FASCICOLO II - OTTOBRE NOVEMBRE 1929
PLINIO MARCONI: Mostra Romana del Concorso per il Faro alla memoria di Cristoforo Colombo, con 62 illustrazioni

Mostra Romana del Concorso per il Faro alla memoria di Cristoforo Colombo

I lettori dalla Rivista hanno replicatamente avuto notizia nelle “Pagine Sindacali” del concorso internazionale bandito dalla “Panamerican Union” pel Faro Colombiano nella Repubblica Domenicana. Conoscono già quindi le norme poste dal bando steso dall’arch. Alberto Kelsey, consigliere tecnico della Panamerican Union; hanno nozione del luogo prescelto per la costruzione e dei requisiti richiesti per lo svolgimento del tema; e sanno l’esito del giudizio dato dalla Commissione esaminatrice eletta dai concorrenti, composta dagli arch. ElieI Saarinen (Finlandia), Raymond Hood (New York City) e Horacio Acosta y Lara (Montevideo-Uraguai). Abbiamo anche detto che solo per pochi voti il Segretario Nazionale del nostro Sindacato, on. arch. Calza-Bini non fu eletto a rappresentare l’Europa nel giudizio, e che una maggior compattezza dei candidati Italiani nel voto sarebbe stato sufficiente a conseguire un risultato assai desiderabile sotto molti punti di vista. Può essere interessante sapere che i progetti presentati a Madrid per il giudizio furono 456, svolti in 2400 tavole, appartenenti a 41 diverse nazioni di tutto il mondo.
Più numerosa fu la partecipazione di artisti degli Stati Uniti d’America, dell’Italia, della Francia, della Germania e della Russia.
La Giuria, giusta le condizioni espresse dal bando, assegnò dieci primi premi ai concorrenti eletti a partecipare alla gara di secondo grado, e dieci menzioni onorevoli.
I progetti presentati al concorso furono esposti al pubblico una prima volta a Madrid subito dopo il giudizio, ed una seconda a Roma: atto con cui la repubblica Domenicana volle rendere omaggio alla terra natale del Grande Navigatore,
Sotto gli auspici del Sindacato Fascista degli Architetti e per opera sopratutto del nostro Segretario Nazionale, la mostra dei progetti fu celeremente e molto dignitosamente allestita nella sede del Palazzo di Via Nazionale ove gran pubblico la visitò con naturale grandissimo interesse.
Dopo abbondante selezione, i progetti esposti a Roma furono 271 con 461 tavole.

L’esito del concorso fu estremamente sintomatico ed istruttivo, appunto perchè in senso assoluto non apportò parole molto confortanti e definitive.
Chi ha visto in Roma l’enorme congerie dei progetti prima della selezione operata per la mostra, è rimasto quasi sgomento nell’osservare come molte delle idee architettoniche suscitate da un tema in fondo semplice (la sistemazione di un terreno di 2000 ettari a campo d’aviazione con in meno una altissima costruzione avente il solo scopo di ricettare al sommo una o più sorgenti di luce, e capace di contenere alla base un locale da sistemare a museo ed una cappella) fossero invece assurde, insufficienti o artificiose.
Ben a ragione la selezione fu operata senza alcun preconcetto stilistico, sulla gran quantità di opere assolutamente prive di genialità e di gusto - si trattasse dei soliti pasticci composti coll’agglomeramento delle più disparate e discordi reminiscenze di tutta l’architettura mondiale, dalle sue origini fino ai nostri giorni; o dei paradossi risultanti dalla retorica di un malinteso avvenirismo.
Furono invece mostrati i progetti recanti idee quanto possibile interessanti ed equilibrate, senza pregiudizio di tendenze, sia quelli progredienti con una certa fecondità da architettura di stile, o gli altri liberamente emergenti dalle forme del recente costruttivismo; in omaggio alla convinzione che le vie della bellezza non sono chiuse da formule, ma aperte a tutte le fonti capaci di ispirare emozione sincera; e che solo la capacità del canto indica la bontà dei mezzi usati, conducendo inevitabilmente, al di fuori di ogni scuola o teoria, allo sviluppo sano della forma.
Non partecipò alla gara nessuno degli artisti di grido, universalmente apprezzati e già assurti ad indiscussa notorietà - il valore istruttivo non è da ciò diminuito. - Il concorso è limpido specchio delle condizioni attuali dell’architettura mondiale, ed illumina la crisi di sviluppo in cui essa si dibatte.
Da un lato la produzione di reminiscenza che in pochi casi può definirsi tradizionalismo, giacchè non s’appiglia con omogeneità e per profondo bisogno del gusto ad un determinato periodo passato, ancora vivo nello spirito, per dipartirsi da esso ed altro riviverne, con forme nuove e rinnovato animo; ma soltanto eclettismo, giacchè il riferimento può operarsi indifferentemente ai vari stili di qualunque epoca e di sensibilità eterogenea e la similitudine non è ottenuta per simpatia del cuore ma pel meccanismo della memoria.
Dall’altro lato sta la produzione di coloro che vogliono sfuggire al punto morto evitando riferimenti e ricercando emozioni tutte nuove in seno alla vita moderna: di questi alcuni, più sani, han trovato la via e procedono sicuramente (purtroppo nel concorso del Faro Colombiano non ne abbiamo trovati molti): altri, che dei retori han perduto la scorza ma non lo spirito, incapaci di trovare nuova forma nell’ambito della loro materia, facendo cioè architettura, si perdono in vieti simbolismi, ricorrendo a similitudini soltanto formali ed oggettive con imagini letterarie; oppure si concedono al geometrismo di fabbriche assolutamente frigide; o vanno farneticando iperboliche costruzioni metafisiche irrealizzabili; od ancora, paghi di segnare linee e disporre colori sul foglio di carta loro innanzi, tracciano cincischiature decorative su forme insipide e nulle.
Nel nostro concorso abbiamo notato fra la produzione degli mnemonici, simulacri di tombe egizie, gigantesche piramidi, templi indiani, cattedrali gotiche, mausolei greci, palagi assiri, ecc.: i simbolisti ci han mostrato caravelle a vele spiegate, alberi di nave policromi, stendardi luminosi, mappamondi, croci, arcobaleni sostenenti spettri di navi, ecc.; i frigidi meccanicisti eliche e spirali avvitichiantisi a enormi pali o coni o iperboloidi in cemento armato, colossali armature per campanili, specie di Torri Eiffel in ferro, ecc,; i metafisici ci han dato macchine paradossali, semoventi, formate di sfere, ali, velari plasmati di indefinibile materia; i cubisti ed i decoratori, parallelopipedi accatastati dipinti di sfarzosi colori, sfilze di quadratini e di stecchi policromi stesi su banali obelischi, ecc.
Fra tutta questa congerie di negatività gli elementi più sani e fecondi, non molti e con maniere non omogenee, hanno avute delle idee buone e degli spunti dotati di ampio respiro.

La graduatoria di merito stabilita dalla Giuria non è sembrata felicissima: si può comprendere come ragioni d’indole diversa e non sempre collimanti coll’arte, possano influenzare i pareri in un concorso avente il carattere di grande competizione internazionale. In media però il giudizio è sembrato equilibrato per quanto riguarda le tendenze valutate.
I 10 progetti giudicati migliori e degni di partecipare al concorso di secondo grado sono, distinti per nazioni: uno italiano (il giovane arch. Pippo Medori coadiuvato dagli ingegneri Palleri e Vercelloni): uno tedesco (Arch. Joseph Wentzler); uno inglese (Arch. I. L. Gleave); uno spagnolo (Architetti Joaquin Vaquero, Louis Moya, Blanco); due francesi (Architetti Berthin, Doyon e Nesteroff e Architetti Théo, Lescher, Defontain, Gauthier); quattro nordamericani (Architetti Helmle, Curbet, Harrison; Architetti Will, Rice, Amon; Architetti Donald Nelson, Edgard Lynch; Architetti Douglas, Ellington).
Ci sembra che la Commissione avrebbe potuto scegliere, in seno al materiale prodotto dalle singole nazioni, progetti migliori dei premiati e che non tutte le nazioni siano state trattate alla stessa stregua e con la stessa misura; l’Inghilterra e la Spagna ad esempio avrebbero potuto essere escluse dalla maggior distinzione,
Il progetto di Pippo Medori, improntato ad un simbolismo peraltro reso aderente alla materia, ha buone qualità di composizione e notevole freschezza di ispirazione: il giovane collega deve essere in grado di battersi bene alla competizione definitiva.
I 10 secondi premi furono dalla Giuria attribuiti, ad un progetto Italiano (Architetti Enrico Miniati, Giovanni Masini ed Aurelio Letica); ad uno cecoslovacco (Architetto Kamil Roskot) a due russi (Architetti Nicholas Lanceray e Nicholas Vassiliev); a tre francesi (Architetto Roger Kohn, Architetti M. Gogois e C. A, Dory e Architetti J. Szelechowsky e M. Jannin) ed a tre Nord-Americani (Architetto John Thomas Grisdale, Architetti N. Garfield e R. S. Brown, Arch. Norris I. Gramdall). Anche per parecchi secondi premi resta un po’ oscuro il criterio di cernita. Il progetto dei nostri Miniati e Masini è serio e corretto, assai pregevole in qualche dettaglio, specialmente nella base - buono il francese di Szelechowsky-Jannin. Non si comprende la scelta del cecoslovacco Roskot fra le innumeri esibizioni costruttivistiche analoghe ed anche più ispirate: fra i russi non premiati abbiamo visto parecchi più geniali di coloro che ottennero il premio. Gli Stati Uniti ottennero anche nei secondi premi messe abbondante.
Mentre i progetti premiati figurarono nella rotonda e nel Salone d’onore del Palazzo di via Nazionale, molte altre sale terrene ospitarono gli esclusi dal riconoscimento, divisi secondo le rispettive nazionalità.
L’Italia non sfigurò affatto: fantasia, colore e buon disegno non ci fanno difetto, sebbene tali ottime qualità siano lungi ancora dal contribuire al raggiungimento d’un carattere architettonico a sè stante; il conflitto fra il vecchio ed il nuovo inasprito da posizioni in parte soltanto formali, ci turba e disperde: ogni sforzo è concentrato nella volontà di ricerca.
Buono e saldo il progetto Morozzo della Rocca -Vietti: piene di brio e immaginazione le visioni architettoniche del Ferrati, di cui alcune, se fossero state dotate di elementi più concreti di studio (mancavano quasi del tutto gli sviluppi planimetrici) non avrebbero mancato d’essere notate dai giudici. Degni d’attenzione i lavori di Caneva-Bordoni, di Lombardi-Zanelli, ecc. Non mancavano contributi di architetti già ben noti, come Romeo Moretti, Cirilli, ecc.
Nella sala francese è piaciuta la visione d’una caravella natante nell’oceano, di Deveraux; soluzione fuori tema, ma realizzata, nonostante il simbolismo formalistico, con aderenza alla materia architettonica e con emozione: ed una torre luminosa in cemento armato e ferro di Hourlier, piena di forza nella composizione, di gusto costruttivo modernissimo.
I tedeschi, privi qui dei loro caposcuola, presentarono una produzione piuttosto uniforme, consona alle loro tendenze attuali; nessun volo d’aquila, notevole quadratura ed anche troppa grevità.
Parecchi russi si mostrarono geniali ed anche troppo astratti: architettura metafisica e magica che sa di clessidre, visioni spettrali ed altre stregonerie: ci vuole molta acqua in quel vino, o meglio la tempra della responsabilità del costruire: l’architettura non è roba da meccanici ma neanche da sognatori strampalati, ed esige il saggio della realtà.
Gli americani furono naturalmente i più numerosi: produzione grigia: reminiscenze non completamente assimilate, tentativi del nuovo non ancora indirizzati; peraltro conoscenza della costruzione, aderenza al tema, bontà di soluzioni planimetriche del territorio e del monumento.
E poi vedemmo i parti di tutti gli altri popoli della terra, dal Giappone all’Olanda, dalla Finlandia al Messico ed all’Australia: insalata di stili e mode; i danesi e gli olandesi con le loro creazioni in cemento e ferro, o con certi blocchi cubisti riprodotti con carta colorata, i sud-americani con dei pasticci dorati barocco-spagnoleschi e con la loro roba coloniale, ecc.


A conclusione, si può ripetere che il concorso del Faro Colombiano è riuscito estremamente interessante come saggio in grande stile delle condizioni attuali dell’architettura mondiale. Appunto perchè nessun gran nome vi ha partecipato, la rassegna ha dato la misura esatta del carattere effettivo della produzione media nei vari paesi.
Se l’esito è stato incerto e piuttosto incolore, se le tendenze manifestate sono state tanto disparate, se insomma non abbiamo visto emergere in nessun paese nulla che possa ritenersi definitivo e durevole e nessuna maniera dotata di una certa universalità all’infuori del modo di far architettura che abbiamo chiamato costruttivismo e che si potrebbe anche definire oggettivismo architettonico più che razionalismo (la “sachlichkeit” dei tedeschi, letteralmente cosalità), modo omogeneo in quanto fa per ora appunto della ben formata costruzione piuttosto che dell’Arte con l’A maiuscola; gli è che proprio cotesti elementi monchi e manchevoli sono nella nostra vita e ne segnano l’attuale povertà: ma peraltro indicano il tormento della ricerca, e sono forieri di sicuri prossimi trovamenti di cui non intravvediamo ancora il valore definitivo ma soltanto la direzione.

PLINIO MARCONI.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna all'articolo