FASCICOLO V - GENNAIO 1928
ROBERTO PAPINI : Come s'arreda un palazzo antico, con 13 illustrazioni

COME S’ARREDA UN PALAZZO ANTICO

Questo che avrebbe dovuto essere l’omaggio affettuoso reso al gusto raro d’un amico, diviene l’elogio funebre d’un caro scomparso. Era questi Giuseppe Brambilla, Ministro plenipotenziario di S. M. il Re presso la Repubblica Ellenica quando il male, acuito dall’adempimento scrupoloso e faticoso del dovere, gli stroncò la vita.
S’era innamorato un giorno del Palazzo farnesiano di Caprarola. Vi aveva visto forse l’oasi ideale del riposo, costretto com’egli era a mutar casa nel mondo continuamente, seguendo la sorte delle missioni diplomatiche che gli erano affidate. Vi aveva compreso anche l’affinità che esisteva fra quell’ambiente mirabile e la propria indole signorilmente raffinata, degna d’un gentiluomo del Rinascimento. Non aveva saputo resistere alla tentazione di quella che la gente sennata chiamava una pazzia: aveva preso in affitto il Palazzo dei Farnese, addossandosi tutti gli obblighi di manutenzione e di restauro, impegnandosi ad una spesa enorme, sebbene fosse ricco, ma non ricchissimo. Dio benedica la sua memoria per quel coraggio e per quell’amore.
Quand’era lontano Giuseppe Brambilla pensava alla sua residenza di Caprarola come ad un sogno. Ricordo un giorno a Tangeri: eravamo saliti sulla punta estrema e guardavamo la costa d’Europa, fra Cadice e Gibilterra: per lui cominciava di lì la via di Caprarola. Da pochi giorni aveva comprato un tappeto antico ricco di toni violacei; parlava della sala in cui avrebbe voluto metterlo e descriveva l’intonazione degli affreschi mentre guardava oltre il mare, oltre la costa, come se li vedesse dinanzi agli occhi, infallibilmente. Nel parlare s’animava, s’esaltava, lui sempre padrone della misura, e prorompeva in accenti d’entusiasmo. Poi si calmava, tornava sereno e un poco triste; gli pesava la nostalgia del suo sogno sempre troppo lontano.
Per la fortuna di monumenti come quello di Caprarola bisognerebbe che uomini di tal fervore avessero una vita eterna.

Nell’epoca nostra è di moda arredare case e palazzi con roba antica. Non conosco moda più detestabile di questa. Ognuno può darsi le arie di collezionista raffinato, d’intenditore esperto, purchè acquisti, insieme coi mobili e con le stoffe, quella terminologia da antiquario che si trova in tutte le botteghe. È semplice il metodo per infarinarsi di cultura storico-artistica ad uso dei salotti mondani: si comincia a frequentare qualche casa di vendite nei giorni di pubblico incanto. Il banditore da quella pedana che gli fa da cattedra impartisce lezioni gratuite di competenza artistica. Basta stare attenti per imparare a distinguere un tavolo bolognese da una sedia veneziana, un vaso di ceramica da una zuppiera di porcellana, una tavola del Trecento da una tela del Seicento. Che il banditore adoperi termini sbagliati o commetta nelle attribuzioni errori di cento anni è cosa che poco importa agli ardenti neofiti della competenza antiquaria e dell’approssimativo culturale.
Fatta così la prima sgrossatura, consultato magari qualche libro, di quelli in cui son molte le figure e pochissimo il testo, il nuovo accolito della mondanità rigattiera comincia il periodo di noviziato nelle botteghe degli antiquari. V’entra con aria oziosa e con sguardo da conoscitore. La sua parola è preziosa, rarissima: preferisce far parlare il mercante che possiede fiumi di eloquenza istruttiva. Ascolta distratto, sembra che pensi, distaccato dalle cose terrene, ed è invece attentissimo a carpire il segreto per non cadere nell’imbroglio e per integrarsi la cultura professionale. Dopo il ginnasio delle case di vendite è quello il liceo nelle botteghe d’antichità.
Segue la terza fase d’istruzione, quella che dirò universitaria. Pochi eletti vi giungono, chè moltissimi s’appagano dell’istruzione media, anzi mediocre. Ma quegli eletti passano nei musei, preferibilmente d’arte che si chiama decorativa. Che bellezza! Tutti i mobili col cartellino, con la data approssimativa, magari col nome della fabbrica e del creatore. Si stabiliscono i confronti (“io ho una sedia quasi così”; “il mio amico ha un tavolo che somiglia a questo”) si colmano le lacune, si correggono i difetti, si va sul sicuro. In mancanza di musei d’arte decorativa esistono le quadrerie ricche di tesori. I quadri non valgono per ciò che rappresentano o per il modo come son dipinti, ma per ciò che contengono di mobili e sopramobili, di stoffe e di merletti. Il perfetto conoscitore è felice se scopre una parentela fra la poltrona della propria anticamera e quella su cui siede Innocenzo X nel quadro di Don Diego Velazquez.
Compiuta l’iniziazione e dato fondo alla cultura nel modo che or ora s’è detto non c’è forza umana che possa persuadere l’iniziato come egli sia e rimanga un ignorante. Non ha evidentemente studiato abbastanza per sapere di esserlo; e quindi trincia giudizi a dritta e a manca; dispregia gli acquisti altrui per pregiare i propri; dà consigli anche se non richiesti; pontifica e sdottora.
Così, da questo tipo comunissimo della mondanità attuale, nascono, crescono e fioriscono, gli arredamenti che son venuti di moda. Che importa se la casa, in cui mobili antichi fanno lor pompa, è costruita ieri? La si trucca da antica, almeno di dentro, se non si può di fuori. Che importa se chi vive fra gli arredi degli antenati discende da un’onorata famiglia che da due generazioni non è più contadina? Son così comodi e silenziosi gli antenati altrui, acquistati nella bottega d’un rivendugliolo a buon mercato.
Data l’origine comune della cultura rigattiera dei suddetti amatori d’antichità (le donne poi sono impagabili nella disinvoltura dell’ignoranza) le case d’oggi, novanta su cento, sono d’una monotonia esasperante. La stanza da pranzo è, chi sa perchè, bolognese del Seicento; l’anticamera arieggia invece al Quattrocento fiorentino; la camera da letto, ricca di tendaggi e di damaschi, s’avvicina più alla solennità cardinalizia del Cinquecento; il salotto è il più confuso e caotico miscuglio di tutti gli stili, fusi nella penombra dei paralumi che ha il vantaggio d’attenuare anche le rughe delle signore mature. Tutti gli stili eccetto quello d’oggi; tutti i gusti eccetto quello di noi moderni. Monotonia snervante, caratteristica della moda che tende ad uniformare anche i vestiti e ridurli a livree. Invano si cerca ormai la personalità nell’arredamento della casa: tutti ad un modo, tutte le case modellate sullo stesso tipo, tutti collezionisti e intenditori d’antichità. Veramente non c’è mai stata epoca priva di gusto come l’attuale, appunto perchè il gusto comune è eclettico, cioè amorfo, cioè privo di fisonomia, d’ardire, di determinazione.
A nessuno passa neppure lontanamente per il cervello che se in tutti i secoli trascorsi si fosse fatto altrettanto nessun’arte del mobilio sarebbe fiorita, nessuno stile si sarebbe manifestato. E non passa neppure per la mente di tanti ignari che la vera funzione della gente di gusto e di cultura sarebbe quella d’incoraggiare l’arte moderna, non quella di fossilizzarsi nella mania convenzionale della roba antica, e falsa per giunta.

Un tale quadro melanconico delle attuali condizioni del gusto corrente era necessario per far meglio risaltare quello che vale l’arredamento del Palazzo di Caprarola, quasi condotto a termine da Giuseppe Brambilla.
È questo uno dei pochi casi in cui il mobilio antico s’impone. Chiunque abbia visto il monumento Farnesiano sa come esso abbia un carattere netto e inconfondibile. L’esterno è come una fortezza da cui sboccia un palazzo. La pianta pentagona, i torrioni angolari, il fossato profondo che divide l’edificio dal giardino, la grande loggia frontale, il gioco delle scalee che sfruttano il pendio, la logica e semplice chiarità delle linee, il chiaroscuro delle masse, sono imagini di forza e di bellezza indimenticabili. L’interno è tutto una gioia di decorazione fastosa. Era l’epoca meno ispirata dell’arte italiana, quella in cui il Rinascimento moriva e il Barocco non aveva ancora preso le ali. L’esuberanza creativa del Quattro e del Cinquecento s’era ormai esaurita. Michelangiolo e Raffaello avevano innamorato a tal punto gli occhi dei mortali che nulla si concepiva più di bello se non sulle orme dei due grandi. Di più, all’imitazione dei modelli augusti, s’era aggiunto certo bisogno intenso d’accumulare ornamenti e di sfoggiare ricchezza di fantasia, prestezza e virtuosità di mano.
Epoca dunque di produzione convenzionale e manierata, in cui il mestiere valeva più dell’arte, la quantità più che la qualità, il capriccio più che la meditata e ordinata ispirazione. Pure, i decoratori del Palazzo di Caprarola, lavorandovi intorno alla metà del Cinquecento, ebbero così felice e così facile vena che la convenzionalità d’un’arte accademica e freddina sparisce per dar luogo alla solennità d’un fasto grandioso, alla giocondità d’un estro festoso. Volte e mura sono coperte di stucchi, d’affreschi, d’allegorie, di storie, d’emblemi, di cartelle, di rabeschi, di paesaggi, di racconti e di gesti, inquadrati entro solenni ritmi d’architettura dipinta o fra ricorsi di cornici a rilievo. Anche nelle epoche di minor vigore creativo l’arte italiana s’è mantenuta obbediente ai dettami dell’architettura.
L’ambiente era dunque tale che il tentativo di renderlo abitabile poteva esser creduto temerario. Dirò di più: che poteva esserne completamente guastata l’armonia da chi non avesse gusto vigile e sensibilità raffinata.
Il problema principale era questo: non tentare un’impossibile ricostruzione archeologica dell’arredamento farnesiano, ma ammobiliare il palazzo senza soverchiare la decorazione. Ricordo che altra volta una soluzione era stata tentata con completo insuccesso. V’era stato messo dentro tutto il solito ciarpame d’anticaglie raccogliticce, di quelle di moda cui accennavo. N’era risultata la completa mancanza del senso del riposo sì che la decorazione delle mura e delle volte appariva frivola e incoerente, soverchiata piuttosto che seguita.
Giuseppe Brambilla tenne metodo ben diverso. Partì dal concetto che in quell’ambiente non si potevano sopportare se non cose schiette e severe, in quantità parsimoniosa. Non si preoccupò, com’è giusto, di scegliere il mobilio in un’epoca rigidamente determinata per non cadere nel pericolo della ricostruzione. Scelse perciò mobili italiani tipici, di quelli che sono saldi e puri pezzi d’architettura; spaziò in tutto il periodo del pieno Rinascimento. Per la comodità quotidiana v’aggiunse larghi divani, ampie poltrone di nessun carattere, coperti anzi di tela che avesse soltanto una funzione di tono accordato.
Scelto così un primo nucleo di mobilio l’andò selezionando con criteri di assoluta severità. Entro il Palazzo di Caprarola non potevano trovar posto se non mobili di prima scelta. Se qualcuno ve n’entrava che non fosse tale ciò dipendeva da una necessità temporanea, da un’utilità provvisoria. Via via che trovava di meglio Giuseppe Brambilla era sollecito nelle sostituzioni. La sua intransigente passione non lo faceva esitare. Purtroppo la morte ha interrotto la selezione quando non era ancora totalmente compiuta.
Era nato in tal modo e s’era andato sempre più perfezionando l’arredamento del Palazzo. Se è lecito esprimere in forma schematica il frutto di una sottile ed intelligente sensibilità si può dire che le norme erano state le seguenti: primo la scelta rigorosa, sì che non esistessero stonature fra le linee e i colori del palazzo e quello degli arredi; secondo la sobrietà assoluta e la resistenza tenace alla tentazione dell’affollamento; terzo il principio sanissimo che basta un mobile solo e bello laddove altri ne porrebbe almeno tre e mediocri; quarto, lo studio paziente delle proporzioni fra vano e mobili sì che l’uno non soverchiasse gli altri o viceversa; quinto, l’assenza di qualsiasi trucco per adattare l’antico ai bisogni della pratica attuale e quindi nessuno di quei ripieghi che soglion esser chiamati ingegnosi e sono invece falsificazioni.
Da questi ottimi principî era risultato un arredamento estremamente sobrio, intonato a quella semplicità che è la più difficile a raggiungere. Nel tempo stesso s’era evitato il pericolo di creare un museo, cioè qualcosa di freddo e di classificato. Come è naturale, per far ciò non era bastata la bontà dei principî. L’importante era il modo dell’applicazione. Allora entrava in campo la signorilità raffinata.
V’è una sezione, diremo, del conoscitore che è animata dal godimento puro. La patina d’un mobile, il colore d’una stoffa, il tono d’un tappeto, il lustro d’un bronzo, sono altrettanti eccitanti della fantasia d’un compositore d’armonie ambientali allo stesso modo come i colori della tavolozza lo sono per il compositore d’un quadro. In questo lavoro di contrappunto Giuseppe Brambilla era maestro. I materiali di cui disponeva erano spesso eccellenti, ma sopra tutto preziosa era l’abilità del disporli, dell’accordarli, del farli giocare in richiami continui dall’uno all’altro e di tutti con l’ambiente. L’ho visto io cambiare e ricambiare cento volte un tappeto, una ceramica, un cassone, una sedia, un armadio finchè, dopo prove e riprove, quell’oggetto trovava la sua funzione e il suo luogo.
In quest’epoca di frettolosa improvvisazione pochi possono gustare simili raffinamenti dell’istinto e della coscienza. Ma chi vi giunge prova la delizia della perfetta armonia.
Nè al palazzo soltanto si volgevano le cure dell’innamorato. L’immenso giardino aveva avuto da lui, sotto la sua vigilanza, le carezze delle cesoie; là dove prima era l’incomposto vegetare caro ai romantici, ora è l’architettura delle fronde secondo la più pura tradizione dei giardini italiani. Tutte le stampe più rare rappresentanti gli antichi disegni dei viali, delle aiole, delle pergole, dei tempietti di verzura, delle fontane erano state consultate per l’opera di restituzione. Poco mancava ancora perchè fosse compiuta. L’ultimo anno di sua vita Giuseppe Brambilla s’era proposto d’iniziare il restauro del Casino, là su, in alto, al termine della fontana gradinata, fra il ritmo delle balaustre e delle cariatidi.
Non giunse egli al termine della sua fatica. Chiuse gli occhi sul sogno incompiuto.
Queste parole vorrebbero essere oltre che una lode un monito. È possibile pensare che tanta armonia vada domani dispersa? È possibile che il Palazzo di Caprarola torni nell’abbandono in cui per troppi anni è rimasto?
È una lunga, vecchia questione: lo Stato italiano rivendica a sè la proprietà del Palazzo. È probabile che i diritti dell’Italia contro l’indifferenza degli attuali proprietari abbiano un giorno ragione. Ma da oggi a quel giorno tanta bellezza e ricchezza raccolta fra quelle mura deve rimanere intatta, così come l’ha attuata l’appassionato fervore d’uno spirito alto e sereno. Disperderla sarebbe un delitto. Vi pensi chi può.
ROBERTO PAPINI

 

CORRIERE ARCHITETTONICO

IL CINEMA REALE A MILANO
INGG. ARCH. OTTAVIO CABIATI E AMBROGIO GADOLA

Tra i vari recenti adattamenti o nuovi edifici per cinematografo, a Milano, il più riuscito è indubbiamente il Cinema Reale dove la fortunata collaborazione di un tecnico valente, il Gadola e di un artista, il Cabiati, ha superato lo sforzo della difficile costruzione e i rigidi regolamenti milanesi (un metro di porte di uscita ogni 40 spettatori) riuscendo ad un’opera omogenea, compiuta e nitida.
In una vecchia casa tra due strade, Carlo Alberto e via Tre Alberghi, per ricavare la Sala furono riuniti due cortili preesistenti sostenendo con travi il corpo di fabbrica intermedio che fu conservato; una galleria laterale permette lo sfogo del pubblico verso le due vie.
Tali strettissimi vincoli costruttivi furono la ragione della forma e dell’estetica della Sala; il grande soffitto a travi apparenti aderisce e lascia nettamente apparire le strutture portanti. Le due cupole elittiche scorrevoli su rotaie e apribili per la ventilazione, corrispondono ai cortili. Lo scomparto del soffitto è felice; la forma allungata della Sala m. 35 × 18 per un terzo tagliata dalla balconata, è ben suddivisa nel doppio partito delle cupole ed i rapporti dei volumi di tutta la Sala appaiono esatti.
Ammirevole è l’estrema semplicità riposante di tutta la decorazione alla quale nuoce forse qualche incertezza di forme nel profilo della balconata, in alcune aperture e in qualche elemento a rilievo del proscenio.
Nell’ingresso, le difficoltà planimetriche erano insuperabili; qualche sforzo appare; il tono della Sala non è raggiunto e taluni richiami stilistici nella decorazione e nell’arredo, non troppo omogenei, tolgono unità all’ambiente. G. M.

NOTE TECNICHE

La sala è capace di 1500 spettatori in perfette condizioni di visibilità. La struttura portante del soffitto è in ferro, mentre la balconata è in cemento armato a sbalzo su una trave mediana a due appoggi intermedi.
I calcoli statici, lo studio dei perfettissimi impianti tecnici e l’organizzazione del lavoro sono dell’Arch. Ing. Gadola assuntore delle opere. Tutto il lavoro compiuto in meno di un anno (1924) fu condotto senza interrompere l’uso di tutti i fabbricati sovrastanti, contingenza che aumentò le già notevoli difficoltà tecniche dell’opera.

A PROPOSITO DELLA FONTANA
DI PIAZZA GIULIO CESARE A MILANO

Siamo dolenti di dover ricorrere ad una rettifica per stabilire con esattezza la paternità di quest’opera milanese da noi pubblicata nel fascicolo di settembre.
Ci si informa - e purtroppo soltanto a pubblicazione avvenuta - che il merito della parte planimetrica, la sistemazione delle aiuole, e tutto lo studio per l’installazione idraulica devesi all’ingegnere Giovanni Trosti, del Comune di Milano.
Poichè, naturalmente, in una fontana ciò che maggiormente conta è il risultato del gioco d’acque, all’ingegnere Trosti debbono essere rivolte la principal parte delle lodi che manifestammo presentando la fontana stessa. F. R.

L’EDICOLA FUNERARIA MYLIUS
AL CIMITERO MONUMENTALE DI MILANO

Il giovanissimo architetto e scultore Enrico Mylius, ultimo erede di un nome illustre, si spegneva l’anno scorso non ancora venticinquenne, mentre stava erigendo, sua prima ed unica opera d’architettura, il sepolcreto di famiglia, nel quale per tragico destino doveva scendere primo.
Sorto sotto l’influsso dell’arte pensosa di Adolfo Wildt, di cui il Mylius era e si professava allievo devoto, il monumento, fra la moltitudine dei marmi pretensiosi che offendono nei cimiteri il culto dei morti, spicca come opera viva e arditamente originale: e pure lo anima, nelle semplici membrature, nelle nude arcate intrecciantisi sulla croce dell’altare, un soffio gentile di mistica poesia.
L’altare è la sola parte del monumento che il compianto architetto potè condurre a pieno termine: è ornato da bassorilievi di bronzo ch’egli stesso compose e modellò, curandone poi di persona la fusione. Alla ultimazione del monumento attese poi, rispettando in tutto con amorosa cura il pensiero e le linee tracciate dal defunto artista, lo stesso maestro suo Adolfo Wildt e il figlio Francesco. P. M.

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