FASCICOLO VIII - APRILE 1928
PAOLO MEZZANOTTE : Luigi Cagnola, architetto, con 26 illustrazioni

LUIGI CAGNOLA - ARCHITETTO

La maestosa villa nota sotto il nome di Rotonda d’Inverigo, che il Marchese Cagnola, (fortuna negata alla maggior parte degli artisti) si potè costruire secondo i canoni dell’arte sua nell’ultimo periodo della sua carriera operosa, racchiude ancora, ben conservato ed egregiamente custodito, il prezioso archivio che il celebre architetto vi raccolse or è quasi un secolo.
La cortesia dei Conti De Pange, proprietari attuali della Rotonda, mi ha concesso di esplorare un tanto ricco materiale di studio, in gran parte inedito. E poichè oggi l’attenzione degli artisti come degli studiosi è di nuovo richiamato verso quel fecondo periodo d’arte, al quale è facile negare potenza di originalità e varietà di fantasia, ma non disconoscere una sicura e maestosa unità d’indirizzo, non sarà senza interesse rievocare, attraverso i documenti del tempo, la memoria di quegli che fu dell’architettura neoclassica nella capitale lombarda l’assertore più autorevole e il più fortunato cultore.
A Milano dal 1769 dominava nella edilizia il folignate Piermarini, che, dopo aver data al vecchio palazzo Regio-ducale una severa veste classica di compassata eleganza, aveva con miglior fantasia eretto il teatro della Scala, e la grandiosa Villa Reale di Monza, riformato il corso di Porta Orientale, sistemata piazza Fontana e la via di Santa Radegonda, e insieme col ticinese Cantoni, l’italo-austriaco Pollak, il Lonati e qualche altro, aveva svolto tutto un ciclo di costruzioni private di classico carattere; sicchè all’aspetto prevalentemente secentesco delle vie di Milano, qua e là variate dagli svolazzi e dagli stucchi del primo settecento, si sovrapponevano le forme corrette e un poco rigide del rinnovamento classico.
Ma all’apparire delle armate francesi il Piermarini, forse troppo compromesso coi dominatori austriaci, e già vecchio, si apparta nella nativa Foligno e l’egemonia dell’architettura presto passa al giovane Cagnola.
Nato nel 1762 da illustre famiglia del patriziato lombardo, destinato per tradizione alla carriera diplomatica, Luigi Cagnola compiva i primi suoi studi a Roma nel collegio Clementino, quando, preso dal fervore allora così diffuso nella capitale pontificia per gli studi archeologici, volle destinare le ore d’ozio allo studio dell’architettura, a cui attese sotto la disciplina di tal professor Tarquini, che, assistendolo nel rilievo degli antichi monumenti, gli additava come “unici precettori” Vitruvio e Palladio. Laureatosi poi in giurisprudenza a Padova e subito insignito, per virtù del nome che portava, di pubbliche cariche dal governo austriaco, trovava modo fra i molteplici impegni di coltivare gli studi preferiti.
Data da allora un suo primo esperimento d’arte, quando osò cimentarsi col Piermarini per la sistemazione della barriera di Porta Orientale, ch’egli risolveva con un arco di trionfo. Prevalse il disegno del Piermarini, allora all’apice delle sue fortune, ma non ebbe seguito per il crollo del governo austriaco. Vedremo più tardi ritornare il Cagnola sullo stesso tema, con analoghe proposte ma senza successo. Uomo di mondo e frequentatore, come si addiceva ai suoi natali, della migliore Società, il Cagnola, secondo si narra, ebbe a sostenere una sera in una discussione accesasi in un palco del Teatro della Scala, la possibilità di “condurre un ben distribuito casino in un triangolo equilatero”, e portò la sera poi alla Scala un suo disegno, dove il quesito era, a quel che parve, ingegnosamente risolto. Il disegno esiste ancora nell’archivio della Rotonda; se anche intrinsecamente di scarso valore, è interessante come primo saggio che gli valse notorietà, assai meglio certamente dei rilievi, di ben altro valore reale, ch’egli andava nello stesso tempo eseguendo delle antiche tracce Romane allora esistenti ed ancor visibili attorno a San Lorenzo. Questi rilievi, troppo trascurati e ignorati, benchè pubblicati allora nel primo volume delle “Antichità longobardo-milanesi” del padre Fumagalli, dovrebbero essere attentamente considerati nella occasione delle demolizioni che si vogliono fare prossimamente nella storica località e servir di base a sistematiche ricerche, atte a chiarire il mistero che è ancora fitto intorno alle origini del celebre tempio e del maestoso colonnato romano.
Il giovane gentiluomo si trovava frattanto in contrasto col pregiudizio spagnolesco dei patrizi, che vedevano di mal occhio uno dei loro dedicarsi, come dicevano, ad “un’arte da capomastro”. Firmava i suoi disegni “dilettante d’architettura” per significare, probabilmente, che da quella professione avversata dall’aristocrazia, non intendeva ottenere lucri o vantaggi d’alcuna specie.
Dopo la morte del padre, avvenuta negli ultimi anni della dominazione austriaca, ebbe dal governo nuove cariche, e fra l’altra quella di Commissario presso gli eserciti: sicchè, seguita la disfatta di questo, gli convenne ricoverarsi a Venezia, dove, rinunciando ad ogni pericoloso onore, si diede allo studio del Sansovino e del Palladio: presto conciliatosi col nuovo ordine di cose, fece ritorno in Milano, ove, abbandonata ogni altra preoccupazione, trovò modo finalmente, già maturo di anni, di misurare nel campo della pratica le sue non comuni doti d’artista e di tradurre in pietra alcuna delle sue immaginazioni fantasiose.
A Vajano, in quel di Crema, costruì una villa per la famiglia Zurla e poi nelle vicinanze di Orzinovi provvide al restauro e alla ricostruzione di case danneggiate dal terremoto del 1802: fu la prima volta che esperimentò le difficoltà del costruire. Maggior nome ebbe a Milano per gli apparati grandiosi, da lui eretti come usavano allora in occasione di feste; così per l’incoronazione di Napoleone; per le nozze dell’imperatore con Maria Luigia d’Austria eresse nei giardini pubblici un arco di trionfo e per la nascita del Re di Roma una altissima colonna simile alla Trajana sul corso di Porta Orientale.
Una parentesi nell’opera del Cagnola tutta applicata alla risurrezione delle forme classiche, è data dai progetti ch’egli fece per il compimento della facciata del Duomo, voluta da Napoleone, in uno stile spoglio e insipido, quale poteva nascere nel suo tempo dalla interpretazione del gotico: sicchè non so dolermi, se fu preferito quell’ibrido pasticcio ideato dal Zanoja e dall’Amati, che ebbe almeno il merito di rispettare gli stupendi portali del Pellegrini e la zona basilare secentesca.
Fu solo nel 1806 che il Cagnola ebbe campo di cimentarsi nell’opera sua più grandiosa, che gli valse onori e fama duratura. Il Consiglio di Città, di cui il Marchese faceva parte, nella occasione delle nozze di Eugenio di Beauharnais e di Amalia di Baviera, gli diede incarico un’altra volta di erigere un grandioso arco temporaneo, di gesso e tela all’ingresso di Porta Orientale.
Fu una ripetizione meglio elaborata e in dimensioni maggiori, dell’arco che il Cagnola aveva già disegnato per le nozze di Napoleone: ma tanto piacque per la imponenza delle masse e la snella eleganza dell’ordine corinzio, che la Comunità risolse di tradurlo in materiale nobile e duraturo a celebrazione delle glorie Napoleoniche, sullo sfondo della Piazza d’armi e all’imbocco del viale del Sempione.
Alla esecuzione della maestosa mole si pose mano senza indugio: lo stesso Cagnola, col concorso di un suo fidato capomastro, certo Bignetti, cercò e scoprì nelle montagne dell’Ossola il bel marmo di Crevola elegantemente variegato di bruno chiaro e di grigio azzurrino, di poco inferiore per compattezza e resistensa ai geli allo stesso marmo del Duomo.
Alla caduta della potenza Napoleonica, il monumento era compiuto fino alla imposta degli archi minori: già il Thorwaldsen aveva compito buona parte degli altorilievi, celebranti le gesta imperiali, poi ricoverati alla Villa Sommariva sul lago di Como. Il nuovo Governo, accogliendo un’accorta proposta del Consiglio di Città, ordinò la continuazione delle opere, purchè mutati i soggetti delle scolture e capovolto il significato delle scritte, l’arco celebrasse “la pace universale da tanto tempo da tutti i popoli desiderata e finalmente conseguita mercè della formidabile unione degli eserciti della Maestà sua alla possanza de’ fidi e magnanimi alleati”. Stanchi di guerre sanguinosamente combattute per le fortune altrui, i Milanesi accettarono senza entusiasmo ma anche senza ripugnanza, il nuovo idolo, la Pace, sul piedestallo della Gloria. Le opere furono riprese nel ’26, e il monumento, con pomposa epigrafe dedicata a Francesco I “pacis adsertori” fu inaugurato nel ’38 dal successore Ferdinando I.
Simile sorte ebbero pure i grandiosi propilei contemporaneamente eretti dallo stesso Cagnola a Porta Ticinese, mentre senza simboli, senza epigrafi, rimase l’arco gentile di Porta Nuova, preziosamente lavorato, quasi a cesello, in materiale sgraziatamente vile; opera squisita dell’abate Architetto Zanoja; che per incuria d’uomini e fragilità del materiale va oggi rapidamente dissolvendosi ai rigori di queste ultime aspre stagioni invernali.
Educato alle vaste concezioni in riflesso alle ambizioni smisurate dell’eroe Corso, il marchese Cagnola mal si adattava alle ordinazioni private, ostacolate dal costo: così non ebbero esecuzione i suoi progetti per il palazzo Arese e poi per il palazzo Saporiti, eseguiti poi su altro disegno da altri architetti. Nè miglior sorte ebbe il suo elegante disegno per un palazzo da erigersi nei giardini pubblici: o quello per un edificio, a foggia di tempio, senza precisione di significato, da erigersi sul Naviglio a Porta Nuova; o, più importante di tutti, il progetto di commissione della Imperatrice Giuseppina per un casino, di grandiose dimensioni da erigersi alla Malmaison.
I rivolgimenti politici tolsero al Cagnola di veder tradotto in atto un suo importantissimo disegno di monumento-ospizio che per volere di Napoleone doveva sorgere al giogo del Cenisio: un edificio colossale, assiso sopra una foresta di centoquarantaquattro colonne, che doveva forse auspicare quella più intima unione fra le due nazioni latine, di cui Napoleone, troppo tardi, doveva riconoscere la necessità. Il progetto era stato esplitamente approvato da Napoleone, la vigilia del crollo della sua potenza, durante la prima fase della campagna di Russia.
Al ritorno degli Austriaci, l’Architetto di Napoleone, come tanti artisti del tempo, si fu presto e senza difficoltà riconciliato coi padroni di prima. È questa la pagina meno simpatica della sua laboriosa e utile esistenza. Per amplificare i meriti dell’artista o scusarne le debolezze non si vuole alterare la storia. Dobbiamo d’altra parte a questa sua scarsa coerenza politica se monumenti dell’importanza dell’arco del Sempione ebbero il loro compimento e se l’arte del Cagnola proseguì il suo corso, senza ostacoli e senza interruzioni.
Dal governo Austriaco, interessatamente generoso con chi si piegava alla sua volontà, ebbe appoggi ed onori; fu Ciambellano di Francesco I e ne ebbe le decorazioni dell’ordine della corona di ferro. Fu chiamato a Vienna e gli fu affidato lo studio per la riforma e l’ampliamento del palazzo imperiale e per una grandiosa porta di quella città: di quest’ultima aveva già gettato le fondamenta, quando, richiamato in Italia, dovè abbandonare i lavori che ebbero poi prosecuzione con altro disegno di architetti del luogo. Il Principe di Metternich lo incaricò del progetto per la cappella sepolcrale di sua famiglia: ma anche questo progetto non mi risulta abbia avuto esecuzione. Nel ’25, per festeggiare l’ingresso solenne dell’Imperatore Francesco I, immaginò e costruì di gesso e tela un arco trionfale a Porta Orientale: ma il prestigio dell’arte sua doveva volgere al tramonto, se per l’esecuzione in viva pietra gli veniva preferito il progetto di barriera fiancheggiato da edicole, insipido quanto costoso, ideato e costruito dall’Architetto Rodolfo Vantini di Brescia. Il progetto del Cagnola trovò tuttavia ammiratori ferventi, tanto che un facoltoso cittadino milanese, Giovanni Peccis, offerse a sue spese di tradurlo in bronzo: morto anzi tempo il Peccis, l’opera venne continuata dalla Biblioteca Ambrosiana che provvide a dorare i bronzi con ingente spesa e li conserva tuttora nelle sue sale.
Più modesto è l’elenco delle opere a cui il marchese Cagnola dopo il 1815 potè dare esecuzione. Se nell’epoca Napoleonica l’architettura è quasi esclusivamente civile, ritorna nel periodo della restaurazione prevalentemente religiosa. Così fu delle opere, che il Cagnola potè condurre a termine in quell’ultimo periodo di sua carriera: l’austera e suggestiva Cappella di Santa Marcellina in S. Ambrogio, la Chiesa di Concorrezzo, il Campanile a più ordini e coronato da cariatidi in Urgnano (nella provincia di Bergamo), il tempio a foggia di rotonda di Ghisalba, il tabernacolo di bronzo nella chiesa delle Signore della Guastalla.
È del Cagnola la sistemazione interna del Casino dei Nobili, oggi sede della Società “la Patriottica”. Ultima sua opera notevolissima, la villa maestosa, da lui eretta verso il 1830 sui colli d’Inverigo; libera manifestazione di quanto egli poteva nell’arte sua, nella quale profuse gran parte del suo cospicuo patrimonio.
Tenace non meno che orgoglioso, l’aristocratico architetto non amava sottostare ai consigli altrui, e si ribellava alle non sempre opportune direttive dei committenti; soleva attribuire il risultato dei suoi lavori alla indipendenza in cui gli era riuscito di operare, in grazia anche dell’alta sua posizione sociale, senza importuni interventi o fastidiose collaborazioni di intenditori o di colleghi.
Vegeto e operoso in tarda età, si spegneva colpito di apoplessia il 14 agosto 1844 di ben ottantadue anni.

Nel quadro generale dell’architettura del suo tempo, l’opera del Cagnola spicca indubbiamente in primo piano. Nel Milanese l’architettura neoclassica si svolge in tre tappe rispondenti a tre momenti politici. La prima dal 1770 circa alla fine del secolo, quando sotto l’influsso del Piermarini e del gruppo d’artisti raggruppati intorno all’Accademia di Brera, si abbandonano le forme del barocco pur senza compiuta rinuncia a tutta intera l’eredità artistica del recente passato. Segue il periodo Napoleonico, quando, chiamata ad esprimere la potenza imperiale e divenuta mezzo di governo, l’architettura si fa anche più corretta e severa, ma sembra irrigidirsi nella ricerca di pure forme classiche, e la personalità dell’artista, fatta ancella di una superiore volontà dominatrice, si riduce e si cela dietro aridi schemi di derivazione greco-romana. Infine è il periodo della restaurazione; continua nella capitale spodestata del regno italico, più per inerzia, che in virtù di preordinati programmi, l’indirizzo d’arte a cui l’età precedente aveva dato impulso così vigoroso; il pensiero romantico contribuisce a conferirgli dapprima qualche varietà di atteggiamenti, qualche maggiore libertà nella interpretazione degli antichi: riappare il neoclassico negli edifici religiosi, ma presto qui immiserisce per l’indebolirsi del prestigio e della ricchezza della chiesa cattolica: e lo vediamo presto, verso il quaranta, cedere terreno lentamente, a gradi, al sopravvenire incomposto e al prevalere di nuove effimere tendenze, della inconsulta imitazione di stili del passato o di formule esotiche estranee al nostro temperamento e ai nostri climi.
Il marchese Cagnola combatte le sue prime battaglie al tramontare del primo periodo, si afferma vigorosamente nel secondo, continua la sua attività per tutto il terzo, pur rimanendo, anche sotto il dominio austriaco, il più genuino e tipico esponente delle tendenze dell’età Napoleonica.
In alcuno dei suoi primi disegni (così nel suo disegno di villa per la marchesa Litta) sono ancora reminiscenze di quel pittoresco barocco delle “Case di delizia” lombarde, che, iniziato dal romano Ruggeri e illustrato dal Da Re, aveva posto così salde radici nelle nostre terre. Ma subito il Cagnola si ricompone nella severa disciplina dell’antico, appresa nei pazienti rilievi dei ruderi romani, o attinta alla lettura degli autori classici e dei teorici contemporanei, dal Milizia al Desgodetz.
Caratteristico del Cagnola fu quel “veder grande” che la facile critica dei contemporanei motteggiava per megalomania, ma che pure rispondeva mirabilmente allo spirito eroico del tempo: la ricerca di grandi masse ariose e semplici, mentre il particolare, pur curato spesso con somma diligenza, raramente palesa quella squisitezza di profili che è più facile trovare in alcun suo men noto contemporaneo, quale l’abate Zanoja o il Crivelli, architetto questo ultimo del raffinato casino Belgiojoso, destinato alla distruzione per dar luogo ad uno dei soliti, inconsulti, rimaneggiamenti edilizi.
La produzione del Cagnola, dopo qualche primo incerto tentativo, è tutta, per oltre un quarantennio, di una tranquilla unità, che arriva ad escludere quella varietà di ispirazione di cui aveva pur saputo dar prova qualche altro architetto del tempo; quale Simone Cantoni, autore ad un tempo della pittoresca Villa dell’Olmo, della ridente fronte di casa Mellerio e dell’austero palazzo Serbelloni.
Dopo un periodo di fantasia senza limiti e di massima esuberanza decorativa, l’indirizzo classicista, che pure attinge alle medesime fonti delle svariate architetture raggruppate col nome di barocco, è per i suoi più ascoltati banditori, voluta limitazione di ornato, è selezione severa di forme e di elementi. Il Milizia è esplicito a questo riguardo: “Dovunque si rivolga lo sguardo, si vede la nostra architettura peccare sempre per eccesso di ornamenti, ma mai per difetto. Non abbiamo mai voluto comprendere che gli ornati han da nascere dal necessario, che debbano essere significanti...” e l’Albertolli, così devoto all’antico, condannava anche nei suoi maestri le fantasiose decorazioni a prospettive e colori di cui gli scavi di Pompei offrivano abbondanza di esempi. Si rinuncia volentieri anche ad una parte dei motivi del più corretto cinquecento: la stessa sovrapposizione degli ordini, usata dagli antichi e largamente applicata nel rinascimento, è raramente applicata nel primo ottocento; il Cagnola in ispecie vi ricorre in raro caso, come nel campanile di Urgnano; preferisce l’ordine colossale esteso a tutta l’altezza delle fronti, o la nudità delle pareti, appena rilevate da bugne o traversate dai vuoti di porte e finestre.
Il Palladio fu il vero grande maestro del Cagnola. La sua influenza predominante su tutti gli architetti contemporanei, in Italia e fuori, è palese anche in quella che credo la più perfetta, la più impeccabile opera del marchese architetto: i maestosi propilei di Porta Ticinese. Dall’estrema semplicità dell’ordine, dalla severità dei profili, dall’armonico ritmare delle colonne gigantesche, formate da grossi rocchi di granito di Baveno, il monumento deriva un aspetto austero e maschio così da reggere al pericoloso paragone delle vicine colonne Romane e della grandiosa cupola di San Lorenzo. Il partito architettonico, particolarmente nella soluzione del fianco, dove un’arcata su alti piedritti sormonta un arco ribassato che dà passaggio al Naviglio, è indubbiamente suggerito dai loggiati della Rotonda di Vicenza; ma quel che nella volta Palladiana era motivo secondario e subordinato, è qui svolto con sapiente accorgimento ed ha una sua originale espressione di forza trionfale, che male si accorda colle parole di pace scritte in lettere di bronzo nel fregio, in sostituzione di ben altre, dopo la caduta del Bonaparte.
La villa d’Inverigo, fra tutta la produzione del Cagnola, merita particolare considerazione perchè, eretta da lui secondo il suo solo criterio, senza vincoli di direttiva altrui, rappresenta in certo modo il suo testamento artistico, l’espressione ultima del suo ingegno maturo.
Maestosamente assisa fra i cipressi e i pini italici sulle balze collinose d’Inverigo, la grande villa scandisce una nota di austera romanità nell’armonia ridende del paesaggio brianteo.
Delle accidentalità dell’altura, della vicinanza del pittoresco villaggio e delle mura vetuste del castello dei Crivelli, il Cagnola si vale con abile artificio, giungendo a creare sul bel colle un paesaggio intonato e riposante, classicamente sereno, vario d’aspetti e di scorci prospettici. Eppure, benchè vasta e grandiosa, la villa d’Inverigo appare quasi una riduzione del progetto per il casino della Malmaison: come in quello, lo spunto procede dalle Ville Palladiane e più precisamente dalla solita rotonda di Vicenza. Simile è la disposizione generale: le sale in due piani sopra uno terreno di servizio, raggruppate attorno ad un salone centrale a pianta circolare, forse eccessivamente alto, che soverchia con alta cupola i piani sovrapposti.
Se l’interno riesce un poco arido e freddo, non animato da particolari trovate architettoniche e privo com’è di quella suppellettile e di quella decorazione che pure i tempi sapevano produrre elegante e raffinata, l’esterno sfoggia una fantasia inusitata e una abbondanza di motivi mai prima spiegata dal Cagnola.
La fronte verso i monti è fortemente chiaroscurata con un portico architravato, fiancheggiato da due ali di colonnato, nelle gigantesche dimensioni care al Cagnola.
Al lato opposto, verso il piano, l’occhio riposa sopra una vasta parete a bugne, poco gradevolmente sormontata dal troppo alto tamburo della cupola; al di sotto s’avanza una terrazza sostenuta da cariatidi giganti scolpite dal Marchesi. La fiancheggiano per buon tratto del colle altre estese terrazze traforate da nicchioni, alle quali si salda il muro di cinta, variato da cancelli, pilastrate, portali. Di questi il principale verso ponente, a foggia d’arco, fu abbattuto dal ciclone che devastò la regione nel 1908, nè venne più rialzato. È curioso notare il carattere egizio delle porte del giardino, nè mancano riminiscenze dello stile dei Faraoni in altri particolari anche importanti, quale la terrazza a cariatidi o la cripta a piano di terra.
C’è in tutto questo indubbiamente dell’eccessivo e del retorico, non c’è proporzione fra l’aspetto esteriore, solenne, quasi di tempio pagano, e l’interno ch’è di villa sia pure principesca, ma villa; manca insomma quel giusto rapporto fra il carattere esterno dell’edificio e la sua destinazione, quale si avverte, per rifarci un’altra volta al maestro dei maestri, nel Palladio: ma coi suoi pregi singolari come coi suoi difetti innegabili fu questa l’ultima grande affermazione dell’arte neoclassica lombarda.

Colla morte del Cagnola si può dir chiuso il ciclo neoclassico.
Il suo migliore aiuto, l’architetto Peverelli passato a lui dallo studio del Pollak e dall’Accademia di Brera, il suo devoto disegnatore Amelio (a cui sono dovute forse le belle prospettive dei progetti del Cagnola, tracciate con infinita diligenza e incredibile minuzia di segno) non raccolsero l’eredità artistica del Marchese. Gli stessi allievi, ch’ebbe valenti e numerosi, sembrano aver esaurito, alla morte del maestro, il meglio delle lor virtù creative. Notevoli fra questi tuttavia il Duca Serra di Falco, che fu il primo a rilevare sistematicamente e a pubblicare in albi ormai rari i monumenti greci di Sicilia: e il Bianchi, l’architetto del tempio di San Francesco di Paola a Napoli.
Nel Cornasco l’esempio e l’insegnamento del Cagnola aveva, lui vivente, diffuse e moltiplicate le fabbriche di carattere neoclassico; così il Boara di Lecco eresse la Chiesa di Valmadrera e di Calolzio, fredde e corrette. Nè mancò fuor dei confini, nella Russia lontana, qualche riflesso dell’arte del Cagnola, nelle fabbriche che il Gilardi, architetto dello Zar, vi eresse, mentre si affievoliva e si spegneva in Italia, nell’inquieto alternarsi delle nuove tendenze, l’ultima eco dell’arte neoclassica.

PAOLO MEZZANOTTE.

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