FASCICOLO XI - LUGLIO 1928
Notiziario

CORRIERE ARCHITETTONICO

IL “SUPERCINEMA’’ IN ROMA
Arch.ARNALDO FOSCHINI, Arch.ATTILIO SPACCARELLI, Ing. GIACOMO GIOBBE

Quest’opera che offriamo ai lettori della Rivista è importante sotto vari aspetti: per l’interessante problema distributivo-costruttivo ch’essa svolge e supera, pel senso decorativo che l’ispira, e per i mutui rapporti esistenti fra codesti due lati della sua unità, involgenti una tesi architettonica molto interessante in questo momento di transizione e di sviluppo formativo dell’arte nostra.
Il tema distributivo offerto ai progettisti era tutt’altro che facile: occupare con la costruzione tre aree di forma complessa, con particolarissimi legami planimetrici, a ciascuna delle quali era relativo un limite d’altezza massima diverso, in dipendenza dei vincoli imposti dai fabbricati preesistenti.
La prima area, ov’era consentito uno sviluppo in altezza di appena m. 4.50 era quella occupata da alcuni locali terreni del Palazzo Rattazzi (situato all’incrocio fra via Depretis e via Viminale). Essendo stato disposto l’ingresso del Cinema nel luogo più decoroso della zona, e cioè in corrispondenza della fiancata d’angolo di detto Palazzo, tale area doveva forzatamente ospitare gli ambienti d’accesso, con biglietteria e servizi vari; a ciò si addiceva anche la scarsa altezza.
La seconda area, ove poteva ottenersi una elevazione massima di m. 7.50, era costituita dal cortile del Palazzo Rattazzi. Molto opportunamente ivi furono ubicati la sala d’aspetto principale ed ambienti analoghi di sosta e disimpegno. Nella terza area, la più vasta, ove era possibile un’altezza di m. 17.50, fu costruita la sala di proiezione, con gli ambienti di uscita e servizi relativi.

L’asse principale della sala di proiezione è disposto normalmente alla via Napoli, col quadro addossato al muro cieco terminale del fabbricato di via Depretis.
Tale soluzione che appare, del resto soltanto sulla carta, un po’ forzata, fu dovuta adottare per utilizzare nel modo migliore i dislivelli naturali del terreno e per ottenere il massimo rendimento dall’area.
La cubatura totale di tutti i vani costituenti il “Supercinema” è di mc. 23.500 mentre quella della sala di proiezione è di mc. 20.500. Questa è costituita di platea, anfiteatro e due gallerie laterali: dimensioni massime m. 40 x 29. Altezza m. 17.50. Ha la capacità di 2405 posti a sedere.
Il pavimento della platea ha pendenza variabile, con profilo concavo verso l’alto, a tre livellette diverse. Tale profilo e tutti gli altri criteri distributivi dei posti a sedere furono desunti da uno studio accurato, per il quale fu potuta assicurare una buona visibilità dello schermo anche dai punti più sfavorevoli. Davanti allo schermo si sviluppa un piccolo palcoscenico. Sotto e avanti a questo è l’orchestra incassata rispetto il piano della sala e poggiata su un piano di risonanza. La cabina di proiezione è installata all’estremità opposta, in un ampio locale a livello della platea, prospiciente direttamente su via Napoli e completamente isolato dalla sala. Su detta via sboccano anche tutte le uscite.
Il problema tecnico principale offertosi ai progettisti fu la scelta del sistema costruttivo in dipendenza di esigenze inderogabili, come ad esempio: la riduzione di sezione al minimo delle membrature di piedritto e conseguenti grandi portate intermedie: la richiesta rapidità di costruzione: la necessità di realizzare una struttura rigidamente collegata, in vista degli ingenti carichi e delle derivanti sollecitanti statiche ed eventualmente dinamiche: la sicurezza contro gli incendi, ecc.
L’adozione del cemento armato si imponeva, ed in guisa tale da dover sfruttare nel modo più integrale e per conseguenza appariscente i peculiari requisiti costruttivi del materiale, i quali, pertanto non potevano non influire profondamente sulle direttive architettoniche fondamentali dell’opera.
L’ossatura della sala di proiezione consta essenzialmente di due telai verticali in cemento armato, eguali, paralleli all’asse trasversale della sala, distanti tra loro m. 16.60. Ogni telaio è costituito da un arcone della luce di m. 18, impostato su due piedritti, ciascuno dei quali è formato da due pilastri collegati da banchine e diagonali, in modo da formare un rigido sistema a traliccio, che riporta la spinta dell’arco alla comune piastra di fondazione.
Le coppie affacciate di pilastri dei due telai sono collegate da tre ordini di travoni che sorreggono i solai delle gallerie. In alto, fra gli arconi, corrono due travi reticolari della stessa portata, distanti fra loro m. 9, sui quali grava, verso l’interno, il lucernario apribile, e verso l’esterno la corrispondente falda inclinata di copertura.
Un terzo telaio rettangolare, della stessa luce di m. 18, interposto fra il secondo dei telai descritti e il muro di prospetto sulla via Napoli, compie la serie, fornendo appoggio intermedio alle travature sorreggenti l’anfiteatro in basso, ed a quelle di copertura in alto.
La sala d’aspetto ha il proprio scheletro costruttivo costituito da 12 pilastri perimetrali collegati da doppio ordine di banchine, portanti la volta a vela, rinforzata da nervature rivolte verso l’interno e quindi non apparenti dalla sala stessa.
Non è possibile parlare più specificamente dei vari interessantissimi aspetti tecnici della costruzione. Sopratutto importanti sono gli impianti di ventilazione e di illuminazione.
La ventilazione naturale è assicurata da numerose ed ampie finestre al piano dell’anfiteatro e dal lucernario di m. 9 x 12.
La ventilazione artificiale, con presa d’aria a circa 10 metri dal livello stradale, può avvenire abbinata col riscaldamento (16° di temperatura con 0° esterno) o con la refrigerazione (5° di abbassamento). La potenza dell’impianto è di mc. 60.000 orari, con quattro ricambi all’ora.
L’impianto di illuminazione è di 250.000 candele, di cui 180.000 per la sala di proiezione.

Risolto il problema costruttivo in funzione dei criteri architettonici distributivi e proporzionatori di base, e, reciprocamente, avendo gli stessi problemi costruttivi offerti importantissimi indirizzi lineari ed andamenti planimetrici e volumetrici, dei quali l’unità estetica del complesso doveva forzatamente essere nutrita, rimaneva aperto il campo alle soluzioni decorative di dettaglio ed alla sensibilità plastica e cromatica delle superfici.
Nulla di più delicato ed inquietante, nell’attuale epoca di transizione, specialmente nelle fabbriche, le quali, rivestendo carattere di particolare decoro e non appagandosi quindi della semplice obiettività strutturale, in cui tutta l’architettura si riduce alla composizione della massa ed alla formulazione volumetrica delle membrature nell’insieme e nel dettaglio, tuttavia debbano essere realizzate con materiali nuovissimi, per i quali, non si è ancora determinata chiaramente una specifica attuale tradizione estetica.
I problemi offerti da questi nuovissimi temi architettonici vanno accentuando in noi, una appassionata lotta di tendenze, un tormento di ricerca, che speriamo sempre più sincero e fecondo di vitalità nuove.
Mentre all’Estero codesti problemi stanno già suscitando forme concrete di sensibilità, aderenti al clima intellettuale e fisico di quei popoli ed orientate ad un valore stilistico, che, appunto perchè caratteristico nel proprio ambiente tanto diverso dal nostro, non può essere, così com’è, da noi accolto; in Italia i pareri sono ancora molto discordi.
Alcuni artisti, a contatto dei nuovi materiali, particolarmente il cemento armato, sentono la propria sensibilità distaccarsi completamente dalle forme tradizionali del nostro classico e vorrebbero poter concepire architetture nuove, svincolate da ogni ricordo. Per contatto e per naturale bisogno di unità, anche le architetture attuate coi materiali consueti alle età passate, dovrebbero, secondo costoro, assumere revisioni essenziali e valori radicalmente moderni.
Altri artisti invece, reputano che certe attitudini estetiche troppo profondamente nostrane possano non essere scosse nella loro essenza dall’evoluzione della sostanza costruttiva e dall’incessante sopravvenire di novissimi temi architettonici.
Così, gli architetti del “Supercinema” si sentono ancora compiutamente classici. Non solo nel senso più lato ed astratto della parola, e cioè per la tendenza all’ordine volontario, al totale dominio e abbracciamento, alla completa formulazione della materia, secondo un vigoroso e fantastico schema spirituale da imporsi al mezzo di espressione: tendenza questa che andrà sicuramente riaffermandosi in Italia (magari dopo un sincero bagno di naturalismo costruttivistico) anche in architettura, com’è già in atto nelle altre arti figurative, opponendosi in esse ai resti di un romanticismo degenerato, ultimamente e specialmente all’estero, attraverso i molti derivati dell’impressionismo, nel più dissoluto, contingente ed inorganico sensualismo cerebrale.
Ma gli architetti del “Supercinema” si sentono classici anche nel senso più ristretto e concreto, e cioè nel loro desiderio di continuare ad applicare nelle fabbriche le modulazioni formali del nostro stile classico italiano, sia pure rinfrescato da elementi originali e, per caso dire, rivissute in veste nuova. Una simile attitudine non è venuta meno in essi, neanche a contatto del cemento armato. Il problema consisteva per loro, nel trovare una sintesi tra l’architettura tradizionale ed il nuovo mezzo strutturale, così chiaramente emergente per la radicalità del suo uso. E, poichè lo stile classico, nato dall’architettura della pietra, conserva nella propria sensibilità alcune espressioni che non possono trascendere dal mezzo, (ad es. la proporzione degli ordini, la dimensione dei piedritti, colonne o lesene, e delle architravature, le forme e dimensioni degli archi, dei bugnati, degli archivolti, delle mensole, delle lastre aggettanti, ecc. ecc.) ed altre invece di natura più specificamente epidermica e decorativa che da tal mezzo sono in certo modo staticamente indipendenti (ad es. cornici e relative sagome, cassettonati e riquadri con le loro modanature, particolari di riposo e di abbellimento ecc, ecc.), tale sintesi era condizionata alla possibilità di evitare l’uso delle prime espressioni, limitandolo alle seconde. Insomma, riferirsi soltanto a quelle forme classiche, che, dal punto di vista della sensibilità statica, non contraddicono palesemente ai caratteri della nuova materia costruttiva. Sano criterio, che abbiamo visto tante volte trascurato in tali tipi di costruzione, come ad es. in certe snellissime arcate di ponti in cemento armato, truccate con impossibili conci e chiavi di finta pietra, a disdoro della logica e dell’estetica, o nelle finte piattabande il cui assurdo statico rivela la diversa struttura interna, o nelle colonne e architravi a cui si attribuiscono tanto spesso dimensioni irrealizzabili col mezzo apparente, ecc. ecc.
Nulla di ciò nel “Supercinema”. Gli archi, i piedritti, le travature in cemento, ove la loro emergenza era inevitabile od esteticamente desiderabile, appaiono nudi, lisci nella loro effettiva forma e spessore tutt’al più rivestiti da un intonaco modanato con parsimonia per renderne più divertente l’aspetto. La sensibilità decorativa classica si limita alle zone di riposo. Può essere legittimo dal punto di vista razionale segnare un intonaco, può essere quasi doveroso accentuare un vano di porta o finestra con una mostra o con un trofeo decorativo, ed è necessario per un artista suddividere i piani lisci con fascie o cornici, orizzontali o verticali a prescindere dalla bontà della della loro forma; giacchè tali elementi hanno la funzione di creare nei piani stessi e nei volumi coinvolti, al di sopra della talvolta amorfa ed imposta dimensione di essi, quelle spirituali armonie di rapporti planimetrici e volumetrici, in cui, com’è per gli accordi dei suoni nella musica, consiste sopratutto l'architettura.
Nulla di falso, ma tutto oltre il necessario e il materialmente razionale; tale è sempre stata e sempre sarà la condizione di qualsiasi arte. La logica dell’arte si trova in un piano superiore a quello in cui giace la logica della materia usata come mezzo ed intesa oggettivamente in se stessa.

Il modello classico, d’altronde vigorosamente rinfrescato e modernamente essenzializzato, è sopratutto usato dagli architetti del “Supercinema” nella decorazione delle zone di riposo, ove la sostanza costruttiva, libera dalle forze statiche, ha la calma per esigere l’aumento della bellezza; specialmente nei soffitti, in cui è fatto largo uso di riquadri e cassettonati. Si potrà discutere se tale motivo ci desti qualche stanchezza pel soverchio uso, ma è ben certo che esso può adottarsi egregiamente fra le nervature d’una soletta di cemento armato, così come fra le travi intrecciate d’un solaio di legno; strutture, dal punto di vista della sensibilità statica, perfettamente equivalenti.
Ancora, vediamo usati, con bella eleganza, parapetti a colonnine, candelabre dorate, e perfino sontuosi tappeti, sporti dai palchetti, come quando si addobbavane le piazze armoniose dei nostri Comuni Italici, nelle giornate di festa e di sole.
Notiamo in taluno di questi elementi delle note lontane, non dalla sensibilità costruttiva generica dell’ambiente, ma piuttosto da quella della sua destinazione.
La cinematografia, arte moderna, ci ispira imagini visive di terso e crudo candore, luminosità di metalli politi, linearità continue, essenzialità di volumi nudi: qualche cosa di semplice, elementare, dinamico.
Invece questa sala, con quella sua composizione largamente spezzata a sostanziosamente decorata, con la sua policromia intonata ma così scura, ha un’aria grave come di salotto.
Ci sentiremmo più a nostro agio se potessimo ascoltare là dentro qualche bella e dignitosa commedia del nostro teatro antico, piuttosto che assistere alle furibonde scorrerie di Tom Mix tra le montagne dell’Arizona, alle sfrenate avidità delle metropoli moderne, od alle fantastiche apparizioni delle meccaniche città del 2000.
Può darsi che cosiffatti temi architettonici suscitino tra qualche tempo più attuali sensibilità; ma senza dubbio, nella fase di transizione, di inquietudine e rinascita in cui si divincola la nostra arte; questa opera di Foschini, Spaccarelli e Giobbe, merita tutta l’attenzione; per le attitudini che la ispirarono, per la realizzazione dei concetti architettonici proposti, per la nobile e succosa eleganza che la pervade.
PLINIO MARCONI

PADIGLIONI NUOVI ALLA FIERA DI MILANO

Da due anni i governatori di quest’attraente effimero paese dell’attività e dello scibile umano fan davvero sul serio. Edifici e padiglioni in muratura han quasi soppiantato ormai baracche e capanni: edifici e padiglioni che sempre offrono il tema più fantasioso agli architetti milanesi.
Larghi e comodissimi viali invogliano a bighellonare alla ricerca delle novità, molte sopratutto quest’anno, ma purtroppo non sempre ambientate nell’intricato arcipelago.
Ad ogni inaugurazione si scopron migliorie. E, se ci son pecche, codeste si debbono alla nascita, alla mancanza cioè di un piano regolatore iniziale. Perchè i primissimi anni della Fiera furon balbettii, e la Presidenza d’allora neppure sospettava di dover figgere lo sguardo tanto all’innanzi. Ora che si fa sul serio, e che tutti gli sviluppi dell’impresa sono diventati imponenti, il peccato originale appare e dura ostinatamente. Bisognava, allora, prevedere il di più e il dopo: essere, insomma, profeti e non timidi sacerdoti. N’avremmo avuto addirittura la spinta in luogo dell’inerzia e ci sarebbero stati risparmiati i peccati capitali delle prime Fiere: le baracche smontabili ed i padiglioncini regionali ad uso di rassegne artistiche paesane.
Ma tant’è: il coraggio l’ha, infine, avuto l’ingegnere Puricelli, ed a lui van le prime lodi. Postosi il problema del massimo incremento, stabilito il programma che va oltre l’effimera manifestazione di un sol anno, egli ha definito il piano dei lavori presenti e futuri, nel quadro generale. Un certo numero di architetti, che oggi a Milano van per la maggiore, vennero invitati a predisporre ciascuno un proprio padiglione: e i temi eran vari e fin troppo contenuti. Ma, almeno, ecco un gruppo di costruzioni che, ripartite nei bilanci annuali, finiranno a dar giusta forma alla città del traffico.
Delle principali novità di quest’anno appunto, quì vogliamo accennare.
Primo fra tutti, merita attenzione il padiglione maggiore, quello che subito venne definito il palazzo dalle cinque gallerie: complesso davvero imponente di navi entro cui stan raccolte le industrie casalinghe. È buona e sincera opera degli architetti Ottavio Cabiati e Alberto Alpago Novello. La planimetria è complessa nello svolgimento, e dà occasione di creare più d’una fronte monumentale, giacchè questo padiglione, purtroppo incastrato nell’arcipelago di minori edicole, deve affacciarsi come e dove può, insinuandosi con i bracci a presentar gli ingressi fra l’uno e l’altro spazio libero. Conseguenza postuma dei suaccennati errori iniziali d’impianto della Fiera.
Ma, tuttavia, Cabiati e Alpago son bene riusciti a dominare attorno con le fronti della loro cattedrale di ferro e cemento. Buone fronti di architettura classica e nobile, sempre signorile e sufficentemente originale pur nelle evidenti reminiscenze stilistiche dell’antichità. Mattoni e travertino son i quasi unici materiali usati all’esterno, dove soltanto le cornici superiori sono in cemento. Di marmo vennero fatte le colonne dell’esedra al principale accesso; tutta a vetri su armatura in ferro è la cupola che si eleva alla crocera delle gallerie. E codesta cupola, alta e semplicissima, è la parte migliore e più apprezzabile del signorile ed elegante padiglione.
L’architetto Giuseppe De Finetti ha avuto un compito diverso, e, d’altronde, non lontano da certe particolari preferenze che gli vengon unanimemente riconosciute: preparare l’eden della gastronomia. Ed egli ha cercato di risolvere il tema con la maggior semplicità ed uniformità di mezzi, nei materiali e nei ritmi. Purtroppo, ed è quanto subito appare a prima vista, De Finetti s’è lasciato prendere da un’unità di misura un poco falsa, un metro tanto modesto che ha alterato il valore delle aperture e sconcertato le masse. E, tuttavia, queste non mancano di equilibrio e di ricchezza nei movimenti. L’esterno è tutto contrasto di toni fra il travertino degli archi e delle cornici, ed il rosso intonaco intensissimo dei fondi. Dominano, e meritano davvero d’essere ricordate per la serena e quasi ieratica compostezza, quattro statue di vergini sagge che al sommo di quattro testate riassumono il significato della costruzione: statue della Signora Maryla Lednicka. L’interno del padiglione è, invece, malauguratamente male apprezzabile per colpa delle inevitate invasioni delle merci e delle scritte che ne soffocano la struttura.
Dagli alimentari non è lungo il cammino per giungere alla mostra degli agricoltori, apprestata sotto gli auspici della Confederazione Nazionale Fascista. L’architetto Arata s’è studiato qui, naturalmente, di rimanere nel campagnolo e nell’agreste. Movimentata è la planimetria di questo suo edificio; movimentati ancor più sono gli esterni, a logge, torrette, scalee, altane, campaniletti, porticati: roba, d’altronde, non tutta indispensabile e che a tutta prima fa girar quasi lo sguardo. Vedete il lato maggiore, e vi parrà la riproduzione d’un castelletto medioevale apprestato per l’ultimo quadro di un film: modiglioni in legno di pretto stampo teatrale, altane d’ispirazione romantica, portico alla bolognese del trecento. Son proprio, ahimè, tanti difetti che fan distogliere l’attenzione da certe trovate d’un valore innegabilmente più intrinseco. Girate l’un fianco, e vi apparirà il coraggioso motivo di un grande timpano triangolare che sovrasta il terrazzo; e, accanto, altri timpani minori che decoran la scala esterna. Buon seme, subito guasto dall’ammiccare di certe finestrelle allungate, a riseghe, viete e banali.
Altro padiglione recentissimo, e che deve essere catalogato fra i maggiori, han preparato i fratelli Adolfo e Aldo Zacchi per accogliere il nuovo mondo delle meraviglie elettriche. Il centro, verso il piazzale, è un’ampia esedra che abbraccia la scalea con abbondanza di motivi architettonici, colonnato, fontana, e arcate superiori a mascherare le strutture vitali. I fianchi, che si protendono lungo i viali, han motivi di archi ciechi e riquadri. E, indubbiamente, l’esterno di questo padiglione è assai meglio riuscito dell’interno; l’architettura vuole essere di un classico sapore, e intonarsi al gusto che, fra i moderni milanesi, pare debba giustamente prendere maggior piede: quell’architettura di un recente neoclassicismo che su questa Rivista abbiam sovente presentato. Ma, poi che i fratelli Zacchi han preferito sin quì battere strade diverse e fra le più eclettiche - la casa in barocchino settecentesco, la villa in medioevale o in rinascimento lombardi - codesto nuovissimo e per loro insolito saggio di gusto stilistico si rivela acerbo e poco sincero, in talune parti esuberante, in tant’altre praticamente mal riuscito. Ma il saggio è oltremodo significativo e sempre notevole.
Piero Portaluppi, l’architetto aulico delle sfere ufficiali, presenta quest'anno due novità: un padiglione per la Società Pirelli, ed un secondo per il Consorzio Nazionale dei Petroli. Il padiglione Pirelli è certo il meglio studiato e curato, sviluppantesi attorno ad una sala centrale rotonda, coperta da cupola a lucernario. Chiaro nell’aspetto, purtroppo non lo è altrettanto nella composizione degli elementi architettonici, che, sulle varie fronti, si allacciano e si compenetrano senza troppo intima risoluzione. E ciò toglie armonia all’inesieme, nè riesce a recargli il desiderato contributo di serena espressione. Si intuisce che ottimi elementi dovevan essere in possesso dell’architetto fin dal principio; ma poi si son alterati per via. Specie la gravità della cornice a timpani è di danno all’assieme.
Il secondo padiglione Portaluppi ha una trovata davvero geniale che ne costituisce il nucleo: una poderosa incastellatura in legname, quasi una torre da pozzo petrolifero, si eleva altissima e ardita sopra un cubo di legno. E la torre è in verità molto simpatica, mentre non può dirsi altrettanto delle parti basse della costruzione: sopratutto taluni particolari, come le fiamme dorate, son di gusto assai dubbio e vieto, e distolgono l’attenzione da quanto avrebbe ben preferito restare in miglior vista.
Vicinissima, ecco dominare la massa alta e robusta dell’edificio studiato dall’architetto Mario Faravelli per la SHELL. Una piccola esedra dà accesso alla sala centrale, cui sovrasta, assai elevato, il lucernario; e dalla sala si dipartono a raggiera gli ambienti laterali minori che, all’esterno seguono l’andamento delle strade. Sobrietà di architettura ottenuta con mezzi semplici, forse fin troppo uniformi. Rapporto di masse un poco squilibrato - la costruzione alta ha un metro di tanto maggiore di quello usato invece per le ali basse - ma tuttavia buoni propositi e felice effetti. L’interno della sala centrale può ben essere additato fra le architetture più eleganti e riuscite della Fiera milanese.
Un padiglione di modeste proporzioni ha creato l’architetto Greppi per l’Irpinia. Ed è, codesta, la fabbrica dei triangoli, perchè la fantasia qui ne assomma e ne distribuisce, utili ed inutili, a dismisura. Perfino la pensilina sporgente e la scalea d’invito son aguzze, e non troppo a proposito. Le colonne ai lati han preferito abbandonare qualsiasi forma di capitelli per sostituirli con delle sfere, così che l’impressione è eccessivamente meccanica. L’unica sala che, con sporgenze all’ingiro, ne costituisce l’interno, è pur essa sotto la protezione degli immancabili triangoli; ed un miracolo di triangolazione può essere definito il lucernario a cupola poliedrica che lo copre: elemento indubbiamente migliore e non inelegante della capricciosa costruzione.
Due giovanissimi architetti, Larco e Rava (1), han apprestato un padiglione per l’Istituto Coloniale Fascista, dove la lineare semplicità della moderna costruzione di sapore africano, a cubi e speronature ed absidi candidi, è appena interrotta, ai lati del portale, da certe larghissime lesene scanellate, in buon marmo. L’insieme di questo esterno può dirsi ben riuscito: men chiaro, e, invero di gusto poco raffinato, l’interno e la sistemazione della meschina ed inutile scaletta. Irriverente addirittura la figurazione del magno Settimio Severo che, da una nicchia della fronte maggiore, vorrebbe consacrare, in materia vile e in posa poco imperiale, il suo gran sogno libico.
Infine, fra le altre novità di quest’anno, attira l’attenzione la semplice ma simpatica mostra del “Popolo d’Italia”, preparata dall’architetto Muzio e da Mario Sironi. Nè va dimenticata l’edicola che gli architetti Ponti e Lancia idearono per ospitare le ceramiche Richard Ginori, nel centro del gran padiglione dalle cinque gallerie: edicola ricca di movenze e di trovate pur nella veste semplicissima e sobria. F. R.

(1) Le illustrazioni di questo lavoro sono nell’articolo seguente.

DUE LAVORI DI C. E. RAVA E S. LARCO

CASA SOLARI IN S. MARGHERITA LIGURE

La Casa Solari in S. Margherita Ligure è stata costruita nel 1928. La pianta non dimostra alcuna ricerca nella distribuzione di ambienti. La facciata invece è ben tagliata e serena. Il rapporto tra i due piani inferiori triti e compositi e la nudità alta del piano superiore, risolve efficacemente il difficile problema estetico della casetta a molte finestre.
I piloncini dell’ammezzato potevano essere diversi, e non rammentare troppo le superfici ondulate del padiglione austriaco all’esposizione di Parigi del 1925.
A parte queste mende, la palazzina è moderna e abbastanza italiana.

PADIGLIONE PER COLONIE PER
LA FIERA-ESPOSIZIONE DI MILANO

I due giovani architetti milanesi vinsero l’anno scorso il concorso nazionale per il Padiglione delle Colonie per la Fiera-Esposizione di Milano del 1928. Il piccolo edificio è terminato, e si è inaugurato in questi giorni.
È sodo, nitido, schematico. Belle luci ritagliate nella materia bianca, liscia e nuda.
È coloniale, senza essere nè arabo nè turco. La cupola della sala centrale è genialmente trovata, acutamente caratteristica.
MARCELLO PIACENTINI

SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI

PAGINE DI VITA SINDACALE

CONCORSO PER CASE POPOLARI IN MILANO

L’Istituto per le Case popolari di Milano bandisce un concorso fra gli ingegneri e gli architetti italiani per il progetto di un gruppo di case popolari da costruirsi in Milano sull’area in fregio al Viale delle Argonne. I progetti dovranno essere presentati entro il 30 settembre c.a. alla sede dell’Istituto, corredati dei documenti comprovanti la qualità di ingegnere o di architetto del concorrente e di tutti gli altri allegati prescritti dal bando (preventivo di spesa, planimetrie, prospetti, ecc.). Sono stabiliti cinque premi in contanti: il primo di trentamila, il secondo di ventimila e gli altri di cinquemila lire cadauno.
La Giuria sarà composta dal Presidente dell’Istituto e di altri sette membri di cui quattro nominati dal Consiglio dell’Istituto stesso, uno dal Comune di Milano, uno dal Sindacato fascista ingegneri e uno dal Sindacato fascista architetti di Milano. Il bando del concorso con le norme dettagliate può essere ritirato alla sede dell’Istituto per le Case popolari in via Cesare Battisti oppure presso il Sindacato fascista ingegneri e il Sindacato fascista architetti di Milano.

CONCORSO PER UN PROGETTO
DI UN SANATORIO PER TUBERCOLOTICI IN BARI

Il Consorzio Provinciale Antitubercolare Vittorio Emanuele III in Bari, indice un concorso col seguente bando:
È aperto un concorso fra i tecnici italiani, iscritti negli albi professionali, per la redazione del progetto di un Sanatorio per tubercolotici, della capacità di 300 ammalati in due sezioni di 150 uomini e 150 donne nettamente separate, oltre il personale sanitario, d’infermeria e di servizio.
Ciascuna delle due sezioni - uomini e donne - avrà cucina e refettorio separato. Ogni sezione sarà costituita da due padiglioni di 75 letti ciascuno che potranno avere la cucina in comune.
Detto Sanatorio dovrà sorgere nel fondo denominato S. Michele, di proprietà del Consorzio, in agro di Putignano, della estensione di circa ettari 45, comprensivo un gran fabbricato, da utilizzare per i bisogni del Sanatorio, in relazione ai particolari criteri che saranno determinati dai concorrenti.
Al vincitore del concorso sarà attribuito il premio di 50.000 lire, pagabili con le seguenti modalità:
a) lire 20.000 per il progetto di massima subito dopo che la Commissione giudicatrice avrà emesso il suno giudizio.
Saranno inoltre attribuiti due premi di rispettive lire 10.000 e lire 5.000 agli autori dei progetti di massima che risulteranno secondo e terzo graduato.
b) lire 30.000 dopo che l’autore del progetto di massima prescelto lo avrà trasformato in progetto definitivo, corredandolo di tutti gli allegati prescritti e degli altri elementi necessari ed utili, non solo agli effetti del preventivo della spesa e per la formazione del piano completo finanziario dell’opera, ma altresì per quanto riflette l’appalto di costruzione dei lavori del Sanatorio.
A tale scopo sarà obbligo del vincitore del concorso di apportare ai progetti di massima e di dettaglio nel termine che sarà assegnato, e senza alcun compenso, le modificazioni, variazioni e aggiunte che fossero suggerite o imposte sia dalla Commissione giudicatrice, sia in dipendenza dell’approvazione di esso da parte dell’autorità tutoria, dagli organi tecnici competenti.
I progetti, tanto di massima che definitivo, devono essere redatti in conformità delle norme del Regolamento approvato con Decreto del Ministero dei LL. PP. 29 maggio 1893.
Il termine assegnato ai concorrenti per la presentazione del progetto di massima, scade alle ore 12 del 15 settembre 1928 (Anno VI), i progetti dovranno essere consegnati o pervenire all’Ufficio del Consorzio, in Bari, sito in Via Melo, 132, non più tardi del giorno e dell’ora innanzi indicati, a cura e spese di ciascun concorrente. Devono essere contenuti in piego chiuso, contrassegnato da un motto, il quale dovrà essere ripetuto sopra una busta parimenti chiusa e suggellata, contenente il nome dell’autore e il suo recapito.
La omissione anche di uno solo dei documenti di progetto descritti porterà alla esclusione del concorso.
All’autore del progetto, che sarà prescelto dalla Commissione esaminatrice, verrà assegnato un ulteriore termine di quattro mesi, decorrenti dal giorno della comunicazione del giudizio della Commissione giudicatrice, per la redazione e consegna del progetto definitivo, redatto come innanzi stabilito.
Tanto il progetto di massima prescelto e il relativo progetto definitivo quanto il secondo e il terzo graduato dovranno essere firmati dall’autore e resteranno di esclusiva proprietà del Consorzio.
È in facoltà del Consorzio di affidare senza impegno, al vincitore del concorso la direzione dei lavori progettati dietro corresponzione di un compenso nella misura del 2% sul consuntivo netto dei lavori. La Direzione dei lavori resterà subordinata alle norme del Regolamento 25 maggio 1894 N. 350 e alle altre disposizioni che possano avere attinenze vigenti per il servizio del Genio Civile.
Qualora il vincitore del concorso non presentasse il progetto definitivo nei modi e termini innanzi detti, il Consorzio si riterrà libero di far sviluppare il progetto di massima affidandone l’incarico a tecnici di sua fiducia restando con ciò esonerato da ogni obbligo verso il vincitore del concorso.
Ai concorrenti, che ne facciano richiesta, il Consorzio fornirà la pianta del fondo, nel quale sorgerà il Sanatorio, con le principali quote di livello, alla scala di uno a 2000, nonchè i disegni pianimetrici dei fabbricati esistenti nelle loro linee di confine e alla scala di 1 a 100. Ogni altro rilievo e studio di dettaglio resta a cura e spese del concorrente.
I progetti saranno esaminati e giudicati da apposita Commissione del Consorzio, e composta di due tecnici e due sanitari nominati dal Commissario predetto.
Il giudizio espresso dalla Commissione esaminatrice rimane insindacabile e inappellabile.
I progetti non prescelti potranno essere ritirati a cura e spese degli interessati entro un mese dalla chiusura del concorso, elasso il quale termine cessa ogni responsabilità del Consorzio per quanto riflette la custodia dei progetti inviati al concorso.
Bari, 30 maggio 1928 (Anno VI).
Il Commissario aggiunto
PROF. DOTT. EDOARDO GERMANO
Il Segretario
SCATOGNA PIETRO

Detto bando è formulato in modo poco chiaro, anzi ambiguo, specialmente laddove lascia credere che ad esso possano prender parte non soltanto gli Architetti e gli Ingegneri il cui titolo è riconosciuto dalla legge, ma “tutti i tecnici Italiani” senza ulteriore specificazione.
Si avverte quindi che le Segreterie Generali del Sindacati degli Architetti e degli Ingegneri stanno facendo pratiche per apportare a detto bando le modifiche ritenute opportune.
N. D. R.

L’INSEDIAMENTO DEL NUOVO DIRETTORIO
DELLE BIENNALI D’ARTE DECORATIVA DI MONZA

Il nuovo Direttorio delle Mostre Internazionali d’Arte Decorativa di Monza, composta dagli arch. ALPAGO NOVELLO e GIO PONTI, dal pittore MARIO S1RONI e da CARLO A. FELICE, Segretario del Direttorio stesso e Direttore del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, è stato insediato ieri, a Palazzo Marino, dal Podestà on. Belloni, Presidente del CAMMU.
Il Direttorio ha subito tracciato le linee essenziali del programma della IV Biennale, che sarà pubblicato entro brevissimo tempo e nel quale saranno nettamente indicati i nuovi criteri di organizzazione della Mostra, alla quale si intende conferire il massimo rilievo e grande autorità. Essa oltre a consacrare le conquiste fin qui conseguite dall’arte moderna presso di noi e all’estero, dovrà imprimere un deciso impulso alla produzione nazionale, al suo progressivo metodico miglioramento ed alla sua sempre più larga affermazione sui mercati stranieri.
Al termine della seduta sono stati inviati i seguenti telegrammi al Duce:

“Insediando Direttorio della Biennale Arte Decorativa Monza nostro pensiero rivolgesi alla E. V. propulsore del rinnovamento di ogni attività nazionale, nella volontà che una nuova affermazione dell’arte moderna e del lavoro italiani aggiungasi alle realizzazioni vittoriose del Governo Nazionale”.
Presidente Consorzio Milano-Monza-Umanitaria
Podestà BELLONI.

“Direttorio Biennali Arti Decorative Monza iniziando lavori, invia a V. E. rinnovatore energie spirituali italiane la espressione della propria profonda devozione ed esprime il proposito che l’importante manifestazione della prossima Mostra consacri definitivamente la vittoriosa fascista ascensione della moderna arte nazionale”.
ALPAGO, PONTI, SIRONI, FELICE.

INSEDIAMENTO DEL DIRETTORIO
DEL SINDACATO ARCHITETTI DELLA TOSCANA

Il 23 giugno u. s. il Segretario Nazionale dei Sindacati degli Architetti Alberto Calza-Bini si è recato a Firenze in occasione della designazione del Direttorio e del Segretario del Sindacati per la Toscana.
Furono felicemente risolte le difficoltà che si opponevano ad un accordo, cosicchè anche il Sindacato Toscano stà per essere inquadrato ordinatamente.
Daremo notizia delle avvenute elezioni.

NUOVI ACCADEMICI DI S. LUCA

Nell’ultima tornata della Regia Insigne Accademia di S. Luca, sono stati insediati gli eminenti camerati architetti Cesare Bazzani, Alberto Calza-Bini e Vincenzo Fasolo.

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