FASCICOLO IX - MAGGIO 1930
Il Concorso per la Cattedrale della Spezia (La Giuria esaminatrice), con 74 illustrazioni
Sulla Rivista abbiamo già dato replicatamente notizia dell’importante concorso per la Cattedrale della Spezia. Abbiamo pubblicato le parti più essenziali del bando, abbiamo annunciato il responso della Giuria esaminatrice che risultò composta dei seguenti membri:
Arch. On. ALBERTO CALZA-BINI, Segretario Generale del Sindacato Architetti
Abate CARONTI EMANUELE O. S. B., professore di liturgia
Ing. CERILLI FEDERICO, Capo dell’Ufficio Tecnico della Provincia di Spezia
Arch. CIRILLI GUIDO
Prof. Arch. Ing. GUSTAVO GIOVANNONI, Direttore della R. Scuola d’Architettura di Roma e Membro del Consiglio Superiore di Belle Arti
Ing. GIULIANI LUIGI, Capo dell’Ufficio Tecnico del Comune di Spezia
Ing. MARANGONI LUIGI, Membro del Consiglio Superiore di Belle Arti
NICOLETTI PAOLINO, Colonnello direttore del Genio di Marina di Spezia
UGO OJETTI.
Ugo Ojetti fu il relatore della Commissione.
Pubblichiamo nel presente fascicolo i progetti dei cinque concorrenti prescelti per la gara di secondo grado e quelli degli altri artisti indicati dalla Commissione come maggiormente meritevoli d’attenzione, ad esclusione di pochissimi di cui non ci fu possibile procurarci le fotografie. Includiamo anche qualche altro progetto degno d’interesse all’infuori dei citati. Ci limitiamo a pubblicare testualmente la seguente relazione della Giuria esaminatrice:

“Hanno preso parte a questo concorso centodiciasette architetti con novantadue progetti. All’appello lanciato con tanta fede dal Vescovo della nuova Diocesi della Spezia, S. E. Mons. Giovanni Costantini, non si poteva dall’arte italiana rispondere con più caldo consenso; e i più dei concorrenti sono giovani architetti nei quali la speranza di segnare per sempre il loro nome in una fabbrica sacra e monumentale, dedicata a Cristo Re dei Secoli, alzata in vista d’uno dei più bei golfi d’Italia, destinata ad accogliere il Capo, il Capitolo e i fedeli d’una diocesi nuova ma d’antichissima nobiltà e d’una città per armamento, traffico e lavoro modernissima, ha risvegliato l’emulazione, o almeno la reverente ammirazione pei loro più gloriosi predecessori nell’inventare e costruire chiese, cattedrali, basiliche ammirate e venerate dai credenti di tutto il mondo. Questo spiega perchè parecchi di questi concorrenti si sieno mostrati anche troppo ligi agli antichi esempi, sebbene dal bando del concorso si fosse saviamente lasciata loro “libera facoltà di dare al sacro edificio qualsiasi forma e qualsiasi espressione artistica, purchè rispettosa delle necessità imposte dal rito e del carattere della regione”. Ad essi il bando consigliava anche, nel modo più largo e discreto, di tenere le loro invenzioni “dentro forme semplici e austere che si ricollegassero ai caratteri artistici peculiari di quella che è stata una gloriosa terra di Roma”.
Se pochi dunque hanno saputo fare, in questo concorso di primo grado, un ragionevole uso di questa disciplinata libertà, è bene anche notare che i progetti di pura e scolastica riproduzione dei vecchi stili sono stati pochi, e che i migliori, pur con varia fortuna, secondo l’indole loro e dei tempi, gli esempi e gli ammaestramenti degli antichi, hanno invece inteso di svolgere francamente: che è stata sempre per gli architetti nostri, dal Brunellesco e dal Bramante al Palladio e al Bernini, la via maestra.
Dopo due giorni di attento esame dei novantadue progetti presentati, la Giuria si è limitata a considerarne specialmente ventidue, cioè, in ordine alfabetico, quelli Apolloni e Fontemaggi, Benigni e Leoni, Bibbiani e Oliva, Biscaccianti, Boattini e Pasquinelli, Buzzi, Cabiati, Ciucci e Putelli, Costa, Daneri, Del Giudice e Cadorin, Fasolo, Gallimberti e Miozzo, Italo Mancini, Montesi, Prati, Rigotti e Morbelli, Samonà, Sandri e Pilotti, Torres, Vaccaro e Cito, Zanchetta. Infine avendo all’unanimità giudicato che mancava “il progetto per le sue eccezionali qualità, meritevole senz’altro della scelta definitiva”, la Giuria ha, secondo l’art. 13 del bando, chiamato al concorso di secondo grado solo gli autori di cinque progetti, e precisamente, Tommaso Buzzi di Milano, Luigi Daneri di Genova, Brenno Del Giudice e Guido Cadorin di Venezia, Domenico Sandri di Roma e Vincenzo Pilotti di Pisa, Giuseppe Vaccaro e Emanuele Cito Filomarino di Roma.

* * *

Il progetto Apolloni e Fontemaggi, all’interno e all’esterno della chiesa, nel battistero, nel campanile, di uno schietto stile romanico-lombardo è tra i migliori studiati di questo concorso e rivela una profonda e meditata conoscenza di quell’architettura. Ma di essa i modelli più insigni sono troppo lontani da questa regione ligure posta sui confini della Toscana; e la derivazione da essi è troppo evidente, pedissequa, e così inadatta al luogo che le stesse sinuose scalee, per quanto ben pensate, riescono in contrasto con quelle sagome scarne e lineari.
La pianta del progetto Benigni e Leoni risponde egregiamente alle norme e ai bisogni elencati nel bando di concorso; e lodevoli per schietta semplicità sono la muraglia a tre archi a sostegno della prima branca della scalinata e i fianchi della cattedrale. Ma il pensiero di nascondere dietro una corona di colonne il tamburo della cupola, altissimo perchè dalla piazza in basso si possa vedere tutta la cupola, resta un ripiego senza intrinseco valore costruttivo; e nella facciata manca un nesso sicuro tra l’arcone dal grande e adorno catino e il pronao convesso.
Gli architetti Bibbiani e Oliva nel tracciato delle strade e delle scale d’accesso, e nel proposito di rendere visibile con l’alto timpano la facciata anche da lontano, mostrano di conoscere bene il luogo e d’essersi posti chiaramente i problemi, in questo primo concorso, più ardui. Ma il portale è sproporzionato al corpo della chiesa e, come il timpano, senza legame con esso; la decorazione, a quadri e tondi, della facciata della chiesa e della base del campanile, è frammentaria, la vetta del campanile mal connessa, l’interno senza corrispondenza con l’esterno, e le finestre tagliate nella grande volta della navata maggiore, curve e precipiti, di non bello effetto.
Il progetto Biscaccianti non riesce a fondere in unità gli evidenti ricordi, nella facciata, del Sant’Andrea di Vercelli, con le scalee di accesso e col muraglione a nicchie d’un tardo cinquecento. Aggiungasi che l’abside resta incassata nell’edificio, togliendo sincerità e imponenza alla forma posteriore della cattedrale, la quale, alzata come in cima ad un colle, deve da ogni lato rivelarsi nei suoi organi essenziali. Notevole nel progetto Boattini Pasquinelli la torre traforata a quattro piani, con un lontano ricordo di quella di Chiaravalle ma quasi levigata e arrotondata da un neoclassico di bell’ingegno. Gli autori così hanno risolto accuratamente il problema della visibilità della nuova fabbrica, ma la freddezza della facciata e dell’interno non è certo ravvivata dalle viete decorazioni, e il lungo monotono muro di sostegno, più che accogliere, sembra allontanare i fedeli.
Del progetto Cabiati è da lodare cordialmente l’interno maestoso e ben proporzionato, salvo che nelle finestre sul tamburo. La facciata però non risponde a quella grandiosità, rieccheggia fievolmente quella romana di S. Maria in via Lata, ed è schiacciata dalle due torri quadrate che le si innalzano sui fianchi e che nascondono la vista della cupola. La pianta è poco più che sommaria.
Nel progetto Ciucci e Putelli si vede il risoluto proposito del nuovo, con la facciata a profilo curvo, flesso come quello d’una rimessa da dirigibile, e così nuda che sembra tagliata d’un colpo dentro una fabbrica più lunga. Se l’esterno non convince perchè sagome siffatte male si trasferiscono dalla costruzione in ferro alle costruzioni in pietra e, sia pure in cemento, l’interno con la volta altissima che comincia a incurvarsi e a restringersi poco più su dell’altezza dell’uomo, dà un effetto di mistero veramente notevole, più teatrale però che religioso.
Da lodare è nel progetto Costa lo slancio delle tre profonde arcate sul secondo piano della facciata, e la volontà di creare con originalità un’architettura di gagliardo e festoso chiaroscuro. Il colonnato dell’atrio reso monotono anche per la vicinanza dei due colonnati degli inutili avancorpi, e le varie parti non si fondono in un aspetto equilibrato e memorabile. Così nell’interno male illuminato da piccole finestre le colonne non sembra che possano sostenere i larghi archi e l’ampia volta della navata. Opportuna è sembrata l’idea del Costa di spostare l’asse della chiesa, per farlo coincidere con l’asse della piazza sottostante.
L’architetto Fasolo presenta un progetto che, pur rivelando un impegno ansioso e desideroso di grandezza, non riesce a raggiungere e a placarsi in quell’unità la quale, specie nelle fabbriche religiose, deve essere la prima dote dell’architettura. Tanto nella parte anteriore, di accesso alla Cattedrale, quanto nella Cattedrale stessa i particolari riescono tutti a danno dell’insieme.
Il progetto Gallimberti Miozzo, nitido, calmo e logico, col suo atrio a cinque archi e le due torri ai lati del tiburio, nonostante la parte superiore un poco schiacciata, sarebbe pregevole se dovesse essere veduto da una piazza sullo stesso piano della Chiesa. Si aggiunga che l’interno, fatto di una grande navata tra due stretti corridoi, ha le pareti tagliate da finestrino altissimi i cui fianchi poggiano su pilastri nani, così da togliere almeno a questa parte della Chiesa fino al transetto e al presbiterio ogni carattere sacro.
Nella facciata del progetto presentato dall’arch. Italo Mancini abbondano i particolari pregevoli, ma sono mal coordinati intorno al pronao semicircolare e alla fronte terminata da un timpano spezzato. Più grandioso e più saldo si potrebbe dire l’interno, se nella pianta non si vedessero le navi laterali andare a urtare contro lo spigolo d’uno dei pilastri del transetto,
Proprio l’opposto è il progetto Montesi, per la compatta unità della concezione, a pianta centrale, sotto una bella cupola, nonostante i vuoti eccessivi dei grandi finestroni tagliati nel tamburo. Ma la pianta è insufficiente; l’interno sembra il vestibolo circolare d’un edificio profano; e le vie di accesso sono presentate in modo assai lontano da quello che richiedono di fatto la postura e le adiacenze della nuova chiesa.
Del progetto Prati, piacciono la mole imponente, e nella facciata, nonostante i due taglienti spigoli a sghembo, la parte centrale che serra in un solo ordine dentro quattro alte colonne scannellate la porta e il finestrone soprastante. Anche nell’interno, che è male illuminato, la volta della navata, a “solette” digradanti, raggiunge una robusta imponenza. Ma lo strano tiburio a padiglione non si adatta nè al luogo nè alla fabbrica.
Nel progetto Rigotti e Morbelli è da ammirare una gaia semplicità quasi di chiesa in piena campagna, dentro uno scenario di monti e di alberi; e, nell’esterno a fasce bianche e nere, il richiamo a molte delle chiese e pievi fra Genova e Pisa, ripetuto dal campanile tradizionale. Ma il nudo porticato anteriore, tagliato dalle due scale salienti verso l’ingresso e pensato con una povertà tra rustica e “razionale”, mal si confà alla facciata, al rosone centrale, al campanile e, sopratutto, all’interno che, sotto l’immenso soffitto piano, coi grandi archi tra i pilastri doppi, non risponde in alcuna parte all’esterno.
Il progetto Samonà con la squadrata grandiosità della mole ricorda, anche per la cupola schiacciata, la cubica solidità dei palazzi di stile mussulmano eretti a Palermo dai Re normanni. Ma il lodevole tentativo di ridurre ad uso moderno quella sobria architettura, non si addice alla regione e, particolarmente, al luogo dove sorgerà la nuova cattedrale.
Manca al progetto Torres, specie nella veduta dell’interno, il carattere sacro e cristiano necessario in un concorso come questo. Su una pianta molto bene meditata, esso presenta una facciata tutta a piani orizzontali, e il primo assai basso, proprio in contrasto con quella che dovrà essere su questa altura la fronte della nuova chiesa.
Coi due campanili in facciata e la cupola, sul tipo della S. Agnese romana al Foro Agonale, il progetto Zanchetta darebbe invece un bello slancio all’edificio; ma, nella pianta, dello spazio è perduto in angoli morti, e lo studio delle vie di accesso è trascurato.
I cinque progetti dei quali gli autori sono stati ammessi alla seconda gara, hanno due qualità comuni: la piena visibilità e maestà della cattedrale a dominio della veduta, dalla terra e dal mare; e la rispondenza della pianta, salvo facili modificazioni, alle norme liturgiche indicate dal bando del concorso.
La cupola del progetto Buzzi è nobile e grandiosa, nonostante le eccessive minuzie della lanterna, e già ben studiata nella sua costruzione, La facciata, visibilmente ispirata dalla chiesa abbaziale di S. Benedetto Po, piantata sopra una terrrazza il cui muro di sostegno è ben collegato di forme e di chiaroscuro alla facciata stessa, è lodevole per la chiarezza degli scomparti e per un alternarsi di pieni e di vuoti, forse anche troppo ricco, ma già concorde in una equilibrata unità, Non sono altrettanto da lodare due campanili laterali dalle altissime guglie che, divise in sei piani davanti alla solennità della cupola, hanno del gingillo. Anche potrà essere semplificato sul fianco e sul tergo il trito gioco delle cupole minori su cappelle che non sono tutte necessarie; e sopratutto dovrà essere semplificata la pianta ad ostensorio, di buono schema centrale, ma adesso inutilmente tagliuzzata, così che l’arco di accesso al presbiterio diventi più ampio, l’altare maggiore resti ben visibile dalla navata tra atrio e rotonda, e lo spazio libero pei fedeli risulti più vasto.
Il progetto Daneri è il più compiuto di tutti, dalla pianta centrale alla facciata e, in parte, anche agli accessi, pronto, si potrebbe dire, per l’esecuzione. Ma dalla Basilica di S. Pietro in Roma alla Basilica di Superga in Torino, poco o niente vi si trova che non sia un ricordo di monumenti gloriosi: cupola, tamburo, pronao, fianchi. Certo l’architetto Daneri ha scelto questi modelli con sapiente opportunità nel pieno cinquecento michelangiolesco e nelle propaggini che per più di due secoli se ne sono diffuse dovunque nel mondo cattolico, dandogli un’indelebile impronta romana; e, pur riducendo quegli schemi e modelli, egli ha saputo comporre con dottrina, con chiarezza e anche con buona abilità costruttiva un edificio che a non lodarlo s’offenderebbero maestri, per fortuna nostra, indiscussi e indiscutibili. Veda, nutrito di questi buoni esempi di andare per la sua via, come appunto andò, per dire di uno solo, Filippo Juvara quando, per costruire Superga, prese per esempio Michelangelo, ma restò Juvara.
Nel progetto Del Giudice Cadorin ci è piaciuto la castigata originalità della facciata ove intorno al grande arcone centrale, lontana eco del Sant’Andrea di Mantova, i piani lisci si succedono tra le lesene con nitido ritmo; e il campanile lo ripete in altezza, e le tre muraglie del basamento, in larghezza. Ma l’interno è una derivazione così passiva della Basilica di San Marco in Venezia che qui dobbiamo ripetere quello che sopra osservavamo pel progetto Daneri, con questo in più: che l’architettura nel senso più lato michelangiolesca ha trovato patria dovunque, ma quella di S. Marco, tratta fuori di Venezia e della sua storia, è illogica e spaesata. Di proporzione e distribuzione conveniente la pianta.
Dei due progetti presentati dagli architetti Sandri e Piloni s’è preferito quello contrassegnato col motto “Gesù” per la sua massiccia sobrietà. La torre quadrata che sorge su una fabbrica anch’essa quadrata, con netta potenza di linee, esce da un anello ad arcate che si ripete tra torre e guglia. Il battistero, tagliato nel pieno della terrazza sulla quale s’apre l’unica porta della chiesa, è anche di buona invenzione. I rudi e pittoreschi muraglioni di sostegno, ad archi dai fianchi speronati non sono però adatti a fare da sfondo a una piazza cittadina; e alla porta della chiesa bisogna poter giungere agevolmente in vettura. Più, insomma, che una cattedrale, questa maschia fabbrica ha l’aspetto d’un santuario isolato sulla vetta di un monte, S’aggiunga infine che alcuni particolari, come la lunetta sulla porta e le trifore gotiche sui fianchi e sull’abside, sono troppo fiaccamente trascritti da altri monumenti.
L’insieme del progetto Vaccaro e Filomarino si presenta grandioso, ben proporzionato, chiuso come un castello da quattro torrioni rotondi e accimato da una cupola che un poco tiene di quella del Battistero di Pisa. Anche la pianta è lodevole, salvo il presbiterio, che è troppo piccolo per una cattedrale. Ma a un più attento esame di queste varie parti, le torri, la facciata, il protiro, le fasce dei bassorilievi, le porte minori tagliate nei torrioni della fronte, le cupolette sui torrioni, ancora si conciliano male, quasi fossero sorte in epoche successive.
Per questi concorrenti designati alla seconda gara abbiamo dettato norme circa le vie d’accesso, la planimetria e la capacità del tempio che la Commissione Esecutrice ha accettato.

Nella piena fiducia di trovare nel prossimo autunno tra i cinque progetti presentati quello che potrà subito essere eseguito, vogliamo prima di separarci ripetere il nostro plauso a S. E, il Vescovo della Spezia, per essersi proposto un compito cosi degno della sua alta missione religiosa e della Patria ch’Egli e noi amiamo; e per avere con tanto ardore, con tanta dottrina, e con tanta esperienza dell’arte lavorato a condurlo in atto. Di averci chiamati a consigliarlo e ad aiutarlo nell’opera memorabile, qui cordialmente lo ringraziamo.
LA GIURIA ESAMINATRICE.

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