CORRIERE ARCHITETTONICO
IL “SUPERCINEMA’’ IN ROMA
Arch.ARNALDO FOSCHINI, Arch.ATTILIO SPACCARELLI, Ing. GIACOMO GIOBBE
Quest’opera che offriamo ai lettori della Rivista è importante
sotto vari aspetti: per l’interessante problema distributivo-costruttivo
ch’essa svolge e supera, pel senso decorativo che l’ispira,
e per i mutui rapporti esistenti fra codesti due lati della sua unità,
involgenti una tesi architettonica molto interessante in questo momento
di transizione e di sviluppo formativo dell’arte nostra.
Il tema distributivo offerto ai progettisti era tutt’altro che
facile: occupare con la costruzione tre aree di forma complessa, con
particolarissimi legami planimetrici, a ciascuna delle quali era relativo
un limite d’altezza massima diverso, in dipendenza dei vincoli
imposti dai fabbricati preesistenti.
La prima area, ov’era consentito uno sviluppo in altezza di appena
m. 4.50 era quella occupata da alcuni locali terreni del Palazzo Rattazzi
(situato all’incrocio fra via Depretis e via Viminale). Essendo
stato disposto l’ingresso del Cinema nel luogo più decoroso
della zona, e cioè in corrispondenza della fiancata d’angolo
di detto Palazzo, tale area doveva forzatamente ospitare gli ambienti
d’accesso, con biglietteria e servizi vari; a ciò si addiceva
anche la scarsa altezza.
La seconda area, ove poteva ottenersi una elevazione massima di m. 7.50,
era costituita dal cortile del Palazzo Rattazzi. Molto opportunamente
ivi furono ubicati la sala d’aspetto principale ed ambienti analoghi
di sosta e disimpegno. Nella terza area, la più vasta, ove era
possibile un’altezza di m. 17.50, fu costruita la sala di proiezione,
con gli ambienti di uscita e servizi relativi.
L’asse principale della sala di proiezione è disposto
normalmente alla via Napoli, col quadro addossato al muro cieco terminale
del fabbricato di via Depretis.
Tale soluzione che appare, del resto soltanto sulla carta, un po’
forzata, fu dovuta adottare per utilizzare nel modo migliore i dislivelli
naturali del terreno e per ottenere il massimo rendimento dall’area.
La cubatura totale di tutti i vani costituenti il “Supercinema”
è di mc. 23.500 mentre quella della sala di proiezione è
di mc. 20.500. Questa è costituita di platea, anfiteatro e due
gallerie laterali: dimensioni massime m. 40 x 29. Altezza m. 17.50.
Ha la capacità di 2405 posti a sedere.
Il pavimento della platea ha pendenza variabile, con profilo concavo
verso l’alto, a tre livellette diverse. Tale profilo e tutti gli
altri criteri distributivi dei posti a sedere furono desunti da uno
studio accurato, per il quale fu potuta assicurare una buona visibilità
dello schermo anche dai punti più sfavorevoli. Davanti allo schermo
si sviluppa un piccolo palcoscenico. Sotto e avanti a questo è
l’orchestra incassata rispetto il piano della sala e poggiata
su un piano di risonanza. La cabina di proiezione è installata
all’estremità opposta, in un ampio locale a livello della
platea, prospiciente direttamente su via Napoli e completamente isolato
dalla sala. Su detta via sboccano anche tutte le uscite.
Il problema tecnico principale offertosi ai progettisti fu la scelta
del sistema costruttivo in dipendenza di esigenze inderogabili, come
ad esempio: la riduzione di sezione al minimo delle membrature di piedritto
e conseguenti grandi portate intermedie: la richiesta rapidità
di costruzione: la necessità di realizzare una struttura rigidamente
collegata, in vista degli ingenti carichi e delle derivanti sollecitanti
statiche ed eventualmente dinamiche: la sicurezza contro gli incendi,
ecc.
L’adozione del cemento armato si imponeva, ed in guisa tale da
dover sfruttare nel modo più integrale e per conseguenza appariscente
i peculiari requisiti costruttivi del materiale, i quali, pertanto non
potevano non influire profondamente sulle direttive architettoniche
fondamentali dell’opera.
L’ossatura della sala di proiezione consta essenzialmente di due
telai verticali in cemento armato, eguali, paralleli all’asse
trasversale della sala, distanti tra loro m. 16.60. Ogni telaio è
costituito da un arcone della luce di m. 18, impostato su due piedritti,
ciascuno dei quali è formato da due pilastri collegati da banchine
e diagonali, in modo da formare un rigido sistema a traliccio, che riporta
la spinta dell’arco alla comune piastra di fondazione.
Le coppie affacciate di pilastri dei due telai sono collegate da tre
ordini di travoni che sorreggono i solai delle gallerie. In alto, fra
gli arconi, corrono due travi reticolari della stessa portata, distanti
fra loro m. 9, sui quali grava, verso l’interno, il lucernario
apribile, e verso l’esterno la corrispondente falda inclinata
di copertura.
Un terzo telaio rettangolare, della stessa luce di m. 18, interposto
fra il secondo dei telai descritti e il muro di prospetto sulla via
Napoli, compie la serie, fornendo appoggio intermedio alle travature
sorreggenti l’anfiteatro in basso, ed a quelle di copertura in
alto.
La sala d’aspetto ha il proprio scheletro costruttivo costituito
da 12 pilastri perimetrali collegati da doppio ordine di banchine, portanti
la volta a vela, rinforzata da nervature rivolte verso l’interno
e quindi non apparenti dalla sala stessa.
Non è possibile parlare più specificamente dei vari interessantissimi
aspetti tecnici della costruzione. Sopratutto importanti sono gli impianti
di ventilazione e di illuminazione.
La ventilazione naturale è assicurata da numerose ed ampie finestre
al piano dell’anfiteatro e dal lucernario di m. 9 x 12.
La ventilazione artificiale, con presa d’aria a circa 10 metri
dal livello stradale, può avvenire abbinata col riscaldamento
(16° di temperatura con 0° esterno) o con la refrigerazione
(5° di abbassamento). La potenza dell’impianto è di
mc. 60.000 orari, con quattro ricambi all’ora.
L’impianto di illuminazione è di 250.000 candele, di cui
180.000 per la sala di proiezione.
Risolto il problema costruttivo in funzione dei criteri architettonici
distributivi e proporzionatori di base, e, reciprocamente, avendo gli
stessi problemi costruttivi offerti importantissimi indirizzi lineari
ed andamenti planimetrici e volumetrici, dei quali l’unità
estetica del complesso doveva forzatamente essere nutrita, rimaneva
aperto il campo alle soluzioni decorative di dettaglio ed alla sensibilità
plastica e cromatica delle superfici.
Nulla di più delicato ed inquietante, nell’attuale epoca
di transizione, specialmente nelle fabbriche, le quali, rivestendo carattere
di particolare decoro e non appagandosi quindi della semplice obiettività
strutturale, in cui tutta l’architettura si riduce alla composizione
della massa ed alla formulazione volumetrica delle membrature nell’insieme
e nel dettaglio, tuttavia debbano essere realizzate con materiali nuovissimi,
per i quali, non si è ancora determinata chiaramente una specifica
attuale tradizione estetica.
I problemi offerti da questi nuovissimi temi architettonici vanno accentuando
in noi, una appassionata lotta di tendenze, un tormento di ricerca,
che speriamo sempre più sincero e fecondo di vitalità
nuove.
Mentre all’Estero codesti problemi stanno già suscitando
forme concrete di sensibilità, aderenti al clima intellettuale
e fisico di quei popoli ed orientate ad un valore stilistico, che, appunto
perchè caratteristico nel proprio ambiente tanto diverso dal
nostro, non può essere, così com’è, da noi
accolto; in Italia i pareri sono ancora molto discordi.
Alcuni artisti, a contatto dei nuovi materiali, particolarmente il cemento
armato, sentono la propria sensibilità distaccarsi completamente
dalle forme tradizionali del nostro classico e vorrebbero poter concepire
architetture nuove, svincolate da ogni ricordo. Per contatto e per naturale
bisogno di unità, anche le architetture attuate coi materiali
consueti alle età passate, dovrebbero, secondo costoro, assumere
revisioni essenziali e valori radicalmente moderni.
Altri artisti invece, reputano che certe attitudini estetiche troppo
profondamente nostrane possano non essere scosse nella loro essenza
dall’evoluzione della sostanza costruttiva e dall’incessante
sopravvenire di novissimi temi architettonici.
Così, gli architetti del “Supercinema” si sentono
ancora compiutamente classici. Non solo nel senso più lato ed
astratto della parola, e cioè per la tendenza all’ordine
volontario, al totale dominio e abbracciamento, alla completa formulazione
della materia, secondo un vigoroso e fantastico schema spirituale da
imporsi al mezzo di espressione: tendenza questa che andrà sicuramente
riaffermandosi in Italia (magari dopo un sincero bagno di naturalismo
costruttivistico) anche in architettura, com’è già
in atto nelle altre arti figurative, opponendosi in esse ai resti di
un romanticismo degenerato, ultimamente e specialmente all’estero,
attraverso i molti derivati dell’impressionismo, nel più
dissoluto, contingente ed inorganico sensualismo cerebrale.
Ma gli architetti del “Supercinema” si sentono classici
anche nel senso più ristretto e concreto, e cioè nel loro
desiderio di continuare ad applicare nelle fabbriche le modulazioni
formali del nostro stile classico italiano, sia pure rinfrescato da
elementi originali e, per caso dire, rivissute in veste nuova. Una simile
attitudine non è venuta meno in essi, neanche a contatto del
cemento armato. Il problema consisteva per loro, nel trovare una sintesi
tra l’architettura tradizionale ed il nuovo mezzo strutturale,
così chiaramente emergente per la radicalità del suo uso.
E, poichè lo stile classico, nato dall’architettura della
pietra, conserva nella propria sensibilità alcune espressioni
che non possono trascendere dal mezzo, (ad es. la proporzione degli
ordini, la dimensione dei piedritti, colonne o lesene, e delle architravature,
le forme e dimensioni degli archi, dei bugnati, degli archivolti, delle
mensole, delle lastre aggettanti, ecc. ecc.) ed altre invece di natura
più specificamente epidermica e decorativa che da tal mezzo sono
in certo modo staticamente indipendenti (ad es. cornici e relative sagome,
cassettonati e riquadri con le loro modanature, particolari di riposo
e di abbellimento ecc, ecc.), tale sintesi era condizionata alla possibilità
di evitare l’uso delle prime espressioni, limitandolo alle seconde.
Insomma, riferirsi soltanto a quelle forme classiche, che, dal punto
di vista della sensibilità statica, non contraddicono palesemente
ai caratteri della nuova materia costruttiva. Sano criterio, che abbiamo
visto tante volte trascurato in tali tipi di costruzione, come ad es.
in certe snellissime arcate di ponti in cemento armato, truccate con
impossibili conci e chiavi di finta pietra, a disdoro della logica e
dell’estetica, o nelle finte piattabande il cui assurdo statico
rivela la diversa struttura interna, o nelle colonne e architravi a
cui si attribuiscono tanto spesso dimensioni irrealizzabili col mezzo
apparente, ecc. ecc.
Nulla di ciò nel “Supercinema”. Gli archi, i piedritti,
le travature in cemento, ove la loro emergenza era inevitabile od esteticamente
desiderabile, appaiono nudi, lisci nella loro effettiva forma e spessore
tutt’al più rivestiti da un intonaco modanato con parsimonia
per renderne più divertente l’aspetto. La sensibilità
decorativa classica si limita alle zone di riposo. Può essere
legittimo dal punto di vista razionale segnare un intonaco, può
essere quasi doveroso accentuare un vano di porta o finestra con una
mostra o con un trofeo decorativo, ed è necessario per un artista
suddividere i piani lisci con fascie o cornici, orizzontali o verticali
a prescindere dalla bontà della della loro forma; giacchè
tali elementi hanno la funzione di creare nei piani stessi e nei volumi
coinvolti, al di sopra della talvolta amorfa ed imposta dimensione di
essi, quelle spirituali armonie di rapporti planimetrici e volumetrici,
in cui, com’è per gli accordi dei suoni nella musica, consiste
sopratutto l'architettura.
Nulla di falso, ma tutto oltre il necessario e il materialmente razionale;
tale è sempre stata e sempre sarà la condizione di qualsiasi
arte. La logica dell’arte si trova in un piano superiore a quello
in cui giace la logica della materia usata come mezzo ed intesa oggettivamente
in se stessa.
Il modello classico, d’altronde vigorosamente rinfrescato e modernamente
essenzializzato, è sopratutto usato dagli architetti del “Supercinema”
nella decorazione delle zone di riposo, ove la sostanza costruttiva,
libera dalle forze statiche, ha la calma per esigere l’aumento
della bellezza; specialmente nei soffitti, in cui è fatto largo
uso di riquadri e cassettonati. Si potrà discutere se tale motivo
ci desti qualche stanchezza pel soverchio uso, ma è ben certo
che esso può adottarsi egregiamente fra le nervature d’una
soletta di cemento armato, così come fra le travi intrecciate
d’un solaio di legno; strutture, dal punto di vista della sensibilità
statica, perfettamente equivalenti.
Ancora, vediamo usati, con bella eleganza, parapetti a colonnine, candelabre
dorate, e perfino sontuosi tappeti, sporti dai palchetti, come quando
si addobbavane le piazze armoniose dei nostri Comuni Italici, nelle
giornate di festa e di sole.
Notiamo in taluno di questi elementi delle note lontane, non dalla sensibilità
costruttiva generica dell’ambiente, ma piuttosto da quella della
sua destinazione.
La cinematografia, arte moderna, ci ispira imagini visive di terso e
crudo candore, luminosità di metalli politi, linearità
continue, essenzialità di volumi nudi: qualche cosa di semplice,
elementare, dinamico.
Invece questa sala, con quella sua composizione largamente spezzata
a sostanziosamente decorata, con la sua policromia intonata ma così
scura, ha un’aria grave come di salotto.
Ci sentiremmo più a nostro agio se potessimo ascoltare là
dentro qualche bella e dignitosa commedia del nostro teatro antico,
piuttosto che assistere alle furibonde scorrerie di Tom Mix tra le montagne
dell’Arizona, alle sfrenate avidità delle metropoli moderne,
od alle fantastiche apparizioni delle meccaniche città del 2000.
Può darsi che cosiffatti temi architettonici suscitino tra qualche
tempo più attuali sensibilità; ma senza dubbio, nella
fase di transizione, di inquietudine e rinascita in cui si divincola
la nostra arte; questa opera di Foschini, Spaccarelli e Giobbe, merita
tutta l’attenzione; per le attitudini che la ispirarono, per la
realizzazione dei concetti architettonici proposti, per la nobile e
succosa eleganza che la pervade.
PLINIO MARCONI
PADIGLIONI NUOVI ALLA FIERA DI MILANO
Da due anni i governatori di quest’attraente effimero paese dell’attività
e dello scibile umano fan davvero sul serio. Edifici e padiglioni in
muratura han quasi soppiantato ormai baracche e capanni: edifici e padiglioni
che sempre offrono il tema più fantasioso agli architetti milanesi.
Larghi e comodissimi viali invogliano a bighellonare alla ricerca delle
novità, molte sopratutto quest’anno, ma purtroppo non sempre
ambientate nell’intricato arcipelago.
Ad ogni inaugurazione si scopron migliorie. E, se ci son pecche, codeste
si debbono alla nascita, alla mancanza cioè di un piano regolatore
iniziale. Perchè i primissimi anni della Fiera furon balbettii,
e la Presidenza d’allora neppure sospettava di dover figgere lo
sguardo tanto all’innanzi. Ora che si fa sul serio, e che tutti
gli sviluppi dell’impresa sono diventati imponenti, il peccato
originale appare e dura ostinatamente. Bisognava, allora, prevedere
il di più e il dopo: essere, insomma, profeti e non timidi sacerdoti.
N’avremmo avuto addirittura la spinta in luogo dell’inerzia
e ci sarebbero stati risparmiati i peccati capitali delle prime Fiere:
le baracche smontabili ed i padiglioncini regionali ad uso di rassegne
artistiche paesane.
Ma tant’è: il coraggio l’ha, infine, avuto l’ingegnere
Puricelli, ed a lui van le prime lodi. Postosi il problema del massimo
incremento, stabilito il programma che va oltre l’effimera manifestazione
di un sol anno, egli ha definito il piano dei lavori presenti e futuri,
nel quadro generale. Un certo numero di architetti, che oggi a Milano
van per la maggiore, vennero invitati a predisporre ciascuno un proprio
padiglione: e i temi eran vari e fin troppo contenuti. Ma, almeno, ecco
un gruppo di costruzioni che, ripartite nei bilanci annuali, finiranno
a dar giusta forma alla città del traffico.
Delle principali novità di quest’anno appunto, quì
vogliamo accennare.
Primo fra tutti, merita attenzione il padiglione maggiore, quello che
subito venne definito il palazzo dalle cinque gallerie: complesso davvero
imponente di navi entro cui stan raccolte le industrie casalinghe. È
buona e sincera opera degli architetti Ottavio Cabiati e Alberto Alpago
Novello. La planimetria è complessa nello svolgimento, e dà
occasione di creare più d’una fronte monumentale, giacchè
questo padiglione, purtroppo incastrato nell’arcipelago di minori
edicole, deve affacciarsi come e dove può, insinuandosi con i
bracci a presentar gli ingressi fra l’uno e l’altro spazio
libero. Conseguenza postuma dei suaccennati errori iniziali d’impianto
della Fiera.
Ma, tuttavia, Cabiati e Alpago son bene riusciti a dominare attorno
con le fronti della loro cattedrale di ferro e cemento. Buone fronti
di architettura classica e nobile, sempre signorile e sufficentemente
originale pur nelle evidenti reminiscenze stilistiche dell’antichità.
Mattoni e travertino son i quasi unici materiali usati all’esterno,
dove soltanto le cornici superiori sono in cemento. Di marmo vennero
fatte le colonne dell’esedra al principale accesso; tutta a vetri
su armatura in ferro è la cupola che si eleva alla crocera delle
gallerie. E codesta cupola, alta e semplicissima, è la parte
migliore e più apprezzabile del signorile ed elegante padiglione.
L’architetto Giuseppe De Finetti ha avuto un compito diverso,
e, d’altronde, non lontano da certe particolari preferenze che
gli vengon unanimemente riconosciute: preparare l’eden della gastronomia.
Ed egli ha cercato di risolvere il tema con la maggior semplicità
ed uniformità di mezzi, nei materiali e nei ritmi. Purtroppo,
ed è quanto subito appare a prima vista, De Finetti s’è
lasciato prendere da un’unità di misura un poco falsa,
un metro tanto modesto che ha alterato il valore delle aperture e sconcertato
le masse. E, tuttavia, queste non mancano di equilibrio e di ricchezza
nei movimenti. L’esterno è tutto contrasto di toni fra
il travertino degli archi e delle cornici, ed il rosso intonaco intensissimo
dei fondi. Dominano, e meritano davvero d’essere ricordate per
la serena e quasi ieratica compostezza, quattro statue di vergini sagge
che al sommo di quattro testate riassumono il significato della costruzione:
statue della Signora Maryla Lednicka. L’interno del padiglione
è, invece, malauguratamente male apprezzabile per colpa delle
inevitate invasioni delle merci e delle scritte che ne soffocano la
struttura.
Dagli alimentari non è lungo il cammino per giungere alla mostra
degli agricoltori, apprestata sotto gli auspici della Confederazione
Nazionale Fascista. L’architetto Arata s’è studiato
qui, naturalmente, di rimanere nel campagnolo e nell’agreste.
Movimentata è la planimetria di questo suo edificio; movimentati
ancor più sono gli esterni, a logge, torrette, scalee, altane,
campaniletti, porticati: roba, d’altronde, non tutta indispensabile
e che a tutta prima fa girar quasi lo sguardo. Vedete il lato maggiore,
e vi parrà la riproduzione d’un castelletto medioevale
apprestato per l’ultimo quadro di un film: modiglioni in legno
di pretto stampo teatrale, altane d’ispirazione romantica, portico
alla bolognese del trecento. Son proprio, ahimè, tanti difetti
che fan distogliere l’attenzione da certe trovate d’un valore
innegabilmente più intrinseco. Girate l’un fianco, e vi
apparirà il coraggioso motivo di un grande timpano triangolare
che sovrasta il terrazzo; e, accanto, altri timpani minori che decoran
la scala esterna. Buon seme, subito guasto dall’ammiccare di certe
finestrelle allungate, a riseghe, viete e banali.
Altro padiglione recentissimo, e che deve essere catalogato fra i maggiori,
han preparato i fratelli Adolfo e Aldo Zacchi per accogliere il nuovo
mondo delle meraviglie elettriche. Il centro, verso il piazzale, è
un’ampia esedra che abbraccia la scalea con abbondanza di motivi
architettonici, colonnato, fontana, e arcate superiori a mascherare
le strutture vitali. I fianchi, che si protendono lungo i viali, han
motivi di archi ciechi e riquadri. E, indubbiamente, l’esterno
di questo padiglione è assai meglio riuscito dell’interno;
l’architettura vuole essere di un classico sapore, e intonarsi
al gusto che, fra i moderni milanesi, pare debba giustamente prendere
maggior piede: quell’architettura di un recente neoclassicismo
che su questa Rivista abbiam sovente presentato. Ma, poi che i fratelli
Zacchi han preferito sin quì battere strade diverse e fra le
più eclettiche - la casa in barocchino settecentesco, la villa
in medioevale o in rinascimento lombardi - codesto nuovissimo e per
loro insolito saggio di gusto stilistico si rivela acerbo e poco sincero,
in talune parti esuberante, in tant’altre praticamente mal riuscito.
Ma il saggio è oltremodo significativo e sempre notevole.
Piero Portaluppi, l’architetto aulico delle sfere ufficiali, presenta
quest'anno due novità: un padiglione per la Società Pirelli,
ed un secondo per il Consorzio Nazionale dei Petroli. Il padiglione
Pirelli è certo il meglio studiato e curato, sviluppantesi attorno
ad una sala centrale rotonda, coperta da cupola a lucernario. Chiaro
nell’aspetto, purtroppo non lo è altrettanto nella composizione
degli elementi architettonici, che, sulle varie fronti, si allacciano
e si compenetrano senza troppo intima risoluzione. E ciò toglie
armonia all’inesieme, nè riesce a recargli il desiderato
contributo di serena espressione. Si intuisce che ottimi elementi dovevan
essere in possesso dell’architetto fin dal principio; ma poi si
son alterati per via. Specie la gravità della cornice a timpani
è di danno all’assieme.
Il secondo padiglione Portaluppi ha una trovata davvero geniale che
ne costituisce il nucleo: una poderosa incastellatura in legname, quasi
una torre da pozzo petrolifero, si eleva altissima e ardita sopra un
cubo di legno. E la torre è in verità molto simpatica,
mentre non può dirsi altrettanto delle parti basse della costruzione:
sopratutto taluni particolari, come le fiamme dorate, son di gusto assai
dubbio e vieto, e distolgono l’attenzione da quanto avrebbe ben
preferito restare in miglior vista.
Vicinissima, ecco dominare la massa alta e robusta dell’edificio
studiato dall’architetto Mario Faravelli per la SHELL. Una piccola
esedra dà accesso alla sala centrale, cui sovrasta, assai elevato,
il lucernario; e dalla sala si dipartono a raggiera gli ambienti laterali
minori che, all’esterno seguono l’andamento delle strade.
Sobrietà di architettura ottenuta con mezzi semplici, forse fin
troppo uniformi. Rapporto di masse un poco squilibrato - la costruzione
alta ha un metro di tanto maggiore di quello usato invece per le ali
basse - ma tuttavia buoni propositi e felice effetti. L’interno
della sala centrale può ben essere additato fra le architetture
più eleganti e riuscite della Fiera milanese.
Un padiglione di modeste proporzioni ha creato l’architetto Greppi
per l’Irpinia. Ed è, codesta, la fabbrica dei triangoli,
perchè la fantasia qui ne assomma e ne distribuisce, utili ed
inutili, a dismisura. Perfino la pensilina sporgente e la scalea d’invito
son aguzze, e non troppo a proposito. Le colonne ai lati han preferito
abbandonare qualsiasi forma di capitelli per sostituirli con delle sfere,
così che l’impressione è eccessivamente meccanica.
L’unica sala che, con sporgenze all’ingiro, ne costituisce
l’interno, è pur essa sotto la protezione degli immancabili
triangoli; ed un miracolo di triangolazione può essere definito
il lucernario a cupola poliedrica che lo copre: elemento indubbiamente
migliore e non inelegante della capricciosa costruzione.
Due giovanissimi architetti, Larco e Rava (1), han apprestato un padiglione
per l’Istituto Coloniale Fascista, dove la lineare semplicità
della moderna costruzione di sapore africano, a cubi e speronature ed
absidi candidi, è appena interrotta, ai lati del portale, da
certe larghissime lesene scanellate, in buon marmo. L’insieme
di questo esterno può dirsi ben riuscito: men chiaro, e, invero
di gusto poco raffinato, l’interno e la sistemazione della meschina
ed inutile scaletta. Irriverente addirittura la figurazione del magno
Settimio Severo che, da una nicchia della fronte maggiore, vorrebbe
consacrare, in materia vile e in posa poco imperiale, il suo gran sogno
libico.
Infine, fra le altre novità di quest’anno, attira l’attenzione
la semplice ma simpatica mostra del “Popolo d’Italia”,
preparata dall’architetto Muzio e da Mario Sironi. Nè va
dimenticata l’edicola che gli architetti Ponti e Lancia idearono
per ospitare le ceramiche Richard Ginori, nel centro del gran padiglione
dalle cinque gallerie: edicola ricca di movenze e di trovate pur nella
veste semplicissima e sobria. F. R.
(1) Le illustrazioni di questo lavoro sono nell’articolo seguente.
DUE LAVORI DI C. E. RAVA E S. LARCO
CASA SOLARI IN S. MARGHERITA LIGURE
La Casa Solari in S. Margherita Ligure è stata costruita nel
1928. La pianta non dimostra alcuna ricerca nella distribuzione di ambienti.
La facciata invece è ben tagliata e serena. Il rapporto tra i
due piani inferiori triti e compositi e la nudità alta del piano
superiore, risolve efficacemente il difficile problema estetico della
casetta a molte finestre.
I piloncini dell’ammezzato potevano essere diversi, e non rammentare
troppo le superfici ondulate del padiglione austriaco all’esposizione
di Parigi del 1925.
A parte queste mende, la palazzina è moderna e abbastanza italiana.
PADIGLIONE PER COLONIE PER
LA FIERA-ESPOSIZIONE DI MILANO
I due giovani architetti milanesi vinsero l’anno scorso il concorso
nazionale per il Padiglione delle Colonie per la Fiera-Esposizione di
Milano del 1928. Il piccolo edificio è terminato, e si è
inaugurato in questi giorni.
È sodo, nitido, schematico. Belle luci ritagliate nella materia
bianca, liscia e nuda.
È coloniale, senza essere nè arabo nè turco. La
cupola della sala centrale è genialmente trovata, acutamente
caratteristica.
MARCELLO PIACENTINI
SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI
PAGINE DI VITA SINDACALE
CONCORSO PER CASE POPOLARI IN MILANO
L’Istituto per le Case popolari di Milano bandisce un concorso
fra gli ingegneri e gli architetti italiani per il progetto di un gruppo
di case popolari da costruirsi in Milano sull’area in fregio al
Viale delle Argonne. I progetti dovranno essere presentati entro il
30 settembre c.a. alla sede dell’Istituto, corredati dei documenti
comprovanti la qualità di ingegnere o di architetto del concorrente
e di tutti gli altri allegati prescritti dal bando (preventivo di spesa,
planimetrie, prospetti, ecc.). Sono stabiliti cinque premi in contanti:
il primo di trentamila, il secondo di ventimila e gli altri di cinquemila
lire cadauno.
La Giuria sarà composta dal Presidente dell’Istituto e
di altri sette membri di cui quattro nominati dal Consiglio dell’Istituto
stesso, uno dal Comune di Milano, uno dal Sindacato fascista ingegneri
e uno dal Sindacato fascista architetti di Milano. Il bando del concorso
con le norme dettagliate può essere ritirato alla sede dell’Istituto
per le Case popolari in via Cesare Battisti oppure presso il Sindacato
fascista ingegneri e il Sindacato fascista architetti di Milano.
CONCORSO PER UN PROGETTO
DI UN SANATORIO PER TUBERCOLOTICI IN BARI
Il Consorzio Provinciale Antitubercolare Vittorio Emanuele III in Bari,
indice un concorso col seguente bando:
È aperto un concorso fra i tecnici italiani, iscritti negli albi
professionali, per la redazione del progetto di un Sanatorio per tubercolotici,
della capacità di 300 ammalati in due sezioni di 150 uomini e
150 donne nettamente separate, oltre il personale sanitario, d’infermeria
e di servizio.
Ciascuna delle due sezioni - uomini e donne - avrà cucina e refettorio
separato. Ogni sezione sarà costituita da due padiglioni di 75
letti ciascuno che potranno avere la cucina in comune.
Detto Sanatorio dovrà sorgere nel fondo denominato S. Michele,
di proprietà del Consorzio, in agro di Putignano, della estensione
di circa ettari 45, comprensivo un gran fabbricato, da utilizzare per
i bisogni del Sanatorio, in relazione ai particolari criteri che saranno
determinati dai concorrenti.
Al vincitore del concorso sarà attribuito il premio di 50.000
lire, pagabili con le seguenti modalità:
a) lire 20.000 per il progetto di massima subito dopo che la Commissione
giudicatrice avrà emesso il suno giudizio.
Saranno inoltre attribuiti due premi di rispettive lire 10.000 e lire
5.000 agli autori dei progetti di massima che risulteranno secondo e
terzo graduato.
b) lire 30.000 dopo che l’autore del progetto di massima prescelto
lo avrà trasformato in progetto definitivo, corredandolo di tutti
gli allegati prescritti e degli altri elementi necessari ed utili, non
solo agli effetti del preventivo della spesa e per la formazione del
piano completo finanziario dell’opera, ma altresì per quanto
riflette l’appalto di costruzione dei lavori del Sanatorio.
A tale scopo sarà obbligo del vincitore del concorso di apportare
ai progetti di massima e di dettaglio nel termine che sarà assegnato,
e senza alcun compenso, le modificazioni, variazioni e aggiunte che
fossero suggerite o imposte sia dalla Commissione giudicatrice, sia
in dipendenza dell’approvazione di esso da parte dell’autorità
tutoria, dagli organi tecnici competenti.
I progetti, tanto di massima che definitivo, devono essere redatti in
conformità delle norme del Regolamento approvato con Decreto
del Ministero dei LL. PP. 29 maggio 1893.
Il termine assegnato ai concorrenti per la presentazione del progetto
di massima, scade alle ore 12 del 15 settembre 1928 (Anno VI), i progetti
dovranno essere consegnati o pervenire all’Ufficio del Consorzio,
in Bari, sito in Via Melo, 132, non più tardi del giorno e dell’ora
innanzi indicati, a cura e spese di ciascun concorrente. Devono essere
contenuti in piego chiuso, contrassegnato da un motto, il quale dovrà
essere ripetuto sopra una busta parimenti chiusa e suggellata, contenente
il nome dell’autore e il suo recapito.
La omissione anche di uno solo dei documenti di progetto descritti porterà
alla esclusione del concorso.
All’autore del progetto, che sarà prescelto dalla Commissione
esaminatrice, verrà assegnato un ulteriore termine di quattro
mesi, decorrenti dal giorno della comunicazione del giudizio della Commissione
giudicatrice, per la redazione e consegna del progetto definitivo, redatto
come innanzi stabilito.
Tanto il progetto di massima prescelto e il relativo progetto definitivo
quanto il secondo e il terzo graduato dovranno essere firmati dall’autore
e resteranno di esclusiva proprietà del Consorzio.
È in facoltà del Consorzio di affidare senza impegno,
al vincitore del concorso la direzione dei lavori progettati dietro
corresponzione di un compenso nella misura del 2% sul consuntivo netto
dei lavori. La Direzione dei lavori resterà subordinata alle
norme del Regolamento 25 maggio 1894 N. 350 e alle altre disposizioni
che possano avere attinenze vigenti per il servizio del Genio Civile.
Qualora il vincitore del concorso non presentasse il progetto definitivo
nei modi e termini innanzi detti, il Consorzio si riterrà libero
di far sviluppare il progetto di massima affidandone l’incarico
a tecnici di sua fiducia restando con ciò esonerato da ogni obbligo
verso il vincitore del concorso.
Ai concorrenti, che ne facciano richiesta, il Consorzio fornirà
la pianta del fondo, nel quale sorgerà il Sanatorio, con le principali
quote di livello, alla scala di uno a 2000, nonchè i disegni
pianimetrici dei fabbricati esistenti nelle loro linee di confine e
alla scala di 1 a 100. Ogni altro rilievo e studio di dettaglio resta
a cura e spese del concorrente.
I progetti saranno esaminati e giudicati da apposita Commissione del
Consorzio, e composta di due tecnici e due sanitari nominati dal Commissario
predetto.
Il giudizio espresso dalla Commissione esaminatrice rimane insindacabile
e inappellabile.
I progetti non prescelti potranno essere ritirati a cura e spese degli
interessati entro un mese dalla chiusura del concorso, elasso il quale
termine cessa ogni responsabilità del Consorzio per quanto riflette
la custodia dei progetti inviati al concorso.
Bari, 30 maggio 1928 (Anno VI).
Il Commissario aggiunto
PROF. DOTT. EDOARDO GERMANO
Il Segretario
SCATOGNA PIETRO
Detto bando è formulato in modo poco chiaro, anzi ambiguo, specialmente
laddove lascia credere che ad esso possano prender parte non soltanto
gli Architetti e gli Ingegneri il cui titolo è riconosciuto dalla
legge, ma “tutti i tecnici Italiani” senza ulteriore specificazione.
Si avverte quindi che le Segreterie Generali del Sindacati degli Architetti
e degli Ingegneri stanno facendo pratiche per apportare a detto bando
le modifiche ritenute opportune.
N. D. R.
L’INSEDIAMENTO DEL NUOVO DIRETTORIO
DELLE BIENNALI D’ARTE DECORATIVA DI MONZA
Il nuovo Direttorio delle Mostre Internazionali d’Arte Decorativa
di Monza, composta dagli arch. ALPAGO NOVELLO e GIO PONTI, dal pittore
MARIO S1RONI e da CARLO A. FELICE, Segretario del Direttorio stesso
e Direttore del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, è stato insediato
ieri, a Palazzo Marino, dal Podestà on. Belloni, Presidente del
CAMMU.
Il Direttorio ha subito tracciato le linee essenziali del programma
della IV Biennale, che sarà pubblicato entro brevissimo tempo
e nel quale saranno nettamente indicati i nuovi criteri di organizzazione
della Mostra, alla quale si intende conferire il massimo rilievo e grande
autorità. Essa oltre a consacrare le conquiste fin qui conseguite
dall’arte moderna presso di noi e all’estero, dovrà
imprimere un deciso impulso alla produzione nazionale, al suo progressivo
metodico miglioramento ed alla sua sempre più larga affermazione
sui mercati stranieri.
Al termine della seduta sono stati inviati i seguenti telegrammi al
Duce:
“Insediando Direttorio della Biennale Arte Decorativa Monza nostro
pensiero rivolgesi alla E. V. propulsore del rinnovamento di ogni attività
nazionale, nella volontà che una nuova affermazione dell’arte
moderna e del lavoro italiani aggiungasi alle realizzazioni vittoriose
del Governo Nazionale”.
Presidente Consorzio Milano-Monza-Umanitaria
Podestà BELLONI.
“Direttorio Biennali Arti Decorative Monza iniziando lavori,
invia a V. E. rinnovatore energie spirituali italiane la espressione
della propria profonda devozione ed esprime il proposito che l’importante
manifestazione della prossima Mostra consacri definitivamente la vittoriosa
fascista ascensione della moderna arte nazionale”.
ALPAGO, PONTI, SIRONI, FELICE.
INSEDIAMENTO DEL DIRETTORIO
DEL SINDACATO ARCHITETTI DELLA TOSCANA
Il 23 giugno u. s. il Segretario Nazionale dei Sindacati degli Architetti
Alberto Calza-Bini si è recato a Firenze in occasione della designazione
del Direttorio e del Segretario del Sindacati per la Toscana.
Furono felicemente risolte le difficoltà che si opponevano ad
un accordo, cosicchè anche il Sindacato Toscano stà per
essere inquadrato ordinatamente.
Daremo notizia delle avvenute elezioni.
NUOVI ACCADEMICI DI S. LUCA
Nell’ultima tornata della Regia Insigne Accademia di S. Luca,
sono stati insediati gli eminenti camerati architetti Cesare Bazzani,
Alberto Calza-Bini e Vincenzo Fasolo.