CHIESE DEL MESSICO
L’articolo che pubblichiamo, che, con rara competenza e con diretta
conoscenza dei luoghi e dei monumenti, riassume i risultati di una grandiosa
opera illustrativa redatta a cura del Governo del Messico, è
purtroppo l’ultimo scritto del compianto Architetto Adamo Boari,
che Egli ha voluto inviarci poco prima della sua morte, avvenuta il
22 febbraio del corrente anno. È quasi il saluto all’Architettura
di quest’uomo che tanto ha onorato la nostra Arte ed il nostro
Paese coi suoi lavori, di cui il grande teatro del Messico, rimasto
ancora incompleto, è senza dubbio il più importante e
grandioso. A lui si rivolga, nel leggere il suo scritto, il pensiero
di rimpianto e di riconoscenza degli architetti italiani.
N. d. D.
Una importantissima pubblicazione in cinque volumi riccamente illustrati,
preparata con gran lusso a cura del Governo dello Stato del Messico,
dal Dott. Atl per la parte storico-artistica a dai Sig. Kahlo, Muñoz,
Campos ed altri per le fotografie, i disegni, i rilievi architettonici,
è venuta recentemente a presentare al pubblico degli artisti
e degli studiosi, tutta una magnifica serie di edifici chiesastici barocchi
sparsi nella vasta regione messicana.
Non sarà certo discaro ai nostri lettori aver nozione di alcuni
elementi di questa così interessante produzione con le illustrazioni
che qui si presentano, tratte dalla pubblicazione anzidetta. Stranamente
uniti troveremo in tali opere concetti italiani ed un sentimento vivace
ed originalissimo, che traspare, ora ingenuo, ora raffinatissimo, nelle
forme e negli ornati e che emana dall’antica anima di un grande
popolo, il messicano.
L’archeologia nel Messico ha avuto molti ed insigni cultori,
tra i quali un italiano, il Caballero Boturini, che fondò il
primo museo d’arte precolombiana. Ma la civiltà dei Mayas,
dei Toltechi, dei Zapotechi è rimasta oscura ed impenetrabile:
oscura - volendo usare un confronto di attualità - come le origini
del petrolio che scaturisce, denso e prezioso, da profondissimi strati
senza lasciare traccia della sua formazione attraverso le età
geologiche. Non altrimenti avviene delle origini della nostra civiltà
etrusca.
È appunto il fascino racchiuso in ogni segreto che acuisce il
furore delle indagini. Per esempio, recentemente, da tutto il mondo
sono accorsi gli amatori di rovine nella vallata di Teotihuacàn,
per scrutare le terribili teste scultoriche del serpente Quetzalcoatl
che ricoprono da cima a fondo la piramide del Sole.
Mentre i nuovi esegeti - in gran parte americani - si affannano ad interpretare
i geroglifici dell’antico Messico, l’Egitto del nuovo mondo,
altri studiosi con più chiara visione s’interessano dell’arte
postcolombiana, piena di luce propria: arte che ebbe chiare origini
in Italia.
L’albero genealogico dell’architettura romana - albero che
non morirà mai - dopo quasi un millennio di scarsi germogli,
diede due stupende fioriture - gli stili del Rinascimento e del Barocco
- che estesero le ramificazioni oltre i confini dell’antico impero
romano.
Quando Hernàn Cortèz conquistò il Messico, vi importò
colubrine e cavalli, mai colà veduti; ma insieme ai guerrieri
sbarcò pure avvocati e missionari.
Prima, gli umili frati seguaci di San Francesco, con povertà:
poi gli Agostiniani, con fasto e ricchezza, costruirono chiese ed altari.
Dove erano gli antichi idoli piantarono la Croce, con il grido fatidico
che Roma Papale aveva scolpito sull’obelisco di Nerone “ecce
crux Domini, fugite partes adversae”.
Il Dottore Atl nella bellissima e completa monografia sopra le chiese
del Messico testè citata calcola in 4000 il numero delle Chiese,
oltre alle centinaia di Conventi, costruiti dalla metà del secolo
XVI alla fine del XVII. Si prova l’impressione, egli dice, che
tutte le attività fossero concentrate nel culto: “la impresiòn
de que el pais entero no se ocupaba màs que de construir iglesias”.
Questo abbondantissimo materiale di architettura religiosa offre un
complesso di elementi d’arte che meriterebbero di essere ampiamente
volgarizzati.
Il modello dello stile delle chiese messicane proviene dunque dall’Italia,
passando per la penisola Iberica. È lo stile barocco che nella
Spagna sente gli influssi del plateresco e del churriguerresco: in Germania
assume il manierismo pesantissimo di Fischer von Erlach: in Francia
si modifica in rococò leggiadro - usando l’aggettivo di
Antonio Muñoz, l’illustratore di “Roma Barocca”.
L’architetto di Filippo II, prima di costruire “el Escorial”
era venuto in Italia a studiarvi i capolavori della Rinascenza. Non
così fece Josè Churriguerra, fondatore della famosa scuola
Salamantina: ingegno bizzarro che amalgamò il rinascimento con
il gotico e con il barocco. Da questo miscuglio è risultato lo
stile plateresco, rassomigliante al nostro veneziano perchè conserva
molte reminiscenze degli stili orientali.
Poi, l’influenza dello stile cattolico durante le grandi epoche
Berniniane e Borrominiane fu decisiva nella Spagna, come lo dimostrano
le opere di Pedro Ribera, di Narciso Tomè, di Miguel de Figueroa
e del frate Manuel Vazquez, il quale rompendo ogni freno, diede corso
alla più esaltata fantasia decorativa.
È palese l’imitazione di questi maestri per parte degli
architetti messicani Alonso Perez, Gomez de Trasmonte, De Domingo Arrieta,
De Francisco Guerrero e Torres Damia Ortiz, se si analizzano le piante
e le disposizioni della famosa Cattedrale della Città di Messico,
dell’altra famosa di Puebla e di quasi tutte le chiese di grande
mole. Ma, nella maggior parte delle costruzioni minori, dove non sono
arrivati, con l’accademia, i dogmi scolastici e dove perfino è
rimasto sconosciuto il nome degli artefici, prevale un’arte spontanea
e quindi di grande originalità che si manifesta sopratutto nelle
cupole e negli altari.
La qualità massima di questa architettura coloniale è
la policromia, che non può essere riprodotta dalle fotografie
e nemmeno dalle tricromie.
Il vastissimo altipiano del Messico che raggiunge duemila metri d’altezza
sopra il mare, è pieno di abbagliante luce e quindi di vibrazioni
colorate. Bisogna ammirarle nell’ambiente codeste cupole incrostate
di majoliche a tinte vivaci - azulejos - che si profilano sopra un cielo
turchino intensissimo che ricorda il nostro cielo di Venezia. (Come
si vedrebbero le merlature della Cà d’Oro, trasportate
in altro cielo?).
Ma lo stile barocco perde la sua consistenza costruttiva e diviene superbarocco
nell’interno delle chiese sorte nelle regioni più ricche,
in vicinanza delle miniere d’oro e d’argento.
Sembra anzi che il fasto dell’altare scintillante di ori e di
pietre opaline sia il guiderdone dato a Dio perchè conceda ai
minatori una “bonanza” ossia un filone aurifero.
Stilisticamente, codesta architettura superbarocca è una deformazione,
una ribellione incomposta ai moduli, senza trabeazione, senza scala
di rapporti, e perfino con sagome rovescie e con capitelli capovolti.
Jeraticamente invece essa suscita una commozione indefinibile, quasi
orchestrale. L’analisi critica cessa e subentra uno stato d’animo
di misticità davanti a queste grandi icone, dove in un intreccio
di rami dorati sono collocate statue di santi, di eroi, di guerrieri,
di arcangeli - di differente altezza a seconda del loro potere taumaturgico
- con riflessi di tuniche seriche, con iridescenze di ali, con toni
policromatici ad arcobaleno, con le fiammelle sempre accese e stellanti
sulle lampade votive d’argento e sui candelabri cesellati.
È tutto un fulgore di arte barbarica che ha sopraffatto l’arte
scolastica. Solamente presenti nelle silenziose chiese, si può
intendere di dove scaturisca quest’arte barbarica, fissando il
meschino indiano, che inginocchiato sul suo “sarape” tende
il saluto biblico - saluto romano - con le due mani alzate verso il
“todopoderoso”, nella casa di Dio tutta oro, mentre la propria
dimora vicino alla chiesa è un tugurio di foglie di palma.
Gli artefici abilissimi di codeste chiese, che noi chiamiamo di stile
superbarocco, non sono per discendenza gli stessi aborigeni che scolpirono
con gli scalpelli di obsidiana i mirabili altorilievi nei loro Cù
e Teocalli?
Il carattere esotico che si rivela in queste imitazioni di motivi europei
settecenteschi, non è a caso il ritorno perpetuo di ogni artista
incosciente verso arti primitive?
Noi, retori accademici, a disagio possiamo ragionare delle arti barbariche,
forse le uniche vere, perchè spontanee e non contaminate.
Roma, gennaio 1928.
ADAMO BOARI.