PRIMA INTERNAZIONALE ARCHITETTONICA
Parlare ancora di razionalità, di rispondenza dell’esterno
con l’interno, di schematismo nudo e sincero, di ribellione alla
copia o d’imitazione degli stili del passato, sarebbe tornare
ancora una millesima volta a ripetere quello che stiamo tutti dicendo
da trenta anni.
Siamo d’accordo: l’architettura greca fu espressione nitida
e sapientissima della struttura trilitica: l’architettura gotica
dell’Europa centrale portò fino al limite l’equilibrio
matematico delle forze; che queste due architetture rappresentano, in
espressioni diverse, la purezza, la sincerità costruttiva, la
razionalità. Ma dobbiamo pur essere d’accordo - se non
lo siamo, è inutile andare avanti, io a scrivere, voi a leggere
- che i grandi monumenti romani e tutta l’architettura della Rinascenza
rappresentano pure due epoche di splendore architettonico, e non furono
razionali, tutt’altro che razionali, decorative, formali, belle
perchè belle. Pezzi di architetture scavate, rubate o prese in
prestito quà e là, e ricomposte e rianimate.
Anzi, a voler essere pignoli, potremmo dire che tutte le grandi architetture
italiane sono state sempre soltanto formali. Aggiungo a quelle due,
molta, quasi tutta la nostra architettura romanica, e quella nostra
gotica. O incanto e seduzioni di Venezia, trine di marmi bianchi e rosa,
intessute da mani magiche, e da cuori ripieni di gioia; canti armoniosi
che cantano la Bellezza, come la cosa più santa della vita!
Quali edifici più sfacciatamente irrazionali delle cattedrali
di Pistoia e di Pisa, di S. Maria in Gradi in Arezzo (con il gran facciatone
rettangolare inchiodato avanti alle basse navate), delle facciate delle
chiese abruzzesi, e delle cattedrali di Orvieto e di Siena?
Queste due meravigliose pagine sono lì incollate come due luminose
etichette: stendardi fiammeggianti, icone fosforescenti che eccitano
il popolo ad osannare alla gloria di Dio. Qui la materia perde ogni
consistenza fisica, dominata, dissolta, polverizzata dal puro spirito,
che fa trillare i mille marmi colorati, baciati dal sole in un inno
divino di gioia e di fede.
E tutto il seicento, non è tutta una continuata, spudorata bugia?
Dunque noi, di faccia al mondo, noi italiani, per antonomasia i maestri
d’arte di tutti i secoli, siamo invece i vessilliferi della finzione
elevata a sistema? Ma non è sempre l’arte una finzione?
I mezzi che adoperiamo per esprimere le grandi idee, le grandi emozioni,
sono sempre convenzioni, quindi finzioni. Perchè, insomma, voler
far consistere tutta l’essenza dell’architettura nella sola
razionalità? Perchè debbono a forza equivalersi i due
termini: architettura e razionalità? Ma neppure nelle macchine
che servono all’uomo avviene questa identificazione: oggi la carrozzeria
dell’automobile tende alla forma spyder, certamente la più
bella, quella che più si distacca dal tipo della vecchia carrozza
a cavalli, ma pure così poco razionale, così capricciosa,
così inventata! Insomma l’identificazione del bello con
lo strutturale non esiste. Lasciamo queste speculazioni aride e metafisiche
agli uomini del Nord; sotto il nostro sole non ha mai attecchito il
puritanesimo, nè il protestantesimo. Noi abbiamo bisogno del
gesto e della forma; della parola commossa e del sorriso. Noi siamo
essenzialmente musicali; l’arte per noi è sempre un canto.
D’altronde, dov’è che ha inizio e dove ha limiti
la pura strutturalità, il vero architettonico? Forse un’opera
di pura ingegneria, un viadotto, un silos può essere concepito
e costruito matematicamente, ma nella quasi totalità dei soggetti,
anche dei più industriali, anche quando non l’architetto,
ma l’ingegnere crede di progettare esclusivamente in base al calcolo,
quando insomma crede di essere un puro razionalista, sempre un fatto
spirituale interviene, una concessione inconscia, sia pure alla convenzione,
alla abitudine, c'è.
Entriamo in una chiesa, in quella costruita da Augusto Perret a Rancy
presso Parigi: cemento armato in vista, nudissimo, neppure ricoperto
da un velo di calce: non una cornice, non una decorazione. Il cemento
è cemento, il vetro è vetro, il marmo del pavimento è
marmo. Benissimo. Ma perchè quell’altezza? La chiesa avrebbe
la stessa capienza se fosse alta soltanto 3 metri, quanto è necessario
cioè perchè gli uomini vi possano circolare in piedi e
poco più; di cubicità d’aria, con quelle pareti
tutte traforate all’intorno verso l’esterno, ce ne sarebbe
a sufficienza.
Quell’altezza dunque, eccedente la necessità, è
irrazionale, è già una concessione allo spirito. E perchè
allora, questa concessione di spazio sì, e concedere qualche
cosa all’abbellimento, sia pure nuovissimo e inventato, no?
E ancora: perchè ridurre gli sforzi e la potenzialità
dei materiali alle loro funzioni più semplici, più elementari,
più facili? Pilastri di cemento armato, rari, distanti; travi
orizzontali, diritti e basta. Ma col cemento armato si può fare
quello che si vuole! È la materia più duttile che un architetto
possa avere fra le mani! O perchè non approfittarne per levarsi
tutti i capricci dalla testa? Perchè questa musoneria, questa
rinuncia, questo francescanesimo architettonico? Con pane e acqua soltanto
si può vivere: con quattro pali diritti e quattro traversoni
colchi si può costruire! O bella fantasia plastica di Arnolfo,
o smagliante musicalità di Maitani, o purissima e forbitissima
anima di Baldassarre Peruzzi, che cosa ne dite? Foste voi a sottomettervi
alla materia, o non voleste che la materia si piegasse a Voi?
Questa prima internazionale architettonica è pur tuttavia un
movimento che ha basi serie e della massima importanza. L’errore
dei nostri giovani sta nel vedervi soltanto un nuovo indirizzo puramente
architettonico, nel credere all’avvento di nuovo stile, di una
nuova forma d’arte, e, da buoni italiani in questo, la prendono
per quello che apparisce, e non per quello che è: la prendono
per una liberazione definitiva e consolatrice, per un nuovo verbo. Ne
hanno quindi assorbito forme per noi assurde: le pareti continue tutte
di vetro, che sotto il nostro sole centuplicherebbero i casi di congestione
cerebrale; le finestre larghe, buone per diffondere uniformemente negli
ambienti la scarsa luce del nord, anzichè alte, come noi abbiamo
sempre usato per dar aria pure alle zone superiori degli ambienti dove
si ammassa e si ferma l’aria viziata. Niente persiane (addio dolce
sollievo di frescura nei cocenti pomeriggi estivi): niente cornicioni
o cornici protettrici delle facciate, e degli infissi delle finestre:
l’acqua entrerà dalle piattabande e dalle soglie, cancellerà
tinte e sgretolerà in pochi mesi intonaci e paramenti. Niente
tetti: gli ultimi piani dovranno sopportare il caldo e il freddo in
omaggio al razionalismo trionfante (non mi parlate di intercapedini
e di camere d’aria, che da vent’anni non ci credo più).
Queste sono le nuove droghe internazionali dell’architettura,
che da noi si prendono così come sono, e ci si condisce ogni
pietanza: dalla chiesa alla scuola, dal mercato al palazzo.
Non mi meraviglierei che domani si ordinasse ad un architetto un edificio
in stile razionale, così come lo si potrebbe ordinare in stile
rinascenza o gotico.
Bisogna invece studiare il vero fattore fondamentale di questa nuova
architettura: e questo è il fattore economico, anzi l’economico-sociale.
Come il grattacielo americano ha avuto origine per il fortissimo costo
delle aree dei centri di New-York e di Chicago, costo che ha obbligato
a costruire il maggior numero possibile di metri cubi sopra un metro
quadrato d’area che valeva quanto un milione di lire italiane,
così oggi, per l’accrescimento spaventoso della popolazione
nelle città e la sempre crescente difficoltà economica
della vita, siamo obbligati a trovare sistemi di abitazioni pratici,
a bassissimo prezzo: quindi a serie, quindi spogli di ogni cosa inutile;
sistemi industriali.
L’origine economica s’è poi via via, se non sperduta,
almeno in parte dimenticata, e quella che costituiva una ragione di
economia ragionevole, è ora divenuta teoria, smania, vizio: oggi
si batte il record del minimo spazio, dei minimi movimenti e dei minimi
mezzi nella vita di famiglia. I letti alla mattina si ripiegano in su,
e spariscono nelle pareti: sopra il lavandino, dopo che ha servito alle
pulizie si abbassa - come nei wagons-lits - una tavoletta e li sopra
si scrive, si legge, si mangia. È lo sforzo che diviene accademico
per raggiungere il puro necessario con i minimi spazi. Pane e acqua.
Non v’ha dubbio: gli acrobatismi statici delle cattedrali gotiche
erano ben più geniali!
Ragioni economiche dunque: ma quando queste non esistono, o per lo
meno non esistono con così ferrea intransigenza, perchè
ascoltarle?
Si sostituisca questa nuova visione architettonica ai presepi delle
città-giardino operaie, ai giocattoli scomposti e presuntuosi
dei mille quartieri della piccola borghesia. Saranno queste le forme
elementari dell’architettura, il nuovo abecedario delle future
metropoli, e tanta nudità e tanto lindore saranno perfettamente
al loro posto in mezzo ai giardini e ai viali alberati di fuori città.
Ma quando cominciamo a salire qualche gradino nella scala dei quesiti
architettonici, quando cominciamo ad affacciarci ai problemi estetici,
allora questa rinunzia, là ragionevole, diviene aridità,
insufficienza, assurdità.
Quando insomma entriamo - e nelle nostre belle città italiane
questi casi sono novantanove su cento - nell’ambientismo; allora
entra in ballo il passato, la stirpe, e quindi la responsabilità.
E qui non potranno più essere sole valide le ragioni della stretta
economia e del tornaconto spaziale. Qui dovremo tener conto di quello
che esiste, e si dovrà immaginar alto o basso, ricco o moderato,
a forte chiaroscuro o piatto, in armoniche consonanze d’ambiente.
Non dico che ci debbano essere due architetture, una popolare e una
aristocratica, una in mutande e una in frack.
Ma la stessa architettura sarà più o meno splendida -
ornata, composita, creata con fantasia - a seconda degli argomenti e
dei luoghi.
Roma imperiale aveva, nei suoi Fori, templi corinzi di marmo e basiliche
di travertino: i due milioni di popolo abitavano in case semplici, modeste,
come quelle che si son trovate a Ostia, anonime, razionalissime.
È questione, dunque, di proporzione e di criterio.
Ultimo argomento: la decorazione. Non prenderla dagli altri stili:
benissimo; ma questo non deve significare rinunciarvi. Perchè,
nel vostro abito razionalissimo, non rinunciate alla cravatta, al fazzoletto
di colore nel taschino della giacca?
Occorre, si dice, trovar prima il nuovo schema architettonico, il nuovo
ordine del cemento armato, e poi si penserà alla decorazione,
che non può essere se non un sottolineamento delle strutture.
Tutto ciò non è esatto.
Non è il cemento armato l’unico materiale che oggi usiamo,
anzi non è neppure il più frequente. Caratteristica della
nostra epoca edilizia, a differenza delle altre, è appunto la
pluralità dei materiali che abbiamo a disposizione.
Gli egiziani avevano i graniti, i greci i marmi, i romani i calcestruzzi
per le immense volte, i mattoni e i grandi mezzi d’opera; i romanici
mattoni, piccole pietre e modeste attrezzature; i gotici ancora marmi,
e gli italiani della rinascenza ancora mattoni e pietre.
Questi materiali o mezzi dominanti generavano l’architettura.
E poi ancora i temi: gli egiziani e i greci avevano i templi, i romani
i templi, le basiliche e le terme, i romanici e i gotici cattedrali
e dimore signorili: il resto era abitazione di popolo.
Noi invece abbiamo, per i materiali, e i marmi e il travertino e le
altre pietre, e i calcestruzzi, e i mattoni e tutti i nuovi mezzi d’opera.
E abbiamo, come temi, e templi, e terme, e cattedrali, e palazzi, e
banche, e istituti, e teatri, e alberghi, e mille e mille altri e tutti
i temi di tutte le epoche.
Perchè dunque, per un palazzo di una banca, che vuole essere
signorile, io dovrei rinunciare al travertino dorato, ai marmi apuani,
e costruirla, anche apparentemente, con il sordo e malinconico cemento
armato?
Pluralità dei materiali, infinita varietà dei temi non
ammettono ancora un nuovo ordine architettonico.
Se debbo costruire in una via del centro di Roma un palazzo a quattro
piani, con finestre proporzionate alle stanze che debbono illuminare,
non posso immaginare una facciata tutta di vetro e cemento armato. E
allora?
Nei gradi maggiori dell’architettura potremo trovare la gioia
dell’ornato e la intensificazione della espressione significativa
nell’applicazione delle arti figurative. La scultura e la pittura,
la pittura murale, debbono tornare a compiere le loro funzioni espressivo-decorative.
Quando i pittori avranno finalmente compreso - mi sembra che siamo sulla
buona via - che è vano tormentarsi nel cerebralismo delle esposizioni
periodiche, fini a sè stesse e non altro, e torneranno a concepire
una tempera, un affresco per quel tal posto, con quel soggetto, con
quella luce, con quella volontà dell’architetto, con quei
mezzi, con quel tempo a disposizione, si potrà allora ornare
- nel senso più alto dell’espressione - un edificio, e
renderlo bello, e leggiadro o drammatico, austero o festoso.
Quando i pittori, abbandonate le vuote e sterili accademie, torneranno
nella vita, e si dedicheranno ai mosaici, alle vetrate, agli arazzi,
agli intarsi, risorgerà l’architettura, complessa nell’accoglimento
di tutte le arti minori, significative ed emotive.
E sarà qui, in questo rivivere delle nostre grandi arti decorative
che ritroveremo finalmente - pur nelle correnti modernissime - la nostra
anima oggi ancora sperduta, e allora ci accorgeremo come certi esperimenti
puramente tecnici (come fu per l’architettura del ferro con la
Torre Eiffel, i ponti sulla Senna e il celebre palazzo delle macchine
a Parigi che doveva anche allora rivoluzionare l’architettura,
e come oggi agli albori dell’architettura del cemento armato)
non sono l’architettura. L’architettura è arte, quindi
opera dello spirito.
Chiudo permettendomi di dare ai giovani razionalisti un suggerimento.
Un altr’anno tentino ancora una nuova mostra, ma con temi obbligati,
con ubicazioni ben precisate. Potranno dimostrare che cosa pensano di
fare, per creare una vera architettura nuova e italiana, dimenticando
di volersi accodare a tutti i costi alla corrente internazionale.
Questo, sì, sarà infinitamente interessante e consolante.
MARCELLO PIACENTINI