COME S’ARREDA UN PALAZZO ANTICO
Questo che avrebbe dovuto essere l’omaggio affettuoso reso al
gusto raro d’un amico, diviene l’elogio funebre d’un
caro scomparso. Era questi Giuseppe Brambilla, Ministro plenipotenziario
di S. M. il Re presso la Repubblica Ellenica quando il male, acuito
dall’adempimento scrupoloso e faticoso del dovere, gli stroncò
la vita.
S’era innamorato un giorno del Palazzo farnesiano di Caprarola.
Vi aveva visto forse l’oasi ideale del riposo, costretto com’egli
era a mutar casa nel mondo continuamente, seguendo la sorte delle missioni
diplomatiche che gli erano affidate. Vi aveva compreso anche l’affinità
che esisteva fra quell’ambiente mirabile e la propria indole signorilmente
raffinata, degna d’un gentiluomo del Rinascimento. Non aveva saputo
resistere alla tentazione di quella che la gente sennata chiamava una
pazzia: aveva preso in affitto il Palazzo dei Farnese, addossandosi
tutti gli obblighi di manutenzione e di restauro, impegnandosi ad una
spesa enorme, sebbene fosse ricco, ma non ricchissimo. Dio benedica
la sua memoria per quel coraggio e per quell’amore.
Quand’era lontano Giuseppe Brambilla pensava alla sua residenza
di Caprarola come ad un sogno. Ricordo un giorno a Tangeri: eravamo
saliti sulla punta estrema e guardavamo la costa d’Europa, fra
Cadice e Gibilterra: per lui cominciava di lì la via di Caprarola.
Da pochi giorni aveva comprato un tappeto antico ricco di toni violacei;
parlava della sala in cui avrebbe voluto metterlo e descriveva l’intonazione
degli affreschi mentre guardava oltre il mare, oltre la costa, come
se li vedesse dinanzi agli occhi, infallibilmente. Nel parlare s’animava,
s’esaltava, lui sempre padrone della misura, e prorompeva in accenti
d’entusiasmo. Poi si calmava, tornava sereno e un poco triste;
gli pesava la nostalgia del suo sogno sempre troppo lontano.
Per la fortuna di monumenti come quello di Caprarola bisognerebbe che
uomini di tal fervore avessero una vita eterna.
Nell’epoca nostra è di moda arredare case e palazzi con
roba antica. Non conosco moda più detestabile di questa. Ognuno
può darsi le arie di collezionista raffinato, d’intenditore
esperto, purchè acquisti, insieme coi mobili e con le stoffe,
quella terminologia da antiquario che si trova in tutte le botteghe.
È semplice il metodo per infarinarsi di cultura storico-artistica
ad uso dei salotti mondani: si comincia a frequentare qualche casa di
vendite nei giorni di pubblico incanto. Il banditore da quella pedana
che gli fa da cattedra impartisce lezioni gratuite di competenza artistica.
Basta stare attenti per imparare a distinguere un tavolo bolognese da
una sedia veneziana, un vaso di ceramica da una zuppiera di porcellana,
una tavola del Trecento da una tela del Seicento. Che il banditore adoperi
termini sbagliati o commetta nelle attribuzioni errori di cento anni
è cosa che poco importa agli ardenti neofiti della competenza
antiquaria e dell’approssimativo culturale.
Fatta così la prima sgrossatura, consultato magari qualche libro,
di quelli in cui son molte le figure e pochissimo il testo, il nuovo
accolito della mondanità rigattiera comincia il periodo di noviziato
nelle botteghe degli antiquari. V’entra con aria oziosa e con
sguardo da conoscitore. La sua parola è preziosa, rarissima:
preferisce far parlare il mercante che possiede fiumi di eloquenza istruttiva.
Ascolta distratto, sembra che pensi, distaccato dalle cose terrene,
ed è invece attentissimo a carpire il segreto per non cadere
nell’imbroglio e per integrarsi la cultura professionale. Dopo
il ginnasio delle case di vendite è quello il liceo nelle botteghe
d’antichità.
Segue la terza fase d’istruzione, quella che dirò universitaria.
Pochi eletti vi giungono, chè moltissimi s’appagano dell’istruzione
media, anzi mediocre. Ma quegli eletti passano nei musei, preferibilmente
d’arte che si chiama decorativa. Che bellezza! Tutti i mobili
col cartellino, con la data approssimativa, magari col nome della fabbrica
e del creatore. Si stabiliscono i confronti (“io ho una sedia
quasi così”; “il mio amico ha un tavolo che somiglia
a questo”) si colmano le lacune, si correggono i difetti, si va
sul sicuro. In mancanza di musei d’arte decorativa esistono le
quadrerie ricche di tesori. I quadri non valgono per ciò che
rappresentano o per il modo come son dipinti, ma per ciò che
contengono di mobili e sopramobili, di stoffe e di merletti. Il perfetto
conoscitore è felice se scopre una parentela fra la poltrona
della propria anticamera e quella su cui siede Innocenzo X nel quadro
di Don Diego Velazquez.
Compiuta l’iniziazione e dato fondo alla cultura nel modo che
or ora s’è detto non c’è forza umana che possa
persuadere l’iniziato come egli sia e rimanga un ignorante. Non
ha evidentemente studiato abbastanza per sapere di esserlo; e quindi
trincia giudizi a dritta e a manca; dispregia gli acquisti altrui per
pregiare i propri; dà consigli anche se non richiesti; pontifica
e sdottora.
Così, da questo tipo comunissimo della mondanità attuale,
nascono, crescono e fioriscono, gli arredamenti che son venuti di moda.
Che importa se la casa, in cui mobili antichi fanno lor pompa, è
costruita ieri? La si trucca da antica, almeno di dentro, se non si
può di fuori. Che importa se chi vive fra gli arredi degli antenati
discende da un’onorata famiglia che da due generazioni non è
più contadina? Son così comodi e silenziosi gli antenati
altrui, acquistati nella bottega d’un rivendugliolo a buon mercato.
Data l’origine comune della cultura rigattiera dei suddetti amatori
d’antichità (le donne poi sono impagabili nella disinvoltura
dell’ignoranza) le case d’oggi, novanta su cento, sono d’una
monotonia esasperante. La stanza da pranzo è, chi sa perchè,
bolognese del Seicento; l’anticamera arieggia invece al Quattrocento
fiorentino; la camera da letto, ricca di tendaggi e di damaschi, s’avvicina
più alla solennità cardinalizia del Cinquecento; il salotto
è il più confuso e caotico miscuglio di tutti gli stili,
fusi nella penombra dei paralumi che ha il vantaggio d’attenuare
anche le rughe delle signore mature. Tutti gli stili eccetto quello
d’oggi; tutti i gusti eccetto quello di noi moderni. Monotonia
snervante, caratteristica della moda che tende ad uniformare anche i
vestiti e ridurli a livree. Invano si cerca ormai la personalità
nell’arredamento della casa: tutti ad un modo, tutte le case modellate
sullo stesso tipo, tutti collezionisti e intenditori d’antichità.
Veramente non c’è mai stata epoca priva di gusto come l’attuale,
appunto perchè il gusto comune è eclettico, cioè
amorfo, cioè privo di fisonomia, d’ardire, di determinazione.
A nessuno passa neppure lontanamente per il cervello che se in tutti
i secoli trascorsi si fosse fatto altrettanto nessun’arte del
mobilio sarebbe fiorita, nessuno stile si sarebbe manifestato. E non
passa neppure per la mente di tanti ignari che la vera funzione della
gente di gusto e di cultura sarebbe quella d’incoraggiare l’arte
moderna, non quella di fossilizzarsi nella mania convenzionale della
roba antica, e falsa per giunta.
Un tale quadro melanconico delle attuali condizioni del gusto corrente
era necessario per far meglio risaltare quello che vale l’arredamento
del Palazzo di Caprarola, quasi condotto a termine da Giuseppe Brambilla.
È questo uno dei pochi casi in cui il mobilio antico s’impone.
Chiunque abbia visto il monumento Farnesiano sa come esso abbia un carattere
netto e inconfondibile. L’esterno è come una fortezza da
cui sboccia un palazzo. La pianta pentagona, i torrioni angolari, il
fossato profondo che divide l’edificio dal giardino, la grande
loggia frontale, il gioco delle scalee che sfruttano il pendio, la logica
e semplice chiarità delle linee, il chiaroscuro delle masse,
sono imagini di forza e di bellezza indimenticabili. L’interno
è tutto una gioia di decorazione fastosa. Era l’epoca meno
ispirata dell’arte italiana, quella in cui il Rinascimento moriva
e il Barocco non aveva ancora preso le ali. L’esuberanza creativa
del Quattro e del Cinquecento s’era ormai esaurita. Michelangiolo
e Raffaello avevano innamorato a tal punto gli occhi dei mortali che
nulla si concepiva più di bello se non sulle orme dei due grandi.
Di più, all’imitazione dei modelli augusti, s’era
aggiunto certo bisogno intenso d’accumulare ornamenti e di sfoggiare
ricchezza di fantasia, prestezza e virtuosità di mano.
Epoca dunque di produzione convenzionale e manierata, in cui il mestiere
valeva più dell’arte, la quantità più che
la qualità, il capriccio più che la meditata e ordinata
ispirazione. Pure, i decoratori del Palazzo di Caprarola, lavorandovi
intorno alla metà del Cinquecento, ebbero così felice
e così facile vena che la convenzionalità d’un’arte
accademica e freddina sparisce per dar luogo alla solennità d’un
fasto grandioso, alla giocondità d’un estro festoso. Volte
e mura sono coperte di stucchi, d’affreschi, d’allegorie,
di storie, d’emblemi, di cartelle, di rabeschi, di paesaggi, di
racconti e di gesti, inquadrati entro solenni ritmi d’architettura
dipinta o fra ricorsi di cornici a rilievo. Anche nelle epoche di minor
vigore creativo l’arte italiana s’è mantenuta obbediente
ai dettami dell’architettura.
L’ambiente era dunque tale che il tentativo di renderlo abitabile
poteva esser creduto temerario. Dirò di più: che poteva
esserne completamente guastata l’armonia da chi non avesse gusto
vigile e sensibilità raffinata.
Il problema principale era questo: non tentare un’impossibile
ricostruzione archeologica dell’arredamento farnesiano, ma ammobiliare
il palazzo senza soverchiare la decorazione. Ricordo che altra volta
una soluzione era stata tentata con completo insuccesso. V’era
stato messo dentro tutto il solito ciarpame d’anticaglie raccogliticce,
di quelle di moda cui accennavo. N’era risultata la completa mancanza
del senso del riposo sì che la decorazione delle mura e delle
volte appariva frivola e incoerente, soverchiata piuttosto che seguita.
Giuseppe Brambilla tenne metodo ben diverso. Partì dal concetto
che in quell’ambiente non si potevano sopportare se non cose schiette
e severe, in quantità parsimoniosa. Non si preoccupò,
com’è giusto, di scegliere il mobilio in un’epoca
rigidamente determinata per non cadere nel pericolo della ricostruzione.
Scelse perciò mobili italiani tipici, di quelli che sono saldi
e puri pezzi d’architettura; spaziò in tutto il periodo
del pieno Rinascimento. Per la comodità quotidiana v’aggiunse
larghi divani, ampie poltrone di nessun carattere, coperti anzi di tela
che avesse soltanto una funzione di tono accordato.
Scelto così un primo nucleo di mobilio l’andò selezionando
con criteri di assoluta severità. Entro il Palazzo di Caprarola
non potevano trovar posto se non mobili di prima scelta. Se qualcuno
ve n’entrava che non fosse tale ciò dipendeva da una necessità
temporanea, da un’utilità provvisoria. Via via che trovava
di meglio Giuseppe Brambilla era sollecito nelle sostituzioni. La sua
intransigente passione non lo faceva esitare. Purtroppo la morte ha
interrotto la selezione quando non era ancora totalmente compiuta.
Era nato in tal modo e s’era andato sempre più perfezionando
l’arredamento del Palazzo. Se è lecito esprimere in forma
schematica il frutto di una sottile ed intelligente sensibilità
si può dire che le norme erano state le seguenti: primo la scelta
rigorosa, sì che non esistessero stonature fra le linee e i colori
del palazzo e quello degli arredi; secondo la sobrietà assoluta
e la resistenza tenace alla tentazione dell’affollamento; terzo
il principio sanissimo che basta un mobile solo e bello laddove altri
ne porrebbe almeno tre e mediocri; quarto, lo studio paziente delle
proporzioni fra vano e mobili sì che l’uno non soverchiasse
gli altri o viceversa; quinto, l’assenza di qualsiasi trucco per
adattare l’antico ai bisogni della pratica attuale e quindi nessuno
di quei ripieghi che soglion esser chiamati ingegnosi e sono invece
falsificazioni.
Da questi ottimi principî era risultato un arredamento estremamente
sobrio, intonato a quella semplicità che è la più
difficile a raggiungere. Nel tempo stesso s’era evitato il pericolo
di creare un museo, cioè qualcosa di freddo e di classificato.
Come è naturale, per far ciò non era bastata la bontà
dei principî. L’importante era il modo dell’applicazione.
Allora entrava in campo la signorilità raffinata.
V’è una sezione, diremo, del conoscitore che è animata
dal godimento puro. La patina d’un mobile, il colore d’una
stoffa, il tono d’un tappeto, il lustro d’un bronzo, sono
altrettanti eccitanti della fantasia d’un compositore d’armonie
ambientali allo stesso modo come i colori della tavolozza lo sono per
il compositore d’un quadro. In questo lavoro di contrappunto Giuseppe
Brambilla era maestro. I materiali di cui disponeva erano spesso eccellenti,
ma sopra tutto preziosa era l’abilità del disporli, dell’accordarli,
del farli giocare in richiami continui dall’uno all’altro
e di tutti con l’ambiente. L’ho visto io cambiare e ricambiare
cento volte un tappeto, una ceramica, un cassone, una sedia, un armadio
finchè, dopo prove e riprove, quell’oggetto trovava la
sua funzione e il suo luogo.
In quest’epoca di frettolosa improvvisazione pochi possono gustare
simili raffinamenti dell’istinto e della coscienza. Ma chi vi
giunge prova la delizia della perfetta armonia.
Nè al palazzo soltanto si volgevano le cure dell’innamorato.
L’immenso giardino aveva avuto da lui, sotto la sua vigilanza,
le carezze delle cesoie; là dove prima era l’incomposto
vegetare caro ai romantici, ora è l’architettura delle
fronde secondo la più pura tradizione dei giardini italiani.
Tutte le stampe più rare rappresentanti gli antichi disegni dei
viali, delle aiole, delle pergole, dei tempietti di verzura, delle fontane
erano state consultate per l’opera di restituzione. Poco mancava
ancora perchè fosse compiuta. L’ultimo anno di sua vita
Giuseppe Brambilla s’era proposto d’iniziare il restauro
del Casino, là su, in alto, al termine della fontana gradinata,
fra il ritmo delle balaustre e delle cariatidi.
Non giunse egli al termine della sua fatica. Chiuse gli occhi sul sogno
incompiuto.
Queste parole vorrebbero essere oltre che una lode un monito. È
possibile pensare che tanta armonia vada domani dispersa? È possibile
che il Palazzo di Caprarola torni nell’abbandono in cui per troppi
anni è rimasto?
È una lunga, vecchia questione: lo Stato italiano rivendica a
sè la proprietà del Palazzo. È probabile che i
diritti dell’Italia contro l’indifferenza degli attuali
proprietari abbiano un giorno ragione. Ma da oggi a quel giorno tanta
bellezza e ricchezza raccolta fra quelle mura deve rimanere intatta,
così come l’ha attuata l’appassionato fervore d’uno
spirito alto e sereno. Disperderla sarebbe un delitto. Vi pensi chi
può.
ROBERTO PAPINI
CORRIERE ARCHITETTONICO
IL CINEMA REALE A MILANO
INGG. ARCH. OTTAVIO CABIATI E AMBROGIO GADOLA
Tra i vari recenti adattamenti o nuovi edifici per cinematografo, a
Milano, il più riuscito è indubbiamente il Cinema Reale
dove la fortunata collaborazione di un tecnico valente, il Gadola e
di un artista, il Cabiati, ha superato lo sforzo della difficile costruzione
e i rigidi regolamenti milanesi (un metro di porte di uscita ogni 40
spettatori) riuscendo ad un’opera omogenea, compiuta e nitida.
In una vecchia casa tra due strade, Carlo Alberto e via Tre Alberghi,
per ricavare la Sala furono riuniti due cortili preesistenti sostenendo
con travi il corpo di fabbrica intermedio che fu conservato; una galleria
laterale permette lo sfogo del pubblico verso le due vie.
Tali strettissimi vincoli costruttivi furono la ragione della forma
e dell’estetica della Sala; il grande soffitto a travi apparenti
aderisce e lascia nettamente apparire le strutture portanti. Le due
cupole elittiche scorrevoli su rotaie e apribili per la ventilazione,
corrispondono ai cortili. Lo scomparto del soffitto è felice;
la forma allungata della Sala m. 35 × 18 per un terzo tagliata
dalla balconata, è ben suddivisa nel doppio partito delle cupole
ed i rapporti dei volumi di tutta la Sala appaiono esatti.
Ammirevole è l’estrema semplicità riposante di tutta
la decorazione alla quale nuoce forse qualche incertezza di forme nel
profilo della balconata, in alcune aperture e in qualche elemento a
rilievo del proscenio.
Nell’ingresso, le difficoltà planimetriche erano insuperabili;
qualche sforzo appare; il tono della Sala non è raggiunto e taluni
richiami stilistici nella decorazione e nell’arredo, non troppo
omogenei, tolgono unità all’ambiente. G. M.
NOTE TECNICHE
La sala è capace di 1500 spettatori in perfette condizioni di
visibilità. La struttura portante del soffitto è in ferro,
mentre la balconata è in cemento armato a sbalzo su una trave
mediana a due appoggi intermedi.
I calcoli statici, lo studio dei perfettissimi impianti tecnici e l’organizzazione
del lavoro sono dell’Arch. Ing. Gadola assuntore delle opere.
Tutto il lavoro compiuto in meno di un anno (1924) fu condotto senza
interrompere l’uso di tutti i fabbricati sovrastanti, contingenza
che aumentò le già notevoli difficoltà tecniche
dell’opera.
A PROPOSITO DELLA FONTANA
DI PIAZZA GIULIO CESARE A MILANO
Siamo dolenti di dover ricorrere ad una rettifica per stabilire con
esattezza la paternità di quest’opera milanese da noi pubblicata
nel fascicolo di settembre.
Ci si informa - e purtroppo soltanto a pubblicazione avvenuta - che
il merito della parte planimetrica, la sistemazione delle aiuole, e
tutto lo studio per l’installazione idraulica devesi all’ingegnere
Giovanni Trosti, del Comune di Milano.
Poichè, naturalmente, in una fontana ciò che maggiormente
conta è il risultato del gioco d’acque, all’ingegnere
Trosti debbono essere rivolte la principal parte delle lodi che manifestammo
presentando la fontana stessa. F. R.
L’EDICOLA FUNERARIA MYLIUS
AL CIMITERO MONUMENTALE DI MILANO
Il giovanissimo architetto e scultore Enrico Mylius, ultimo erede di
un nome illustre, si spegneva l’anno scorso non ancora venticinquenne,
mentre stava erigendo, sua prima ed unica opera d’architettura,
il sepolcreto di famiglia, nel quale per tragico destino doveva scendere
primo.
Sorto sotto l’influsso dell’arte pensosa di Adolfo Wildt,
di cui il Mylius era e si professava allievo devoto, il monumento, fra
la moltitudine dei marmi pretensiosi che offendono nei cimiteri il culto
dei morti, spicca come opera viva e arditamente originale: e pure lo
anima, nelle semplici membrature, nelle nude arcate intrecciantisi sulla
croce dell’altare, un soffio gentile di mistica poesia.
L’altare è la sola parte del monumento che il compianto
architetto potè condurre a pieno termine: è ornato da
bassorilievi di bronzo ch’egli stesso compose e modellò,
curandone poi di persona la fusione. Alla ultimazione del monumento
attese poi, rispettando in tutto con amorosa cura il pensiero e le linee
tracciate dal defunto artista, lo stesso maestro suo Adolfo Wildt e
il figlio Francesco. P. M.