FASCICOLO VII - MARZO 1928
FERDINANDO REGGIORI : La Terza Biennale delle Arti Figurative a Monza, con 29 illustrazioni

LA TERZA BIENNALE DELLE ARTI DECORATIVE A MONZA

Dire di Monza, proprio su questa Rivista, ormai che la Mostra s’è chiusa ed è stata suggellata dai bilanci morali e materiali - giudizi ben più autorevoli e cifre ben più eloquenti -non mi pare impresa tanto agevole. Innanzi tutto non ritengo utile nè interessante rifarne una completa e forbita rassegna daccapo; inoltre, penso che gran parte dei lettori, meglio del gran pubblico curioso, n’ha conosciute le sale, esplorati gli angoli, soppesate le intenzioni.
Quindi, converrà appena, in una rapida corsa, fissare i giusti risultati conseguiti, determinare, se possibile, i punti d’arrivo. Perchè il successo davvero lusinghiero ed insperato di questa terza Biennale torna a tutto onore dell’Onorevole Marangoni e dei suoi collaboratori, e stabilisce solide basi per nuovi e più fortunati voli.
Noi Italiani si comincia, infine, a far dell’Arte Decorativa nel senso più compiuto della parola; dacchè, finalmente, s’è capito che bisogna pensare ed operare con metodo. Le fonti possono essere infinite, lontanissime, ispirazioni straniere, reminiscenze d’arte antica, prodotti d’eccezione modernissimi: ma, almeno, ci si toglie dall’inerzia contagiosa di una recente moda facilona e carceriera. Pare impossibile, quant’è arduo inventare! Ma, tuttavia, elementi disparatissimi e ben digeriti e passati allo staccio di un’anima sensibile meglio ritornano sotto forme più raffinate e magari addirittura originali. Non operavano altrimenti i buoni maestri del tempo antico, che, pur covando il medioevo ancora, si ispiravano ad un tantino di classico o di straniero: questa forma è perfino un po’ orientale, quest’altro motivo è ancora rigidamente romanico, ma, intanto, ecco l’arte nuova che si districa e porta in sè i germi profondi di una vittoriosa originalità. Purchè, naturalmente, tutto sia pensato con giusto equilibrio. L’ignoranza, od anche semplicemente l’inerzia, si arrestano sulla soglia della cosidetta arte paesana, folklore e beata ingenuità contadinesca che non potrà mai avere un predominio di valore assoluto, ma, appena appena, partecipare alla formazione di un mosaico d’arte nazionale di seconda mano. Non che si debba uccidere quest’arte paesana; ha in sè tradizioni e suggestioni così radicate nella nostra terra, che sarebbe delitto volerla sopprimere, incomprensione volerla bandire. A Monza, stavolta, l’han collocata in gran parte a pianterreno, sotto forma di botteghe e di officine, accanto alla buona iniziativa delle Piccole Industrie. Trattenuta nei giusti limiti, davvero può vivere e prosperare accanto alle Biennali; può essere, per il gran pubblico, richiamo ed allettamento; già che, in queste botteghe, esso si porta via il ricordo della visita. Ma, intendiamoci, sempre a pianterreno. Sopra, lasci il posto a tutta l’Arte che deve potersi chiamare con l’A maiuscola.
Daltronde, una certa caratteristica peculiarità regionale, si mantiene, in qualche modo, anche nelle manifestazioni dell’arte decorativa più raffinata. Contrariamente all’opinione di tanti, non saprei ammettere che un mobile pensato a Napoli venga fuori simile ad uno pensato a Milano; vi sono differenze e barriere di sentimenti indistruttibili, caratteri di personalità e di ambienti troppo diversi; vi sono differenti condizioni demografiche troppo radicate, incompatibilità di usi e costumanze. E, sempre, utopia parrà la ricerca d’un’unica arte nazionale.
Poi, ecco l’intesa organizzatrice di gruppi regionali che si formano e lavorano così per motivi di comodità e di praticità. Si lavora uniti, ciascuno nel proprio campo ma con la stessa passione e con la stessa affinità di gusti; e dunque si vuol esporre insieme, perchè anche più completo risulti l’ambiente, e l’alleanza degli sforzi conduca, infine, al migliore dei risultati.
Convien subito dire che, in questa gara, il meglio disciplinato ed organizzato apparve il Piemonte, il quale si presentò alla Terza Biennale con un programma ben fisso. Un vero successo ebbero le sue botteghe, successo di pubblico e di critica. Vittoria ben meritata, se si pensa che il Piemonte fu, per l’addietro, la classica terra creatrice delle mostre retrospettive tipo Borgo Medioevale; e qui, invece, s’è tutto rinnovato. Un vero passo innanzi, dunque, una vera novità piena d’insegnamenti, anche se sfortunatamente costretta nell’illusione. Perchè, questi negozi, stan bene così come sono, quasi nature morte dell’architettura, modelli inanimati e non frequentati: tradotti nelle ben diverse condizioni ed esigenze di una vita reale perderebbero non poco del loro valore effettivo. Ma tant’è: la macelleria del Casorati, il bar di Sobrero, la farmacia ed il centralino telefonico son ottimi spunti per qualchecosa di più definitivo. Molto meno interessante, purtroppo, la confetteria, e quasi brutta, addirittura, la messinscena delle bambole Lenci, sempre, invece, deliziose. Completano l’iniziativa piemontese alcuni progetti architettonici di modernissima concezione e d’un certo interesse.
Poi, la Lombardia, che tanto della Mostra ha invaso. Espositori isolati che si perdono nel mare magno di una non rigorosa successione: dagli scialli Piatti nobilmente presentati nelle vetrine un po’ tedesche di Nizzoli ed Amaldi, fin alla schiera molto meno interessante dei fabbricanti di mobili di professione. I migliori artefici del legno che vanti la Lombardia non sanno scostarsi dal tradizionale loro tipo di mobile e seguono con inattaccabile perizia la via del cattivo gusto. Nè, più allettanti, sono apparsi certi mobili disegnati da Gino Maggioni, così grevi e rigidi da non invogliare alla confidenza.
Diversamente s’è presentato un gruppo di altri architetti; e fragilità un po’ leziosa domina in quasi tutti gli esemplari del loro Labirinto. Ecco, fu detto, i novatori della nostra arte decorativa: un gruppo di giovani che, sotto diverse bandiere e con differenti iniziative, afferma una reale eccellenza nei campi più disparati; specialmente affrontando decisamente e da architetti il problema del mobile isolato, prima che quello dell’ambiente. E, poichè giovani sono davvero, anche di spirito e di tenace ricerca, loro facilmente si perdonano taluni difetti di mancata consistenza accusata, per lo più, nei mobili di maggior mole. L’uniformità di indirizzo ormai fa presto riconoscere un artista del gruppo Ponti, Lancia, Marelli, Buzzi, Chiesa e Venini. La tendenza s’è venuta formando all’ombra di un neoclassico un po’ d’eccezione, di reminiscenze d’una romanità piuttosto provinciale, cui, deliberatamente, si son uniti la praticità di certi interni di mobili inglesi ed il gusto tedesco di certi metalli. Arte, per ora, di schietto lusso: ne fan fede perfino i prezzi esposti e richiesti, compresi quelli della Domus Nova, arredamento che La Rinascente vorrebbe far passare a buon mercato. Seimila e più lire per una camera da letto, pochi mobili nudi e crudi, mi sembran davvero troppe, valore d’arte compreso; nè invogliano il gran pubblico, tentennante fra gusti non determinati, a preferire questi agli altri mobili tradizionali mogano e bronzi.
Un tentativo che va lodato è il pianoforte dell’architetto Marelli: tentativo incoraggiabilissimo di cambiar il viso al mobile più tradizionalmente antipatico delle nostre stanze.
Gio Ponti ha avuto, personalmente, un buon successo anche nella marcia decisiva che rinnova tutta la produzione della Richard Ginori. Accanto a pezzi già noti, ha stavolta esposto novità elegantissime e d’ultimo grido; specialmente squisiti certi ninnoli e soprammobili inutili. Certe sue creazioni han tuttavia pregi d’un valore un po’ passeggero, arrischiano, forse, nel tempo, di perdere la loro freschezza. Per citare un esempio: ormai un tantino di stantio comincia a manifestare la lunga serie dei Pellegrini stanchi. Li abbiamo ammirati in ceramica, in terraglia, a basso rilievo, a tutto rilievo, dipinti; e non v’è luogo dove non se ne incontri, casa mia compresa.
Vicino alla Richard Ginori, cammina la Ceramica di Laveno. Anche qui è un architetto, Guido Andlovitz, che lavora all’eccellente rinnovamento. Se voi pensate che, non molti anni or sono, la quasi esclusiva produzione verbanese si limitava alle tazzine con su RICORDO DI..., palese vi risulta la strada daccapo compiuta. Specialmente nelle terraglie di gran diffusione, mi pare che l’Andlovitz possa dare risultati soddisfacenti.
In fine, tra i lombardi, non vanno dimenticati i saggi architettonici del Gruppo 7: saggi tuttavia di un valore intrinseco ancora relativo.
Le altre regioni italiane, specie nelle mostre personali d’artisti isolati, sono apparse meno interessanti di Piemonte e Lombardia. Fan eccezione i romani che han recato un deciso contributo di nuove iniziative, sopratutto nelle mostre d’ambiente. La sala che potrebbe esser chiamata delle corna, di Alfio Fallica, m’è sembrata riuscita più in certi particolari che non nell’assieme: la porta in legno e cuoio in modo speciale è meritevole di osservazione. Ugualmente devesi dire per il gabinetto da lavoro di Del Debbio, ricco di elementi plastici di non comune pregio.
Mi parve di gusto non troppo nuovo, invece, la saletta sportiva del Labò, nella sezione ligure; più interessante, forse, la cappellina dall’elegante pavimento a bianco e nero. Eleganze nuove di motivi e di invenzioni fu dato incontrare nei merletti di Jesurum, che si van rinnovando sui disegni del Rosso. Bellotto, sicuro nella tradizionale virtuosità dei suoi cancelletti, si ripete in una monotonia eccessiva di elementi; e, stavolta, espone vetri alla muranese, legando con scure gale la fragile trasparenza dei vasi e delle coppe. Venini e Cappellin han gareggiato in acrobazie di forme e di trasparenze, nè possono essere dimenticati nella più frettolosa delle rassegne. Così come, in certi arazzi, Nizzoli e Dal Pozzo. In poche ceramiche i savonesi; mentre parvero non eccessivamente nuove le terraglie della solatia Romagna. Sempre interessanti, anche riveduti qui tutti uniti, i disegni di Mario Sironi per il “Popolo d’Italia”.
E, infine, gli ospiti stranieri, che meriterebbero ben più del poco spazio rimasto in fine di queste note.
Molto c’insegnano Germania ed Ungheria, sempre all’avanguardia in simili manifestazioni d’arte. Germania, sopratutto, maestra nel presentare, nel giustissimo modo, ogni minimo oggetto, maestra nel lavorare i metalli. Bruno Paul e la signora Tilly Schloemann han saputo davvero radunare a Monza opere di innegabile interesse sempre, spesso di incondizionato valore. Metalli e smalti della scuola d’arte che lo stesso Paul dirige a Berlino; stoffe e vasi, se non bellissimi, mai d’un gusto volgare; candelabri e lampadari argentei d’una leggerezza paragonabile davvero soltanto allo scintillio della luce. Se tante cose germaniche mandate quaggiù han purtroppo il valore effimero d’un momento, perchè in esse troppo ancora palese è la ricerca dell’eccezione, sempre in esse è tuttavia affermata una rara serietà di intendimenti.
Meno agguerrita della Germania, meno interessante delle sue stesse mostre precedenti, è stata, stavolta, l’Ungheria. Sotto le direttive del prof. Megyer Meyer, ha preferito attenersi alla semplicità ed alla sobrietà di presentazione; nè ha esposto qualchecosa di particolarmente nuovo. Notevole, daltronde, apparve lo studio presentato dai fratelli Huba su disegni di Giulio Thot; meno raffinata una cappellina di carattere piuttosto popolaresco.
Sempre eleganti le ceramiche danesi di Copenhaghen, come i vetri di Orrefors: fabbriche di fama mondiale che si fanno ovunque onore con esemplari di gusto sicuro, di giusto equilibrio e di lavorazione perfetta.
La Svizzera ha mandato poche . cose, e non troppo ammirevoli, ad esser sinceri. La Russia ha partecipato alla Mostra con la tradizionale babele di carattere contadinesco, unendovi manifestazioni poco limpide di eccezione. Di un certo interesse i saggi scenografici, non nuovi, daltronde; pregevoli molti saggi illustrativi di bianco e nero.
Per ultimo, Francia e Spagna. Ma sembrò a tutti che, nè l’una nè l’altra, avessero esposto i saggi migliori delle loro scuole e delle loro officine. Specialmente, della prima, avremmo tanto volentieri qui veduta la produzione d’arredamento dei grandi Magazins; e diciamo subito anche la . biricchina ragione. Per un raffronto, e magari non soltanto di carattere sentimentale, con tutto quello che il confratello milanese - La Rinascente - ha, quest’anno, presentato con la Domus Nova.

FERDINANDO REGGIORI.

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