Mostra Romana del Concorso per il Faro alla
memoria di Cristoforo Colombo
I lettori dalla Rivista hanno replicatamente avuto notizia nelle “Pagine
Sindacali” del concorso internazionale bandito dalla “Panamerican
Union” pel Faro Colombiano nella Repubblica Domenicana. Conoscono
già quindi le norme poste dal bando steso dall’arch. Alberto
Kelsey, consigliere tecnico della Panamerican Union; hanno nozione del
luogo prescelto per la costruzione e dei requisiti richiesti per lo
svolgimento del tema; e sanno l’esito del giudizio dato dalla
Commissione esaminatrice eletta dai concorrenti, composta dagli arch.
ElieI Saarinen (Finlandia), Raymond Hood (New York City) e Horacio Acosta
y Lara (Montevideo-Uraguai). Abbiamo anche detto che solo per pochi
voti il Segretario Nazionale del nostro Sindacato, on. arch. Calza-Bini
non fu eletto a rappresentare l’Europa nel giudizio, e che una
maggior compattezza dei candidati Italiani nel voto sarebbe stato sufficiente
a conseguire un risultato assai desiderabile sotto molti punti di vista.
Può essere interessante sapere che i progetti presentati a Madrid
per il giudizio furono 456, svolti in 2400 tavole, appartenenti a 41
diverse nazioni di tutto il mondo.
Più numerosa fu la partecipazione di artisti degli Stati Uniti
d’America, dell’Italia, della Francia, della Germania e
della Russia.
La Giuria, giusta le condizioni espresse dal bando, assegnò dieci
primi premi ai concorrenti eletti a partecipare alla gara di secondo
grado, e dieci menzioni onorevoli.
I progetti presentati al concorso furono esposti al pubblico una prima
volta a Madrid subito dopo il giudizio, ed una seconda a Roma: atto
con cui la repubblica Domenicana volle rendere omaggio alla terra natale
del Grande Navigatore,
Sotto gli auspici del Sindacato Fascista degli Architetti e per opera
sopratutto del nostro Segretario Nazionale, la mostra dei progetti fu
celeremente e molto dignitosamente allestita nella sede del Palazzo
di Via Nazionale ove gran pubblico la visitò con naturale grandissimo
interesse.
Dopo abbondante selezione, i progetti esposti a Roma furono 271 con
461 tavole.
L’esito del concorso fu estremamente sintomatico ed istruttivo,
appunto perchè in senso assoluto non apportò parole molto
confortanti e definitive.
Chi ha visto in Roma l’enorme congerie dei progetti prima della
selezione operata per la mostra, è rimasto quasi sgomento nell’osservare
come molte delle idee architettoniche suscitate da un tema in fondo
semplice (la sistemazione di un terreno di 2000 ettari a campo d’aviazione
con in meno una altissima costruzione avente il solo scopo di ricettare
al sommo una o più sorgenti di luce, e capace di contenere alla
base un locale da sistemare a museo ed una cappella) fossero invece
assurde, insufficienti o artificiose.
Ben a ragione la selezione fu operata senza alcun preconcetto stilistico,
sulla gran quantità di opere assolutamente prive di genialità
e di gusto - si trattasse dei soliti pasticci composti coll’agglomeramento
delle più disparate e discordi reminiscenze di tutta l’architettura
mondiale, dalle sue origini fino ai nostri giorni; o dei paradossi risultanti
dalla retorica di un malinteso avvenirismo.
Furono invece mostrati i progetti recanti idee quanto possibile interessanti
ed equilibrate, senza pregiudizio di tendenze, sia quelli progredienti
con una certa fecondità da architettura di stile, o gli altri
liberamente emergenti dalle forme del recente costruttivismo; in omaggio
alla convinzione che le vie della bellezza non sono chiuse da formule,
ma aperte a tutte le fonti capaci di ispirare emozione sincera; e che
solo la capacità del canto indica la bontà dei mezzi usati,
conducendo inevitabilmente, al di fuori di ogni scuola o teoria, allo
sviluppo sano della forma.
Non partecipò alla gara nessuno degli artisti di grido, universalmente
apprezzati e già assurti ad indiscussa notorietà - il
valore istruttivo non è da ciò diminuito. - Il concorso
è limpido specchio delle condizioni attuali dell’architettura
mondiale, ed illumina la crisi di sviluppo in cui essa si dibatte.
Da un lato la produzione di reminiscenza che in pochi casi può
definirsi tradizionalismo, giacchè non s’appiglia con omogeneità
e per profondo bisogno del gusto ad un determinato periodo passato,
ancora vivo nello spirito, per dipartirsi da esso ed altro riviverne,
con forme nuove e rinnovato animo; ma soltanto eclettismo, giacchè
il riferimento può operarsi indifferentemente ai vari stili di
qualunque epoca e di sensibilità eterogenea e la similitudine
non è ottenuta per simpatia del cuore ma pel meccanismo della
memoria.
Dall’altro lato sta la produzione di coloro che vogliono sfuggire
al punto morto evitando riferimenti e ricercando emozioni tutte nuove
in seno alla vita moderna: di questi alcuni, più sani, han trovato
la via e procedono sicuramente (purtroppo nel concorso del Faro Colombiano
non ne abbiamo trovati molti): altri, che dei retori han perduto la
scorza ma non lo spirito, incapaci di trovare nuova forma nell’ambito
della loro materia, facendo cioè architettura, si perdono in
vieti simbolismi, ricorrendo a similitudini soltanto formali ed oggettive
con imagini letterarie; oppure si concedono al geometrismo di fabbriche
assolutamente frigide; o vanno farneticando iperboliche costruzioni
metafisiche irrealizzabili; od ancora, paghi di segnare linee e disporre
colori sul foglio di carta loro innanzi, tracciano cincischiature decorative
su forme insipide e nulle.
Nel nostro concorso abbiamo notato fra la produzione degli mnemonici,
simulacri di tombe egizie, gigantesche piramidi, templi indiani, cattedrali
gotiche, mausolei greci, palagi assiri, ecc.: i simbolisti ci han mostrato
caravelle a vele spiegate, alberi di nave policromi, stendardi luminosi,
mappamondi, croci, arcobaleni sostenenti spettri di navi, ecc.; i frigidi
meccanicisti eliche e spirali avvitichiantisi a enormi pali o coni o
iperboloidi in cemento armato, colossali armature per campanili, specie
di Torri Eiffel in ferro, ecc,; i metafisici ci han dato macchine paradossali,
semoventi, formate di sfere, ali, velari plasmati di indefinibile materia;
i cubisti ed i decoratori, parallelopipedi accatastati dipinti di sfarzosi
colori, sfilze di quadratini e di stecchi policromi stesi su banali
obelischi, ecc.
Fra tutta questa congerie di negatività gli elementi più
sani e fecondi, non molti e con maniere non omogenee, hanno avute delle
idee buone e degli spunti dotati di ampio respiro.
La graduatoria di merito stabilita dalla Giuria non è sembrata
felicissima: si può comprendere come ragioni d’indole diversa
e non sempre collimanti coll’arte, possano influenzare i pareri
in un concorso avente il carattere di grande competizione internazionale.
In media però il giudizio è sembrato equilibrato per quanto
riguarda le tendenze valutate.
I 10 progetti giudicati migliori e degni di partecipare al concorso
di secondo grado sono, distinti per nazioni: uno italiano (il giovane
arch. Pippo Medori coadiuvato dagli ingegneri Palleri e Vercelloni):
uno tedesco (Arch. Joseph Wentzler); uno inglese (Arch. I. L. Gleave);
uno spagnolo (Architetti Joaquin Vaquero, Louis Moya, Blanco); due francesi
(Architetti Berthin, Doyon e Nesteroff e Architetti Théo, Lescher,
Defontain, Gauthier); quattro nordamericani (Architetti Helmle, Curbet,
Harrison; Architetti Will, Rice, Amon; Architetti Donald Nelson, Edgard
Lynch; Architetti Douglas, Ellington).
Ci sembra che la Commissione avrebbe potuto scegliere, in seno al materiale
prodotto dalle singole nazioni, progetti migliori dei premiati e che
non tutte le nazioni siano state trattate alla stessa stregua e con
la stessa misura; l’Inghilterra e la Spagna ad esempio avrebbero
potuto essere escluse dalla maggior distinzione,
Il progetto di Pippo Medori, improntato ad un simbolismo peraltro reso
aderente alla materia, ha buone qualità di composizione e notevole
freschezza di ispirazione: il giovane collega deve essere in grado di
battersi bene alla competizione definitiva.
I 10 secondi premi furono dalla Giuria attribuiti, ad un progetto Italiano
(Architetti Enrico Miniati, Giovanni Masini ed Aurelio Letica); ad uno
cecoslovacco (Architetto Kamil Roskot) a due russi (Architetti Nicholas
Lanceray e Nicholas Vassiliev); a tre francesi (Architetto Roger Kohn,
Architetti M. Gogois e C. A, Dory e Architetti J. Szelechowsky e M.
Jannin) ed a tre Nord-Americani (Architetto John Thomas Grisdale, Architetti
N. Garfield e R. S. Brown, Arch. Norris I. Gramdall). Anche per parecchi
secondi premi resta un po’ oscuro il criterio di cernita. Il progetto
dei nostri Miniati e Masini è serio e corretto, assai pregevole
in qualche dettaglio, specialmente nella base - buono il francese di
Szelechowsky-Jannin. Non si comprende la scelta del cecoslovacco Roskot
fra le innumeri esibizioni costruttivistiche analoghe ed anche più
ispirate: fra i russi non premiati abbiamo visto parecchi più
geniali di coloro che ottennero il premio. Gli Stati Uniti ottennero
anche nei secondi premi messe abbondante.
Mentre i progetti premiati figurarono nella rotonda e nel Salone d’onore
del Palazzo di via Nazionale, molte altre sale terrene ospitarono gli
esclusi dal riconoscimento, divisi secondo le rispettive nazionalità.
L’Italia non sfigurò affatto: fantasia, colore e buon disegno
non ci fanno difetto, sebbene tali ottime qualità siano lungi
ancora dal contribuire al raggiungimento d’un carattere architettonico
a sè stante; il conflitto fra il vecchio ed il nuovo inasprito
da posizioni in parte soltanto formali, ci turba e disperde: ogni sforzo
è concentrato nella volontà di ricerca.
Buono e saldo il progetto Morozzo della Rocca -Vietti: piene di brio
e immaginazione le visioni architettoniche del Ferrati, di cui alcune,
se fossero state dotate di elementi più concreti di studio (mancavano
quasi del tutto gli sviluppi planimetrici) non avrebbero mancato d’essere
notate dai giudici. Degni d’attenzione i lavori di Caneva-Bordoni,
di Lombardi-Zanelli, ecc. Non mancavano contributi di architetti già
ben noti, come Romeo Moretti, Cirilli, ecc.
Nella sala francese è piaciuta la visione d’una caravella
natante nell’oceano, di Deveraux; soluzione fuori tema, ma realizzata,
nonostante il simbolismo formalistico, con aderenza alla materia architettonica
e con emozione: ed una torre luminosa in cemento armato e ferro di Hourlier,
piena di forza nella composizione, di gusto costruttivo modernissimo.
I tedeschi, privi qui dei loro caposcuola, presentarono una produzione
piuttosto uniforme, consona alle loro tendenze attuali; nessun volo
d’aquila, notevole quadratura ed anche troppa grevità.
Parecchi russi si mostrarono geniali ed anche troppo astratti: architettura
metafisica e magica che sa di clessidre, visioni spettrali ed altre
stregonerie: ci vuole molta acqua in quel vino, o meglio la tempra della
responsabilità del costruire: l’architettura non è
roba da meccanici ma neanche da sognatori strampalati, ed esige il saggio
della realtà.
Gli americani furono naturalmente i più numerosi: produzione
grigia: reminiscenze non completamente assimilate, tentativi del nuovo
non ancora indirizzati; peraltro conoscenza della costruzione, aderenza
al tema, bontà di soluzioni planimetriche del territorio e del
monumento.
E poi vedemmo i parti di tutti gli altri popoli della terra, dal Giappone
all’Olanda, dalla Finlandia al Messico ed all’Australia:
insalata di stili e mode; i danesi e gli olandesi con le loro creazioni
in cemento e ferro, o con certi blocchi cubisti riprodotti con carta
colorata, i sud-americani con dei pasticci dorati barocco-spagnoleschi
e con la loro roba coloniale, ecc.
A conclusione, si può ripetere che il concorso del Faro Colombiano
è riuscito estremamente interessante come saggio in grande stile
delle condizioni attuali dell’architettura mondiale. Appunto perchè
nessun gran nome vi ha partecipato, la rassegna ha dato la misura esatta
del carattere effettivo della produzione media nei vari paesi.
Se l’esito è stato incerto e piuttosto incolore, se le
tendenze manifestate sono state tanto disparate, se insomma non abbiamo
visto emergere in nessun paese nulla che possa ritenersi definitivo
e durevole e nessuna maniera dotata di una certa universalità
all’infuori del modo di far architettura che abbiamo chiamato
costruttivismo e che si potrebbe anche definire oggettivismo architettonico
più che razionalismo (la “sachlichkeit” dei tedeschi,
letteralmente cosalità), modo omogeneo in quanto fa per ora appunto
della ben formata costruzione piuttosto che dell’Arte con l’A
maiuscola; gli è che proprio cotesti elementi monchi e manchevoli
sono nella nostra vita e ne segnano l’attuale povertà:
ma peraltro indicano il tormento della ricerca, e sono forieri di sicuri
prossimi trovamenti di cui non intravvediamo ancora il valore definitivo
ma soltanto la direzione.
PLINIO MARCONI.