FASCICOLO IX - MAGGIO 1928
ADAMO BOARI : Le chiese del Messico, con 16 illustrazioni

CHIESE DEL MESSICO

L’articolo che pubblichiamo, che, con rara competenza e con diretta conoscenza dei luoghi e dei monumenti, riassume i risultati di una grandiosa opera illustrativa redatta a cura del Governo del Messico, è purtroppo l’ultimo scritto del compianto Architetto Adamo Boari, che Egli ha voluto inviarci poco prima della sua morte, avvenuta il 22 febbraio del corrente anno. È quasi il saluto all’Architettura di quest’uomo che tanto ha onorato la nostra Arte ed il nostro Paese coi suoi lavori, di cui il grande teatro del Messico, rimasto ancora incompleto, è senza dubbio il più importante e grandioso. A lui si rivolga, nel leggere il suo scritto, il pensiero di rimpianto e di riconoscenza degli architetti italiani.
N. d. D.

Una importantissima pubblicazione in cinque volumi riccamente illustrati, preparata con gran lusso a cura del Governo dello Stato del Messico, dal Dott. Atl per la parte storico-artistica a dai Sig. Kahlo, Muñoz, Campos ed altri per le fotografie, i disegni, i rilievi architettonici, è venuta recentemente a presentare al pubblico degli artisti e degli studiosi, tutta una magnifica serie di edifici chiesastici barocchi sparsi nella vasta regione messicana.
Non sarà certo discaro ai nostri lettori aver nozione di alcuni elementi di questa così interessante produzione con le illustrazioni che qui si presentano, tratte dalla pubblicazione anzidetta. Stranamente uniti troveremo in tali opere concetti italiani ed un sentimento vivace ed originalissimo, che traspare, ora ingenuo, ora raffinatissimo, nelle forme e negli ornati e che emana dall’antica anima di un grande popolo, il messicano.

L’archeologia nel Messico ha avuto molti ed insigni cultori, tra i quali un italiano, il Caballero Boturini, che fondò il primo museo d’arte precolombiana. Ma la civiltà dei Mayas, dei Toltechi, dei Zapotechi è rimasta oscura ed impenetrabile: oscura - volendo usare un confronto di attualità - come le origini del petrolio che scaturisce, denso e prezioso, da profondissimi strati senza lasciare traccia della sua formazione attraverso le età geologiche. Non altrimenti avviene delle origini della nostra civiltà etrusca.
È appunto il fascino racchiuso in ogni segreto che acuisce il furore delle indagini. Per esempio, recentemente, da tutto il mondo sono accorsi gli amatori di rovine nella vallata di Teotihuacàn, per scrutare le terribili teste scultoriche del serpente Quetzalcoatl che ricoprono da cima a fondo la piramide del Sole.
Mentre i nuovi esegeti - in gran parte americani - si affannano ad interpretare i geroglifici dell’antico Messico, l’Egitto del nuovo mondo, altri studiosi con più chiara visione s’interessano dell’arte postcolombiana, piena di luce propria: arte che ebbe chiare origini in Italia.
L’albero genealogico dell’architettura romana - albero che non morirà mai - dopo quasi un millennio di scarsi germogli, diede due stupende fioriture - gli stili del Rinascimento e del Barocco - che estesero le ramificazioni oltre i confini dell’antico impero romano.
Quando Hernàn Cortèz conquistò il Messico, vi importò colubrine e cavalli, mai colà veduti; ma insieme ai guerrieri sbarcò pure avvocati e missionari.
Prima, gli umili frati seguaci di San Francesco, con povertà: poi gli Agostiniani, con fasto e ricchezza, costruirono chiese ed altari. Dove erano gli antichi idoli piantarono la Croce, con il grido fatidico che Roma Papale aveva scolpito sull’obelisco di Nerone “ecce crux Domini, fugite partes adversae”.
Il Dottore Atl nella bellissima e completa monografia sopra le chiese del Messico testè citata calcola in 4000 il numero delle Chiese, oltre alle centinaia di Conventi, costruiti dalla metà del secolo XVI alla fine del XVII. Si prova l’impressione, egli dice, che tutte le attività fossero concentrate nel culto: “la impresiòn de que el pais entero no se ocupaba màs que de construir iglesias”.
Questo abbondantissimo materiale di architettura religiosa offre un complesso di elementi d’arte che meriterebbero di essere ampiamente volgarizzati.

Il modello dello stile delle chiese messicane proviene dunque dall’Italia, passando per la penisola Iberica. È lo stile barocco che nella Spagna sente gli influssi del plateresco e del churriguerresco: in Germania assume il manierismo pesantissimo di Fischer von Erlach: in Francia si modifica in rococò leggiadro - usando l’aggettivo di Antonio Muñoz, l’illustratore di “Roma Barocca”.
L’architetto di Filippo II, prima di costruire “el Escorial” era venuto in Italia a studiarvi i capolavori della Rinascenza. Non così fece Josè Churriguerra, fondatore della famosa scuola Salamantina: ingegno bizzarro che amalgamò il rinascimento con il gotico e con il barocco. Da questo miscuglio è risultato lo stile plateresco, rassomigliante al nostro veneziano perchè conserva molte reminiscenze degli stili orientali.
Poi, l’influenza dello stile cattolico durante le grandi epoche Berniniane e Borrominiane fu decisiva nella Spagna, come lo dimostrano le opere di Pedro Ribera, di Narciso Tomè, di Miguel de Figueroa e del frate Manuel Vazquez, il quale rompendo ogni freno, diede corso alla più esaltata fantasia decorativa.
È palese l’imitazione di questi maestri per parte degli architetti messicani Alonso Perez, Gomez de Trasmonte, De Domingo Arrieta, De Francisco Guerrero e Torres Damia Ortiz, se si analizzano le piante e le disposizioni della famosa Cattedrale della Città di Messico, dell’altra famosa di Puebla e di quasi tutte le chiese di grande mole. Ma, nella maggior parte delle costruzioni minori, dove non sono arrivati, con l’accademia, i dogmi scolastici e dove perfino è rimasto sconosciuto il nome degli artefici, prevale un’arte spontanea e quindi di grande originalità che si manifesta sopratutto nelle cupole e negli altari.
La qualità massima di questa architettura coloniale è la policromia, che non può essere riprodotta dalle fotografie e nemmeno dalle tricromie.
Il vastissimo altipiano del Messico che raggiunge duemila metri d’altezza sopra il mare, è pieno di abbagliante luce e quindi di vibrazioni colorate. Bisogna ammirarle nell’ambiente codeste cupole incrostate di majoliche a tinte vivaci - azulejos - che si profilano sopra un cielo turchino intensissimo che ricorda il nostro cielo di Venezia. (Come si vedrebbero le merlature della Cà d’Oro, trasportate in altro cielo?).
Ma lo stile barocco perde la sua consistenza costruttiva e diviene superbarocco nell’interno delle chiese sorte nelle regioni più ricche, in vicinanza delle miniere d’oro e d’argento.
Sembra anzi che il fasto dell’altare scintillante di ori e di pietre opaline sia il guiderdone dato a Dio perchè conceda ai minatori una “bonanza” ossia un filone aurifero.
Stilisticamente, codesta architettura superbarocca è una deformazione, una ribellione incomposta ai moduli, senza trabeazione, senza scala di rapporti, e perfino con sagome rovescie e con capitelli capovolti.
Jeraticamente invece essa suscita una commozione indefinibile, quasi orchestrale. L’analisi critica cessa e subentra uno stato d’animo di misticità davanti a queste grandi icone, dove in un intreccio di rami dorati sono collocate statue di santi, di eroi, di guerrieri, di arcangeli - di differente altezza a seconda del loro potere taumaturgico - con riflessi di tuniche seriche, con iridescenze di ali, con toni policromatici ad arcobaleno, con le fiammelle sempre accese e stellanti sulle lampade votive d’argento e sui candelabri cesellati.
È tutto un fulgore di arte barbarica che ha sopraffatto l’arte scolastica. Solamente presenti nelle silenziose chiese, si può intendere di dove scaturisca quest’arte barbarica, fissando il meschino indiano, che inginocchiato sul suo “sarape” tende il saluto biblico - saluto romano - con le due mani alzate verso il “todopoderoso”, nella casa di Dio tutta oro, mentre la propria dimora vicino alla chiesa è un tugurio di foglie di palma.
Gli artefici abilissimi di codeste chiese, che noi chiamiamo di stile superbarocco, non sono per discendenza gli stessi aborigeni che scolpirono con gli scalpelli di obsidiana i mirabili altorilievi nei loro Cù e Teocalli?
Il carattere esotico che si rivela in queste imitazioni di motivi europei settecenteschi, non è a caso il ritorno perpetuo di ogni artista incosciente verso arti primitive?
Noi, retori accademici, a disagio possiamo ragionare delle arti barbariche, forse le uniche vere, perchè spontanee e non contaminate.

Roma, gennaio 1928.

ADAMO BOARI.

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