.
Attorno ai due grandi assi ortogonali Nord-Sud ed Est-Ovest si svolgono dei sistemi di strade anulari e semianulari sempre maggiori, tendenti all’isolamento della parte antica della città. Il più interno di questi anelli stradali racchiude appunto approssimativamente la Roma papale e quella del 1870: da esso si dipartono radialmente tutte le arterie direttrici dello sviluppo cittadino congiunte poi alla periferia da ampie ghirlande di strade.
Anche l’altro progetto, (figg. 43-52), quello del Gruppo degli Urbanisti, pone a base del suo Programma urbanistico la conservazione e anzi la valorizzazione dell’intera zona storico-artistica della città, ma propone invece uno schema di graduale spostamento verso Est del centro cittadino, in modo da sottrarre la città antica agli interessi dell’edilizia moderna approfittando dello spontaneo svolgimento attuale a grande falce da Nord a Sud-Est che lascia ad Ovest la città antica e a SudOvest la città archeologica. Non sembrando possibile rivolgersi al classico sistema anulare per isolare il vecchio nucleo dagli attentati della vita moderna, ma, approfittando invece proprio del tipo dinamico della città, tutta la vita cittadina viene incanalata verso Sud-Est nello nuove zone e verso la campagna dal mare ai Castelli.
La spina dorsale di questo movimento dovrebbe essere data da un grande asse centrale separante nettamente la città vecchia dalla nuova, l’intangibile dal tangibile. Così il nuovo centro della vita moderna potrebbe svolgersi liberamente lungi dagli antichi quartieri, centrato press’a poco sulla attuale zona della Stazione, che a sua volta verrebbe arretrata.
Strettamente collegato con questo piano lineare policentrico, anzi conseguenza di questo, è un piano regionale che permetterebbe, con rapidissimi mezzi economici di trasporto, la residenza di gran parte della popolazione nelle bellissime regioni dei Castelli e di Tivoli, sviluppate, valorizzate, riordinate. Schema questo che, se presume moderni orari di vita cittadina, potrebbe avviare d’altro lato alla prima realizzazione italiana di una città a nuclei residenziali periferici, quali analoghe situazioni urbanistiche all’estero stanno creando con assoluto miglioramento generale della vita sociale ed economica. Altri studi di sistemazioni parziali della città erano presentati dall’ing. Costantini il quale ha studiato nuove arterie connesse tra loro e tendenti a creare una comunicazione continua Est-Ovest attraverso la città (fig. 32).
L’insieme dei progetti ai quali finora abbiamo accennato rappresenta una rassegna tutt’altro che completa: avremo forse modo di completarla altra volta illustrando i piani dei molti architetti presenti alla mostra, mentre ci conviene oggi cercare di sintetizzare a mo’ di conclusione la crisi spirituale dell’urbanesimo nazionale che questa prima Mostra ed il Congresso hanno messo in evidenza. I pochi studi e la molta esperienza richiedono bene che si abbracci in un grande quadro la complessa situazione.
Prima di tutto quindi il problema della sistemazione delle antiche città, il quale dovrebbe possibilmente procedere verso lo spostamento dei centri vitali in nuove e più libere zone, anzi che sovrapporre il moderno sull’antico: ben poche città invece hanno saputo vedere in questo senso il loro avvenire e si sono chiuse in cerchie quasi insormontabili di costruzioni.
Accanto, anzi connesso indissolubilmente con l’interno, l’ampliamento deve essere studiato con assoluta modernità di tracciati sia nell’impostazione degli schemi come in quella dei servizi, in quella delle zone verdi come in quella dei dettagli. Molti piani ufficiali invece (e ne abbiamo sotto gli occhi una vera infinità) sono redatti ancora a guisa di insensata scacchiera, senza gerarchia stradale, senza connessione con i vecchi quartieri, senza riguardo alla destinazione delle aree ed agli aspetti panoramici, senza previsione di zone verdi... senza, insomma, spirito moderno.
Qualche acuto visitatore confessava di non sapersi spiegare la simultanea presenza alla Mostra dl una tecnica antiquata, ottocentesca, a base di scacchiere e di girandole alla francese, accanto ad una tecnica modernissima quale pochi paesi sanno produrre.
La crisi spirituale del nostro urbanesimo è proprio qui: portato improvvisamente all’azione, l’urbanesimo della pratica corrente applica ancora le formule della tecnica francese post-napoleonica e non si è affacciato nemmeno al più tenue e sorpassato romanticismo Sittiano di trent’anni fa. All’opposto invece, altri studiosi hanno già superato in atto anche la vecchia posizione romantica post-sittiana accettando ed inquadrandosi nel più moderno movimento generale.
Di qui la incomprensione reciproca tra le due posizioni, di qui la differenza di vocabolario per la quale la stessa parola esprime idee opposte. E così accade che i vecchi propugnatori degli sventramenti e delle girandole gridino la croce addosso ai giovani del razionalismo moderno e li tacciano di conservatorismo, di superestetismo, e, incredibile, di romanticismo inguaribile.
La soluzione verrà: e sarà accelerata quando si darà al paese una nuova legislazione urbanistica che, come la legge francese del 1919, contempli l’obbligatorietà dei piani regolatori e consenta la formazione dei consorzi. La nuova legislazione sarà confortata dalla creazione di un ente di studi che, in pari tempo, lontano dalla burocrazia, possa funzionare come organo consultivo o di revisione tecnica dei progetti tenendo sotto uno sguardo solo la intera situazione urbanistica. Poichè la città moderna va riguardata non più come un nucleo chiuso, ma all’opposto come un sistema aperto che tende a decentrarsi nella campagna.
Su questa strada che, con i piani regionali, apre nuovi orizzonti alla vita cittadina, il nostro urbanesimo, teso alla disurbanizzazione, dovrebbe avviarsi (come già ad es. la Svezia e la Norvegia si propongono) alla realizzazione di un piano non solo regionale ma addirittura nazionale.
E in questo senso, lungi dalla concezione accentratrice ottecentesca, il nostro urbanesimo dovrebbe trovare la propria espressione caratteristica.
LUIGI PICCINATO


(1) All’iniziativa della Mostra, che completa l’organizzazione del Congresso, dedicarono tutta la loro attività l’on. A. Calza-Bini, presidente della Giunta Esecutiva ed il comm. Virgilio Testa, segretario generale del Congresso stesso.
(2) Sul problema di Napoli vedi:
“Relazione della Commissione per il piano regolatore della città”, Napoli 1927 (riassunta anche nella rivista “L’Ingegnere”, anno 1927).
V. PANTALEO: “Su di un moderno piano regolatore di Napoli”. Napoli 1921.
(3) Cfr. Architettura e Arti Decorative, 1927, fascicoli III-IV.
(4) Cfr. Architettura e Arti Decorative, 1924, fasc. I-II.
(5) Cfr. Architettura e Arti Decorative, 1925, fasc. I-II e ROBERTO PAPINI: “Bergamo rinnovata”. Istituto Arti Grafiche, Bergamo 1929.
(6) Cfr. Architettura e Arti Decorative, 1929, fascicoli II-III.
(7) Cfr. “Où est l’urbanisme”. L. Eyrolles ed., Paris 1923, pagg. 120 e 164.
(8) Del primo gruppo “La Burbera” fanno parte il prof. G. Giovannoni, V. Fasolo, A. Limongelli, G. Venturi, P. Aschieri, F. Giobbe, G. Boni, A. Foschini, E. Del Debbio, G. Nori.
Il Gruppo degli Urbanisti è composto dell’architetto Piacentini, L. Piccinato, G. Cancellotti, L. Lenzi, G. Nicolosi, R. Lavagnino, E. Fuselli, M. Dabbeni, C. Valle.

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