UN PRECURSORE - LUCA CARIMINI
(1830 - 1890)
In questa nostra Rivista che è e vuol essere rivista di arte
viva, si torna assai spesso alle glorie del passato con notizie e documenti
fotografici che hanno un alto valore culturale, si pubblica quel che
si fa e quel che si progetta oggi bene o male; ma su tutto ciò
che si è fatto in materia di architettura e di arti decorative
nella seconda metà dell’ottocento nessuno ha fissato fin
qui la sua attenzione: “Roba sorpassata, vecchia e non ancora
sufficientemente nobilitata dal peso degli anni”.
E pure, cercare, trovare forse il legamento tra ciò che noi oggi
facciamo e sentiamo e le forme del passato che nell’arido elenco
degli stili si chiudono col “neoclassico”, sarebbe certo
interessante.
Diamo oggi uno sguardo all’edilizia romana dopo il settanta:
Mentre la grande architettura, muovendosi nel campo del neoclassico
e appoggiandosi volta a volta, al greco, al quattrocento, al cinquecento
ci dava opere del più freddo accademismo, se pure rispettabili
per sapienza di sagome e preziosità di dettagli, il costruir
case era divenuto mestiere; che di architetti avessero il titolo accademico
o meno coloro che si diedero alla costruzione dei dadi di cui la Roma
umbertina si è riempita, poco importa; essi facevano il mestiere:
non folli tanto da lasciarsi attrarre dalle pratiche manifestazioni
di quel razionalismo tecnico del Viollet le Duc che generava allora
nel resto di Italia e fuori un ibrido impasto di romanico-gotico su
schemi barocchi; ma mestieranti che, non sapendosi sottrarre all’atmosfera
di classicismo romana, seppero produrre ciò che di più
povero e scialbo si possa fare, chiusi fra le quattro regolette del
Vignola e le pastoie della più rigida economia.
Nacquero opere che neppure quel grande dispensatore di nobiltà
che è il tempo saprà mai nobilitare e che nessun trattatista
di domani potrà chiudere, per caratteristiche definite diverse
dalla loro miseria, in uno stile.
E ben venne per l’arte la crisi edilizia dell’ultimo scorcio
del sec. XIX a chiudere un periodo di attività deleterio per
l’urbanistica romana.
Al di sopra della bassa schiera si levano poche figure di architetti
che seppero ribellarsi all’esercizio bottegaio del mestiere e
che restituirono dignità di arte alle loro opere; notevole fra
tutte a me sembra la figura di Luca Carimini.
Nato di modesta famiglia di artieri il 4 Maggio 1830, inizia la sua
vita di lavoro entrando a 14 anni nella bottega di un oscuro marmista;
e sa così bene, per naturale intuito, trar di scalpello dalla
pietra ornati ed intagli, che a sedici anni è chiamato a collaborare
da Pietro Romaggi che passava allora per essere in Roma il migliore
dei marmisti. E il giovanetto si dà a intagliar candeliere e
stemmi per le architetture degli altri e comincia a concepir egli stesso
targhe e monumenti funerari; dalla lapide passa alla stele, e da questa
alla cappella; egli può ormai affidare lo scalpello ai suoi allievi
e darsi a più grandi opere: egli è architetto. E dall’Archiginnasio
della Sapienza ha il riconoscimento delle nuove capacità acquisite.
Per seguire il cammino compiuto dal Carimini e lo sviluppo della sua
personalità nel giro di pochi anni, gioverebbe seguire l’opera
sua diligente e scolastica dapprima, sobria e sapiente nella complessità
della concezione architettonica di poi, a traverso il quadriportico
del Vespignani: lì, sotto le ampie arcate e fra i cipressi dei
viali adiacenti, troveremmo il Carimini sapiente intagliatore e il Carimini
architetto (fig. 1, 2, 3, 4, 5, 6).
Ma è di quest’ultimo e nelle maggiori manifestazioni della
sua arte che vogliamo intrattenerci.
Nato artiere - a somiglianza dei gloriosi maestri di fabbrica della
prima rinascenza che guidavano le maestranze con l’archipendolo
e l’asta di misura e che sapevano attardarsi nell’opera
dello scalpello creando la più vaga ornamentazione che dalla
pietra sia fiorita dopo l’arte greca - il Carimini disegna poco
e vive molto in fabbrica: sui ponti, fra il muratore e lo scalpellino,
là è il suo posto.
Ho rovistato le carte ingiallite che in religione custodisce il figlio
di lui: non sono dei bei disegni: sono dei chiari, dei nitidi disegni:
un mezzo; ma anche come mezzo più che il disegno sentiva egli
la plastica: sono andati distrutti i suoi modelli: uno ne resta e dell’opera
maggiore da lui ideata e non più eseguita; il palazzo di Giustizia
in Roma.
Nel tempo in cui tutti o quasi fanno alla facilona del cattivo rinascimento
egli sente il rinascimento; e fa dell’archtettura che è
sua. Nato scalpellino, detesta la falsità degli intonachi; di
pietra e di vivo muro di mattoni son fatte le sue fabbriche; se tollera
l’intonaco, non se ne vale per fare quello o più di quello
che si potrebbe far con la pietra, ma gli assegna la modesta razionale
funzione di rivestimento di superficie liscia o lievemente bugnata;
e se in mezzo alla superficie intonacata tu scopri un capitello o una
cornice, e quella è di pietra! E di pietra doveva essere la volontà
dell’architetto, se seppe resistere alle lusinghe di valersi,
come tutti facevano e fanno, dell’intonaco come mezzo agile di
espressione a più complesse architetture.
È questa una caratteristica appariscente della architettura del
Carimini: la più assoluta sincerità nell’impiego
dei materiali. Ma ciò che è veramente notevole in lui
e che lo pone fuori del suo tempo e a noi più vicino è
la ricerca degli effetti nel movimento delle grandi masse, nei rapporti
fra pieni e vuoti.
In un tempo, in cui di tutti gli stili è livellatore un indomabile
substrato di neoclassico, egli sa trarre dalle necessità di pianta
una architettura nuova; e con rigido razionalismo la veste di forme
rinascimento non burocratizzate, ma vive, sentite e sapientemente schematizzate.
Adotta egli frequentemente lo schema di edificio a cortile aperto, schema
insolito ai suoi tempi; rinuncia ai lenocini dei piccoli aggetti di
corpo di fabbrica che non son legati al movimento di pianta, ma che
nascon dalle grossezze di intonaco; varia sapientemente e il tipo e
l’interasse e l’ampiezza delle finestre; detesta la fabbrica
livellata a unica altezza; trae partito dal gioco delle masse, da i
porticati a uno o più ordini e dalle rampe esterne di scala e
dalle nude pareti delle recinzioni.
E non son queste fra le risorse migliori dell’architettura viva
di oggi?
È a Roma di lui tutto un gruppo di edifici monastici, in cui
egli seppe legare il motivo della chiesa con quello del convento in
una unità di concezione veramente mirabile: così nel collegio
di S. Antonio in Via Merulana, ove il bel portico cinquecentesco in
travertino si appoggia al nudo prospetto a cortina della chiesa, ravvivato
solo dalla leggiadria delle finestre a sesto circolare cui si alternano
vaghe formelle decorative.
E il prospetto è sapientemente chiuso dal verticalismo delle
ali del convento che si affacciano con le loro finestre crociate e i
portichetti ad archi girati su colonne ad accentuare la monumentalità
del motivo centrale e a creare l’innesto fra la casa e la chiesa
(figg. 7, 8, 9).
Nel Collegio delle Piccole Suore dei Poveri a S. Pietro in Vincoli,
della chiesa emerge la parte abisidale, fiancheggiata dalle due testate
di edificio la cui esilità è corretta dall’aggetto
della cornice che ne distacca l’ultimo piano in forma di attico
(fig. 10); e il convento si apre verso il quieto giardino col suo portico
reso vario dall’adozione dell’ordine doppio sulla fronte
maggiore e semplice sui fianchi (fig. 11).
Serba lo stesso schema del cortile aperto il collegio Canadese in Via
S. Vitale, meno ricco degli altri di trovate architettoniche, ma sereno
e composto nella eleganza del porticato ad archi su cui gira una loggia
a colonne (fig. 12).
La nudità della architettura della piccola chiesa di S. Giuseppe
di Cluny è tutta ravvivata dal movimento della scala di accesso
che si innesta al protiro ricco di sottili modanature e fiancheggiato
da pilastrate marmoree a nicchie (figg. 13, 14).
Quando il Carimini è costretto a rinunciare a quel movimento
delle masse che è la maggiore risorsa della sua architettura,
egli si tiene rigidamente agli schemi del rinascimento. Non sono queste
le opere sue migliori; così nel palazzo Blumensthil al Lungotevere
dei Mellini, improntato a un quattrocento un po’ freddino, così
nel palazzo Brancaccio in Via Merulana, che è fra le sue opere
quella di più grande mole.
Dei maestri di fabbrica della prima rinascenza il Carimini ha tutte
le qualità; ed anche i difetti. Sente egli pittoricamente le
masse; ha gustoso e nitido il dettaglio; ma allo studio del grande organismo
architettonico la sua arte sottile sembra a volte immatura.
Appunto a Palazzo Brancaccio non ritroviamo nè la semplicità
nè la sapienza nella distribuzione di masse e nella ricerca di
rapporti che rende mirabili le opere conventuali del Carimini: spingendosi
nella forma alla rinascenza piena, egli resta, suo malgrado, un quattrocentista
(fig. 15).
L’attività del Carimini ebbe campo di esplicarsi anche
fuori d’Italia: a Varsavia, nella Cappella Sebiecki, e nel Sud
Amemerica, ove egli progettò e costruì la chiesa di Pernambuco;
in questa la sua arte tenta nuove vie e raggiunge uno schematismo di
composizione cui male si accorda il motivo di finestra trifora fiancheggiata
da nicchie della testata del transetto (fig.17).
Arrideva a lui il successo di fortunati incarichi quando gli fu ordinato
di progettare il nuovo palazzo di Giustizia che doveva erigersi in Roma,
là dove ora sorge la mole Calderiniana (figg. 18, 19, 20).
Egli pose nell’ardua fatica tutto sè stesso: ne fanno fede
i racconti dei suoi famigliari; ne fa fede sopratutto il magnifico progetto
con cui si conclusero le sue fatiche.
Ho posto davanti all’obbiettivo del fotografo il modello eseguito
in legno con minuzia coscienziosa e purtroppo già guasto in più
parti; e nel vederlo al sole, brillante di luce e di ombre, mi son chiesto
se all’arte italiana abbia giovato quel bando di concorso che
costrinse il Carimini a chiudersi in un dignitoso riserbo e a relegare
il modello, frutto di tanto sapienti fatiche, in un soppalco, fra le
cose dimenticate.
Sentì egli profondamente il tema; e seppe immaginare una architettura
la cui rigida severità è piena di armonia. Osserviamo
la fronte principale (fig. 19) animata dall’alta torre a base
quadrata: è un pezzo di Sangallo, e pure non è copia di
nulla; è palazzo pubblico, ma ha tanta nobiltà da non
poter servire che una sola padrona; è antico ed è moderno;
è italianamente, profondamente bello.
Meno felici il fianco ed il retrospetto. Qualche incertezza di composizione,
qualche deficienza di legamento fra le testate dei varî corpi
di fabbrica concorrono a riaffermare la personalità di Luca Carimini:
anima di quattrocentista - non imitatore del quattrocento.
VITTORIO MORPURGO
ELENCO DELLE OPERE PIÙ NOTEVOLI DI LUCA CARIMINI
a) Monumenti e Cappelle funebri al Verano in Roma:
Monumento a Bartolomeno Palagi, Tommasi, Bracci, Morichini, Sanlini,
Adamo Colonna, De Belardini, D’Amico, Venier e Marignoli. - Cappella
Lais, Vannutelli, Chiassi, Carimini, Di Cette, Blumensthil, D’Arcangeli,
delle Comunità Francesi Sangue Sparso.
b) Costruzioni di nuovi fabbricati e restauri in Roma e dintorni:
Ss. Apostoli, Cripta - Santa Maria di Loreto al Foro Traiano, restauri
della Chiesa con Cantoriee nuova Sacrestia. - Chiesa degli Spagnoli
al Circo Agonale, restauro e nuovo fabbricato in Via della Sapienza.
- Chiesa e collegio di Santa Chiara, (sono del Carimini la facciata
della Chiesa, tre altari e il fabbricato del Collegio). - Chiesa dei
Genovesi in Trastevere, soltanto l’interno. - Chiesa e Collegio
di Sant’Antonio, in Via Merulana. - Chiesa e Collegio di San Giuseppe
di Cluny, in Via Leonardo da Vinci. - Chiesa e Collegio Canadese, in
Via Quattro Fontane. - Chiesa e Collegio delle Piccole Suore dei Poveri,
in Via San Pietro in Vincoli. Chiesa di San Ivo, in Via della Campana.
Fabbricato della Divina Provvidenza, in Piazza Fiammetta. Palazzo Brancaccio,
in Via Merulana (facciata interna ed esterna e vestibolo). - Palazzo
Blumensthil, al Lungotevere Mellini. - Chiesa di Porto d’Anzio,
Pulpito. - Cattedrale di Trevi. - Chiesa nel Cimitero di Bracciano.
c) Opere eseguite all’estero;
Cappella Giovanni Sobiecki a Varsavia. - Cattedrale di Belem (Brasile),
restauro. - Chiesa di Pernambuco (Sud America). - Altare Monumentale
nella Chiesa di Santiago (Chile).