LUIGI CAGNOLA - ARCHITETTO
La maestosa villa nota sotto il nome di Rotonda d’Inverigo, che
il Marchese Cagnola, (fortuna negata alla maggior parte degli artisti)
si potè costruire secondo i canoni dell’arte sua nell’ultimo
periodo della sua carriera operosa, racchiude ancora, ben conservato
ed egregiamente custodito, il prezioso archivio che il celebre architetto
vi raccolse or è quasi un secolo.
La cortesia dei Conti De Pange, proprietari attuali della Rotonda, mi
ha concesso di esplorare un tanto ricco materiale di studio, in gran
parte inedito. E poichè oggi l’attenzione degli artisti
come degli studiosi è di nuovo richiamato verso quel fecondo
periodo d’arte, al quale è facile negare potenza di originalità
e varietà di fantasia, ma non disconoscere una sicura e maestosa
unità d’indirizzo, non sarà senza interesse rievocare,
attraverso i documenti del tempo, la memoria di quegli che fu dell’architettura
neoclassica nella capitale lombarda l’assertore più autorevole
e il più fortunato cultore.
A Milano dal 1769 dominava nella edilizia il folignate Piermarini, che,
dopo aver data al vecchio palazzo Regio-ducale una severa veste classica
di compassata eleganza, aveva con miglior fantasia eretto il teatro
della Scala, e la grandiosa Villa Reale di Monza, riformato il corso
di Porta Orientale, sistemata piazza Fontana e la via di Santa Radegonda,
e insieme col ticinese Cantoni, l’italo-austriaco Pollak, il Lonati
e qualche altro, aveva svolto tutto un ciclo di costruzioni private
di classico carattere; sicchè all’aspetto prevalentemente
secentesco delle vie di Milano, qua e là variate dagli svolazzi
e dagli stucchi del primo settecento, si sovrapponevano le forme corrette
e un poco rigide del rinnovamento classico.
Ma all’apparire delle armate francesi il Piermarini, forse troppo
compromesso coi dominatori austriaci, e già vecchio, si apparta
nella nativa Foligno e l’egemonia dell’architettura presto
passa al giovane Cagnola.
Nato nel 1762 da illustre famiglia del patriziato lombardo, destinato
per tradizione alla carriera diplomatica, Luigi Cagnola compiva i primi
suoi studi a Roma nel collegio Clementino, quando, preso dal fervore
allora così diffuso nella capitale pontificia per gli studi archeologici,
volle destinare le ore d’ozio allo studio dell’architettura,
a cui attese sotto la disciplina di tal professor Tarquini, che, assistendolo
nel rilievo degli antichi monumenti, gli additava come “unici
precettori” Vitruvio e Palladio. Laureatosi poi in giurisprudenza
a Padova e subito insignito, per virtù del nome che portava,
di pubbliche cariche dal governo austriaco, trovava modo fra i molteplici
impegni di coltivare gli studi preferiti.
Data da allora un suo primo esperimento d’arte, quando osò
cimentarsi col Piermarini per la sistemazione della barriera di Porta
Orientale, ch’egli risolveva con un arco di trionfo. Prevalse
il disegno del Piermarini, allora all’apice delle sue fortune,
ma non ebbe seguito per il crollo del governo austriaco. Vedremo più
tardi ritornare il Cagnola sullo stesso tema, con analoghe proposte
ma senza successo. Uomo di mondo e frequentatore, come si addiceva ai
suoi natali, della migliore Società, il Cagnola, secondo si narra,
ebbe a sostenere una sera in una discussione accesasi in un palco del
Teatro della Scala, la possibilità di “condurre un ben
distribuito casino in un triangolo equilatero”, e portò
la sera poi alla Scala un suo disegno, dove il quesito era, a quel che
parve, ingegnosamente risolto. Il disegno esiste ancora nell’archivio
della Rotonda; se anche intrinsecamente di scarso valore, è interessante
come primo saggio che gli valse notorietà, assai meglio certamente
dei rilievi, di ben altro valore reale, ch’egli andava nello stesso
tempo eseguendo delle antiche tracce Romane allora esistenti ed ancor
visibili attorno a San Lorenzo. Questi rilievi, troppo trascurati e
ignorati, benchè pubblicati allora nel primo volume delle “Antichità
longobardo-milanesi” del padre Fumagalli, dovrebbero essere attentamente
considerati nella occasione delle demolizioni che si vogliono fare prossimamente
nella storica località e servir di base a sistematiche ricerche,
atte a chiarire il mistero che è ancora fitto intorno alle origini
del celebre tempio e del maestoso colonnato romano.
Il giovane gentiluomo si trovava frattanto in contrasto col pregiudizio
spagnolesco dei patrizi, che vedevano di mal occhio uno dei loro dedicarsi,
come dicevano, ad “un’arte da capomastro”. Firmava
i suoi disegni “dilettante d’architettura” per significare,
probabilmente, che da quella professione avversata dall’aristocrazia,
non intendeva ottenere lucri o vantaggi d’alcuna specie.
Dopo la morte del padre, avvenuta negli ultimi anni della dominazione
austriaca, ebbe dal governo nuove cariche, e fra l’altra quella
di Commissario presso gli eserciti: sicchè, seguita la disfatta
di questo, gli convenne ricoverarsi a Venezia, dove, rinunciando ad
ogni pericoloso onore, si diede allo studio del Sansovino e del Palladio:
presto conciliatosi col nuovo ordine di cose, fece ritorno in Milano,
ove, abbandonata ogni altra preoccupazione, trovò modo finalmente,
già maturo di anni, di misurare nel campo della pratica le sue
non comuni doti d’artista e di tradurre in pietra alcuna delle
sue immaginazioni fantasiose.
A Vajano, in quel di Crema, costruì una villa per la famiglia
Zurla e poi nelle vicinanze di Orzinovi provvide al restauro e alla
ricostruzione di case danneggiate dal terremoto del 1802: fu la prima
volta che esperimentò le difficoltà del costruire. Maggior
nome ebbe a Milano per gli apparati grandiosi, da lui eretti come usavano
allora in occasione di feste; così per l’incoronazione
di Napoleone; per le nozze dell’imperatore con Maria Luigia d’Austria
eresse nei giardini pubblici un arco di trionfo e per la nascita del
Re di Roma una altissima colonna simile alla Trajana sul corso di Porta
Orientale.
Una parentesi nell’opera del Cagnola tutta applicata alla risurrezione
delle forme classiche, è data dai progetti ch’egli fece
per il compimento della facciata del Duomo, voluta da Napoleone, in
uno stile spoglio e insipido, quale poteva nascere nel suo tempo dalla
interpretazione del gotico: sicchè non so dolermi, se fu preferito
quell’ibrido pasticcio ideato dal Zanoja e dall’Amati, che
ebbe almeno il merito di rispettare gli stupendi portali del Pellegrini
e la zona basilare secentesca.
Fu solo nel 1806 che il Cagnola ebbe campo di cimentarsi nell’opera
sua più grandiosa, che gli valse onori e fama duratura. Il Consiglio
di Città, di cui il Marchese faceva parte, nella occasione delle
nozze di Eugenio di Beauharnais e di Amalia di Baviera, gli diede incarico
un’altra volta di erigere un grandioso arco temporaneo, di gesso
e tela all’ingresso di Porta Orientale.
Fu una ripetizione meglio elaborata e in dimensioni maggiori, dell’arco
che il Cagnola aveva già disegnato per le nozze di Napoleone:
ma tanto piacque per la imponenza delle masse e la snella eleganza dell’ordine
corinzio, che la Comunità risolse di tradurlo in materiale nobile
e duraturo a celebrazione delle glorie Napoleoniche, sullo sfondo della
Piazza d’armi e all’imbocco del viale del Sempione.
Alla esecuzione della maestosa mole si pose mano senza indugio: lo stesso
Cagnola, col concorso di un suo fidato capomastro, certo Bignetti, cercò
e scoprì nelle montagne dell’Ossola il bel marmo di Crevola
elegantemente variegato di bruno chiaro e di grigio azzurrino, di poco
inferiore per compattezza e resistensa ai geli allo stesso marmo del
Duomo.
Alla caduta della potenza Napoleonica, il monumento era compiuto fino
alla imposta degli archi minori: già il Thorwaldsen aveva compito
buona parte degli altorilievi, celebranti le gesta imperiali, poi ricoverati
alla Villa Sommariva sul lago di Como. Il nuovo Governo, accogliendo
un’accorta proposta del Consiglio di Città, ordinò
la continuazione delle opere, purchè mutati i soggetti delle
scolture e capovolto il significato delle scritte, l’arco celebrasse
“la pace universale da tanto tempo da tutti i popoli desiderata
e finalmente conseguita mercè della formidabile unione degli
eserciti della Maestà sua alla possanza de’ fidi e magnanimi
alleati”. Stanchi di guerre sanguinosamente combattute per le
fortune altrui, i Milanesi accettarono senza entusiasmo ma anche senza
ripugnanza, il nuovo idolo, la Pace, sul piedestallo della Gloria. Le
opere furono riprese nel ’26, e il monumento, con pomposa epigrafe
dedicata a Francesco I “pacis adsertori” fu inaugurato nel
’38 dal successore Ferdinando I.
Simile sorte ebbero pure i grandiosi propilei contemporaneamente eretti
dallo stesso Cagnola a Porta Ticinese, mentre senza simboli, senza epigrafi,
rimase l’arco gentile di Porta Nuova, preziosamente lavorato,
quasi a cesello, in materiale sgraziatamente vile; opera squisita dell’abate
Architetto Zanoja; che per incuria d’uomini e fragilità
del materiale va oggi rapidamente dissolvendosi ai rigori di queste
ultime aspre stagioni invernali.
Educato alle vaste concezioni in riflesso alle ambizioni smisurate dell’eroe
Corso, il marchese Cagnola mal si adattava alle ordinazioni private,
ostacolate dal costo: così non ebbero esecuzione i suoi progetti
per il palazzo Arese e poi per il palazzo Saporiti, eseguiti poi su
altro disegno da altri architetti. Nè miglior sorte ebbe il suo
elegante disegno per un palazzo da erigersi nei giardini pubblici: o
quello per un edificio, a foggia di tempio, senza precisione di significato,
da erigersi sul Naviglio a Porta Nuova; o, più importante di
tutti, il progetto di commissione della Imperatrice Giuseppina per un
casino, di grandiose dimensioni da erigersi alla Malmaison.
I rivolgimenti politici tolsero al Cagnola di veder tradotto in atto
un suo importantissimo disegno di monumento-ospizio che per volere di
Napoleone doveva sorgere al giogo del Cenisio: un edificio colossale,
assiso sopra una foresta di centoquarantaquattro colonne, che doveva
forse auspicare quella più intima unione fra le due nazioni latine,
di cui Napoleone, troppo tardi, doveva riconoscere la necessità.
Il progetto era stato esplitamente approvato da Napoleone, la vigilia
del crollo della sua potenza, durante la prima fase della campagna di
Russia.
Al ritorno degli Austriaci, l’Architetto di Napoleone, come tanti
artisti del tempo, si fu presto e senza difficoltà riconciliato
coi padroni di prima. È questa la pagina meno simpatica della
sua laboriosa e utile esistenza. Per amplificare i meriti dell’artista
o scusarne le debolezze non si vuole alterare la storia. Dobbiamo d’altra
parte a questa sua scarsa coerenza politica se monumenti dell’importanza
dell’arco del Sempione ebbero il loro compimento e se l’arte
del Cagnola proseguì il suo corso, senza ostacoli e senza interruzioni.
Dal governo Austriaco, interessatamente generoso con chi si piegava
alla sua volontà, ebbe appoggi ed onori; fu Ciambellano di Francesco
I e ne ebbe le decorazioni dell’ordine della corona di ferro.
Fu chiamato a Vienna e gli fu affidato lo studio per la riforma e l’ampliamento
del palazzo imperiale e per una grandiosa porta di quella città:
di quest’ultima aveva già gettato le fondamenta, quando,
richiamato in Italia, dovè abbandonare i lavori che ebbero poi
prosecuzione con altro disegno di architetti del luogo. Il Principe
di Metternich lo incaricò del progetto per la cappella sepolcrale
di sua famiglia: ma anche questo progetto non mi risulta abbia avuto
esecuzione. Nel ’25, per festeggiare l’ingresso solenne
dell’Imperatore Francesco I, immaginò e costruì
di gesso e tela un arco trionfale a Porta Orientale: ma il prestigio
dell’arte sua doveva volgere al tramonto, se per l’esecuzione
in viva pietra gli veniva preferito il progetto di barriera fiancheggiato
da edicole, insipido quanto costoso, ideato e costruito dall’Architetto
Rodolfo Vantini di Brescia. Il progetto del Cagnola trovò tuttavia
ammiratori ferventi, tanto che un facoltoso cittadino milanese, Giovanni
Peccis, offerse a sue spese di tradurlo in bronzo: morto anzi tempo
il Peccis, l’opera venne continuata dalla Biblioteca Ambrosiana
che provvide a dorare i bronzi con ingente spesa e li conserva tuttora
nelle sue sale.
Più modesto è l’elenco delle opere a cui il marchese
Cagnola dopo il 1815 potè dare esecuzione. Se nell’epoca
Napoleonica l’architettura è quasi esclusivamente civile,
ritorna nel periodo della restaurazione prevalentemente religiosa. Così
fu delle opere, che il Cagnola potè condurre a termine in quell’ultimo
periodo di sua carriera: l’austera e suggestiva Cappella di Santa
Marcellina in S. Ambrogio, la Chiesa di Concorrezzo, il Campanile a
più ordini e coronato da cariatidi in Urgnano (nella provincia
di Bergamo), il tempio a foggia di rotonda di Ghisalba, il tabernacolo
di bronzo nella chiesa delle Signore della Guastalla.
È del Cagnola la sistemazione interna del Casino dei Nobili,
oggi sede della Società “la Patriottica”. Ultima
sua opera notevolissima, la villa maestosa, da lui eretta verso il 1830
sui colli d’Inverigo; libera manifestazione di quanto egli poteva
nell’arte sua, nella quale profuse gran parte del suo cospicuo
patrimonio.
Tenace non meno che orgoglioso, l’aristocratico architetto non
amava sottostare ai consigli altrui, e si ribellava alle non sempre
opportune direttive dei committenti; soleva attribuire il risultato
dei suoi lavori alla indipendenza in cui gli era riuscito di operare,
in grazia anche dell’alta sua posizione sociale, senza importuni
interventi o fastidiose collaborazioni di intenditori o di colleghi.
Vegeto e operoso in tarda età, si spegneva colpito di apoplessia
il 14 agosto 1844 di ben ottantadue anni.
Nel quadro generale dell’architettura del suo tempo, l’opera
del Cagnola spicca indubbiamente in primo piano. Nel Milanese l’architettura
neoclassica si svolge in tre tappe rispondenti a tre momenti politici.
La prima dal 1770 circa alla fine del secolo, quando sotto l’influsso
del Piermarini e del gruppo d’artisti raggruppati intorno all’Accademia
di Brera, si abbandonano le forme del barocco pur senza compiuta rinuncia
a tutta intera l’eredità artistica del recente passato.
Segue il periodo Napoleonico, quando, chiamata ad esprimere la potenza
imperiale e divenuta mezzo di governo, l’architettura si fa anche
più corretta e severa, ma sembra irrigidirsi nella ricerca di
pure forme classiche, e la personalità dell’artista, fatta
ancella di una superiore volontà dominatrice, si riduce e si
cela dietro aridi schemi di derivazione greco-romana. Infine è
il periodo della restaurazione; continua nella capitale spodestata del
regno italico, più per inerzia, che in virtù di preordinati
programmi, l’indirizzo d’arte a cui l’età precedente
aveva dato impulso così vigoroso; il pensiero romantico contribuisce
a conferirgli dapprima qualche varietà di atteggiamenti, qualche
maggiore libertà nella interpretazione degli antichi: riappare
il neoclassico negli edifici religiosi, ma presto qui immiserisce per
l’indebolirsi del prestigio e della ricchezza della chiesa cattolica:
e lo vediamo presto, verso il quaranta, cedere terreno lentamente, a
gradi, al sopravvenire incomposto e al prevalere di nuove effimere tendenze,
della inconsulta imitazione di stili del passato o di formule esotiche
estranee al nostro temperamento e ai nostri climi.
Il marchese Cagnola combatte le sue prime battaglie al tramontare del
primo periodo, si afferma vigorosamente nel secondo, continua la sua
attività per tutto il terzo, pur rimanendo, anche sotto il dominio
austriaco, il più genuino e tipico esponente delle tendenze dell’età
Napoleonica.
In alcuno dei suoi primi disegni (così nel suo disegno di villa
per la marchesa Litta) sono ancora reminiscenze di quel pittoresco barocco
delle “Case di delizia” lombarde, che, iniziato dal romano
Ruggeri e illustrato dal Da Re, aveva posto così salde radici
nelle nostre terre. Ma subito il Cagnola si ricompone nella severa disciplina
dell’antico, appresa nei pazienti rilievi dei ruderi romani, o
attinta alla lettura degli autori classici e dei teorici contemporanei,
dal Milizia al Desgodetz.
Caratteristico del Cagnola fu quel “veder grande” che la
facile critica dei contemporanei motteggiava per megalomania, ma che
pure rispondeva mirabilmente allo spirito eroico del tempo: la ricerca
di grandi masse ariose e semplici, mentre il particolare, pur curato
spesso con somma diligenza, raramente palesa quella squisitezza di profili
che è più facile trovare in alcun suo men noto contemporaneo,
quale l’abate Zanoja o il Crivelli, architetto questo ultimo del
raffinato casino Belgiojoso, destinato alla distruzione per dar luogo
ad uno dei soliti, inconsulti, rimaneggiamenti edilizi.
La produzione del Cagnola, dopo qualche primo incerto tentativo, è
tutta, per oltre un quarantennio, di una tranquilla unità, che
arriva ad escludere quella varietà di ispirazione di cui aveva
pur saputo dar prova qualche altro architetto del tempo; quale Simone
Cantoni, autore ad un tempo della pittoresca Villa dell’Olmo,
della ridente fronte di casa Mellerio e dell’austero palazzo Serbelloni.
Dopo un periodo di fantasia senza limiti e di massima esuberanza decorativa,
l’indirizzo classicista, che pure attinge alle medesime fonti
delle svariate architetture raggruppate col nome di barocco, è
per i suoi più ascoltati banditori, voluta limitazione di ornato,
è selezione severa di forme e di elementi. Il Milizia è
esplicito a questo riguardo: “Dovunque si rivolga lo sguardo,
si vede la nostra architettura peccare sempre per eccesso di ornamenti,
ma mai per difetto. Non abbiamo mai voluto comprendere che gli ornati
han da nascere dal necessario, che debbano essere significanti...”
e l’Albertolli, così devoto all’antico, condannava
anche nei suoi maestri le fantasiose decorazioni a prospettive e colori
di cui gli scavi di Pompei offrivano abbondanza di esempi. Si rinuncia
volentieri anche ad una parte dei motivi del più corretto cinquecento:
la stessa sovrapposizione degli ordini, usata dagli antichi e largamente
applicata nel rinascimento, è raramente applicata nel primo ottocento;
il Cagnola in ispecie vi ricorre in raro caso, come nel campanile di
Urgnano; preferisce l’ordine colossale esteso a tutta l’altezza
delle fronti, o la nudità delle pareti, appena rilevate da bugne
o traversate dai vuoti di porte e finestre.
Il Palladio fu il vero grande maestro del Cagnola. La sua influenza
predominante su tutti gli architetti contemporanei, in Italia e fuori,
è palese anche in quella che credo la più perfetta, la
più impeccabile opera del marchese architetto: i maestosi propilei
di Porta Ticinese. Dall’estrema semplicità dell’ordine,
dalla severità dei profili, dall’armonico ritmare delle
colonne gigantesche, formate da grossi rocchi di granito di Baveno,
il monumento deriva un aspetto austero e maschio così da reggere
al pericoloso paragone delle vicine colonne Romane e della grandiosa
cupola di San Lorenzo. Il partito architettonico, particolarmente nella
soluzione del fianco, dove un’arcata su alti piedritti sormonta
un arco ribassato che dà passaggio al Naviglio, è indubbiamente
suggerito dai loggiati della Rotonda di Vicenza; ma quel che nella volta
Palladiana era motivo secondario e subordinato, è qui svolto
con sapiente accorgimento ed ha una sua originale espressione di forza
trionfale, che male si accorda colle parole di pace scritte in lettere
di bronzo nel fregio, in sostituzione di ben altre, dopo la caduta del
Bonaparte.
La villa d’Inverigo, fra tutta la produzione del Cagnola, merita
particolare considerazione perchè, eretta da lui secondo il suo
solo criterio, senza vincoli di direttiva altrui, rappresenta in certo
modo il suo testamento artistico, l’espressione ultima del suo
ingegno maturo.
Maestosamente assisa fra i cipressi e i pini italici sulle balze collinose
d’Inverigo, la grande villa scandisce una nota di austera romanità
nell’armonia ridende del paesaggio brianteo.
Delle accidentalità dell’altura, della vicinanza del pittoresco
villaggio e delle mura vetuste del castello dei Crivelli, il Cagnola
si vale con abile artificio, giungendo a creare sul bel colle un paesaggio
intonato e riposante, classicamente sereno, vario d’aspetti e
di scorci prospettici. Eppure, benchè vasta e grandiosa, la villa
d’Inverigo appare quasi una riduzione del progetto per il casino
della Malmaison: come in quello, lo spunto procede dalle Ville Palladiane
e più precisamente dalla solita rotonda di Vicenza. Simile è
la disposizione generale: le sale in due piani sopra uno terreno di
servizio, raggruppate attorno ad un salone centrale a pianta circolare,
forse eccessivamente alto, che soverchia con alta cupola i piani sovrapposti.
Se l’interno riesce un poco arido e freddo, non animato da particolari
trovate architettoniche e privo com’è di quella suppellettile
e di quella decorazione che pure i tempi sapevano produrre elegante
e raffinata, l’esterno sfoggia una fantasia inusitata e una abbondanza
di motivi mai prima spiegata dal Cagnola.
La fronte verso i monti è fortemente chiaroscurata con un portico
architravato, fiancheggiato da due ali di colonnato, nelle gigantesche
dimensioni care al Cagnola.
Al lato opposto, verso il piano, l’occhio riposa sopra una vasta
parete a bugne, poco gradevolmente sormontata dal troppo alto tamburo
della cupola; al di sotto s’avanza una terrazza sostenuta da cariatidi
giganti scolpite dal Marchesi. La fiancheggiano per buon tratto del
colle altre estese terrazze traforate da nicchioni, alle quali si salda
il muro di cinta, variato da cancelli, pilastrate, portali. Di questi
il principale verso ponente, a foggia d’arco, fu abbattuto dal
ciclone che devastò la regione nel 1908, nè venne più
rialzato. È curioso notare il carattere egizio delle porte del
giardino, nè mancano riminiscenze dello stile dei Faraoni in
altri particolari anche importanti, quale la terrazza a cariatidi o
la cripta a piano di terra.
C’è in tutto questo indubbiamente dell’eccessivo
e del retorico, non c’è proporzione fra l’aspetto
esteriore, solenne, quasi di tempio pagano, e l’interno ch’è
di villa sia pure principesca, ma villa; manca insomma quel giusto rapporto
fra il carattere esterno dell’edificio e la sua destinazione,
quale si avverte, per rifarci un’altra volta al maestro dei maestri,
nel Palladio: ma coi suoi pregi singolari come coi suoi difetti innegabili
fu questa l’ultima grande affermazione dell’arte neoclassica
lombarda.
Colla morte del Cagnola si può dir chiuso il ciclo neoclassico.
Il suo migliore aiuto, l’architetto Peverelli passato a lui dallo
studio del Pollak e dall’Accademia di Brera, il suo devoto disegnatore
Amelio (a cui sono dovute forse le belle prospettive dei progetti del
Cagnola, tracciate con infinita diligenza e incredibile minuzia di segno)
non raccolsero l’eredità artistica del Marchese. Gli stessi
allievi, ch’ebbe valenti e numerosi, sembrano aver esaurito, alla
morte del maestro, il meglio delle lor virtù creative. Notevoli
fra questi tuttavia il Duca Serra di Falco, che fu il primo a rilevare
sistematicamente e a pubblicare in albi ormai rari i monumenti greci
di Sicilia: e il Bianchi, l’architetto del tempio di San Francesco
di Paola a Napoli.
Nel Cornasco l’esempio e l’insegnamento del Cagnola aveva,
lui vivente, diffuse e moltiplicate le fabbriche di carattere neoclassico;
così il Boara di Lecco eresse la Chiesa di Valmadrera e di Calolzio,
fredde e corrette. Nè mancò fuor dei confini, nella Russia
lontana, qualche riflesso dell’arte del Cagnola, nelle fabbriche
che il Gilardi, architetto dello Zar, vi eresse, mentre si affievoliva
e si spegneva in Italia, nell’inquieto alternarsi delle nuove
tendenze, l’ultima eco dell’arte neoclassica.
PAOLO MEZZANOTTE.