FASCICOLO IV - DICEMBRE 1928
PLINIO MARCONI : Commento all'Esposizione di Torino 1928, con 39 illustrazioni

COMMENTO ALL’ ESPOSIZIONE DI TORINO 1928

Nel fascicolo di aprile di quest’anno, in occasione dell’inaugurazione dell’Esposizione di Torino, abbiamo illustrato i criteri informatori generali di essa, abbiamo offerto i dati metrici e planimetrici più importanti della zona edificata e dei singoli padiglioni, e date brevi notizie sulle caratteristiche estetiche essenziali dell’insieme.
In seguito, nella rubrica delle pagine sindacali, abbiamo messo in rilievo l’importanza della realizzazione dal punto di vista organizzativo e sindacale.
Ora, ad esposizione chiusa, è opportuno tornare sul tema per illustrarlo nei suoi aspetti, non ancora noti, valutarne la portata e trarre le conclusioni.

Non aggiungeremo nulla al già illustrato, per quanto riguarda la planimetria generale della mostra ed i dati metrici e planimetrici dei singoli padiglioni.
È ovvio che, trattandosi di costruzioni provvisorie e volte ad ospitare le più svariate manifestazioni di attività senza possibilità di predisposta precisa attribuzione, tali dati offrono scarso interesse.
Non esiste dunque un interesse tecnico. Si tratta di scenografia, generalmente adeguata al mezzo costruttivo presupposto (per lo più il cemento armato) data la competenza dei progettisti, ma non chiusa da responsabilità d’ordine realizzativo.
Il valore della mostra ed il suo contributo vanno invece cercati in due altri aspetti; l’uno, d’ordine si potrebbe dire morale, l’altro d’ordine architettonico-decorativo, aspetti che potrebbero sembrare l’un l’altro estranei ed invece non sono.

Dunque a Torino si è da qualche tempo formato un gruppo di giovani architetti i quali sono capaci di lavorare insieme: significa che, nella incertezza delle direttive dell’arte nazionale e locale, ha potuto determinarsi anche là una concorde simpatia di gusti e di tendenze fra numerosi artisti. La prima cosa infatti che colpisce il visitatore dell’Esposizione e che la differenzia dalle sue precedenti, all’infuori e magari contro il valore in sè stesso delle singole fabbriche, è l’omogeneità dell’ispirazione architettonica.
Il fatto non è nuovo: con attitudini assai diverse od anche inverse e con maggiore maturità esso si è verificato altrove specialmente nell’Italia settentrionale.
L’uscire dal singolo per assumere valori collettivi, il passare successivamente e con generale coerenza da un indistinto a un distinto, significa per l’architettura approfondimento e formazione di carattere.
Purchè tali correnti di gusti finiscano di costituire, come fu talvolta, una moda od un’impostazione retorica (ed esiste una retorica dell’avvenire come ci sono quelle del passato), purchè esse riescano a possedere e per conseguenza ad esprimere vita interiore sufficiente, cioè a fondarsi su realtà sostanziali, sentite in profondità e non assunte troppo facilmente dal di fuori e con obiettivi estranei; alla determinazione dei gruppi d’artisti con un dato orientamento, al loro confronto, al loro cozzo, ed al lottante contemperamento, dovrebbero seguire formazioni su basi comuni sempre più vaste, fino alla maturazione di un minimo denominatore comune a tutta l’architettura italiana.
È senza dubbio questa la via verso la rinascita dell’arte nostra dal caos e dall’accademica nullità a cui fino a non molto tempo fa era ridotta.
È dunque notevole la tendenza alla formazione di ben delineate correnti stilistiche a cui accennammo e molto attendiamo dal propagarsi e dal generalizzarsi di essa, in guisa da saldare il vuoto attualmente esistente attorno a brillanti ingegni, i quali, precorrono e tentano precorrere isolatamente ed ecletticamente.

Consideriamo poi la Mostra di Torino nel suo aspetto architettonico-decorativo.
Nell’insieme essa reca, antecedentemente alla valutazione dei pregi stilistici, una favorevole impressione di freschezza, talvolta un pò nuda e secca, di giovanile vivacità, di una certa acerba spregiudicatezza.
Il gruppo dei progettisti ha dato a sè stesso il titolo di «novatore ».
Dunque, tendenza alla novità ad ogni costo? Retorica del diverso dall’esistente? Un pò, senza dubbio.
Ma bisogna tener conto dell’ambiente. Non esiste città che inviti, come Torino, a sfuggire, anche contro la possibilità, al passato. Non volendo parlare di scarse traccie d’epoche più remote, oltre Palazzo Madama, il nucleo degli altri palazzi regali del centro e le chiese del Juvara, che già rappresentano l’estremo limite della forza barocca, null’altro possiamo godere del passato a Torino, che ha il pregio urbanistico ed il difetto architettonico d’appartenere, così com’è, quasi tutta al Secolo XIX.
Dalle infinite distese di portici pseudoclassici alle sorde pareti dei casoni d’affitto senza alcun carattere, dalle ville dei quartieri di lusso, goticheggianti e pseudobarocche, rococò e moresche, alle casette di Valsalice, ove fiorisce il tritume mediovaleggiante ed il pittoresco di maniera; tutto a Torino invita ad uscire dove non si veda alcuna casa.
La sapienza mal digerita ha ivi rimasticato senza discernimento tutta la storia dell’architettura e non ha potuto trovare una via d’uscita.
È comprensibile che all’arte brutta riesca più gradita la sua assenza, e che sia più simpatica una visita alle fumose officine della Dora, potenti nella loro grigia aridità, od alla Fiat, gelida nella sua meccanicità, ad una passeggiata lungo il Corso Vittorio Emanuele.
Si capisce allora come il desiderio di novità integrale dei giovani non trovi alcuna resistenza e critica nel pubblico e nei clienti, e, poichè il nuovo non s’inventa lì per lì, come esso cominci a realizzarsi con soluzioni immature od aderendo a forme acquisite in altro paese.
Certo, a quest’ultimo proposito, bisogna procedere cum grano salis. È appena necessario constatare che l’Europa non è più evidentemente nelle condizioni del Medio Evo, quando un paese era diviso dall’altro da settimane di diligenza ed i viaggiatori, a parte le invasioni militari, si contavano sì e no a decine; quando non esistevano giornali e riviste: allora i principï sociali, gli elementi del pensiero, della sensibilità, della tecnica, erano suscettibili di tenaci localizzazioni, con radicali diversità. Ora invece gli scambi, i contributi, le interferenze, così delle strutture architettoniche, come di tutti gli altri elementi della vita e della coltura, fatali ed indispensabili in ogni tempo al progresso collettivo, sono e debbono essere assai più immediati.
Specialmente i nuovi materiali costruttivi ed i dispositivi tecnico-distributivi dei più moderni tipi di fabbricati, adottati contemporaneamente nei vari paesi sotto l’impulso di identici bisogni e ritrovati economici, sociali, industriali, scientifici, è naturale non possano essere usati in modo radicalmente diverso nell’uno e nell’altro luogo. Le differenziazioni avverranno più in superficie, ed è in tal caso molto difficile definire a priori quali debbano essere da un punto di vista estetico i caratteri specifici di esse, e quale punto d’appoggio debbano possedere nelle tradizioni per essere appunto loro aderenti. In arte prima nasce il fatto indi il giudizio; nei giudizi preventivi si arrischia di incorrere in gravi errori di formalismo e la teorizzazione anticipata, vizio del secolo, è sempre uno sbaglio. Ma che una differenziazione debba effettivamente esistere è indubbio, giacchè l’architettura, come arte plastica, si riconnette a tutta la natura sensibile del nostro spirito e, come tale, risente le effettive diversità dei caratteri individuali e quindi nazionali. L’internazionalismo artistico resta un non senso, non per virtù di dogmi preconcetti, ma per merito della stessa natura dell’attività creatrice.
Un vero artista, ad es. italiano, adopera il cemento armato nello stesso modo del collega tedesco, ma, se tien conto dei concreti dati di fatto relativi all’ambiente, e sopratutto della propria sensibilità, fa, anche non volendolo, cosa italiana.
Il plagio si svela immediatamente e qualifica l’assenza di forza creatrice dell’autore, così come tale assenza può essere qualificata dal plagio dell’antico, se l’antico sia grettamente riprodotto e non ricreato e trasformato in cosa nuova. L’architetto che possiede la stoffa, dopo l’indispensabile esauriente preparazione sull’arte del passato, con la quale l’arte del futuro è naturale non debba presentare soluzioni di continuo, non ha nulla a temere dallo studio della produzione straniera; anzi, essa gli può recare il prezioso contributo di elementi organici derivanti da una maggiore intensità e perfezione di vita sociale. La veste di cui è suscettibile la sostanza acquisita, diverrà, s’egli è forte, del tutto sua in breve tempo.
Tornando alla Mostra di Torino, si può osservare che in qualche padiglione l’evidente ispirazione forestiera non è sufficientemente digerita e rivissuta: ci auguriamo, alla prossima prova, di assistere a dei progressi in tal senso.

Non sembra necessario rendere ulteriormente evidenti le caratteristiche architettoniche delle varie costruzioni, a cui, d’altronde, si accennò nell’articolo precedente.
In alcune di esse, come ad es. l’ingresso dal Corso Raffaello, la bottega del Vino, il padiglione dell’Agricoltura, quello delle industrie di Sardegna, il padiglione della Caccia e Pesca, affiorano elementi classicheggianti od inspirati ad architetture rustiche locali. Il padiglione romano del Da Vico è da vicino e con fine senso d’arte intonato all’ambiente della villa romana barocca: si trova quindi isolato nel suo genere e non partecipa all’indirizzo che qui ci preme mettere in chiaro.
Il padiglione futurista pecca di incompetente ed artificiosa eccessività.
La mostra Coloniale, coi relativi ingressi, reca naturalmente le impronte del paese che rappresenta. Il resto dei padiglioni, la più gran parte, ha spiccati caratteri moderni, talvolta con le esagerazioni stilistiche e le reminiscenze di cui abbiamo detto poc’anzi. L’Architetto Giuseppe Pagano, che ha contribuito così largamente ai progetti, e che possiede forte fantasia, vasto senso di composizione e garbo decorativo, ha anche costruito un nuovo ponte sul Po al Pilonetto, che ci sembra però troppo secco nella sua geometrica nudità.

È infine opportuno soffermarsi sur una manifestazione assolutamente lodevole ed originale che ci offre la mostra: la cosidetta «Casa degli Architetti». I giovani architetti torinesi hanno qui voluto ancor più stringere l’accordo che unisce il loro gusto, il loro sapere e la loro volontà, scegliendo un tema del più alto valore nell’attuale attività edificatoria, e svolgendolo in cordiale collaborazione fino ai minuti dettagli.
La Casa degli Architetti è costituita da un alloggio moderno, per una famiglia di agiata condizione, concepita in guisa da poter essere cellula di una vasta casa di abitazione formata da vari appartamenti, distribuiti ciascuno su due piani.
L’alloggio è racchiuso in un padiglione più vasto ed è disposto, per comodità, sur un solo piano, con le due parti affiancate anzichè sovrapposte.
Gli autori hanno compreso ed hanno voluto dimostrare che la prima condizione di chi voglia creare uno sbocco alla moderna sensibilità architettonica è di procedere dall’interno all’esterno e non viceversa.
Partire dal fatto, dalla viva sostanza della vita attuale, per poi superarla con l’arte: essere consapevoli che vano è sperare in un valore decorativo per sè stante, scisso da un punto di partenza costituito sempre da una realtà concreta e umana, la sostanza della sua forma. Nella casa è dunque necessario osservare le esigenze che la vita d’oggi rende urgenti e desiderabili, cercare il mezzo tecnico più moderno e perfezionato per soddisfarle, conciliare prima da un punto di vista esclusivamente pratico tali esigenze coi limiti imposti dai mezzi disponibili, rendere equilibrati ed organici gli schemi delle soluzioni che scaturiscono da tale bilanciamento. Tali schemi astratti non costituiscono ancora un fatto d’arte, ma lasciano sempre un grado di libertà sufficiente per formarne degli scheletri costruttivi attuali e sinceri, armonici in sè stessi e col loro oggetto, su cui la fantasia potrà poi elaborare le indispensabili forme del superamento e del piacere.
Per arrivare alla definizione architettonica della casa moderna, è dunque necessario cominciare a svolgerne cogli anzidetti criteri la cellula base, cioè l’appartamento.
Ecco il tema proposto.
La coordinazione degli ambienti è studiata, nell’alloggio modello, in modo che esso risulti organicamente unitario nei suoi tre nuclei destinati, alla vita del giorno, a quella del riposo, ed ai servizi.
Nel determinare la forma, la proporzione e le caratteristiche degli ambienti, gli autori hanno avuto presenti le azioni a cui sono destinati, ottenendone rispondenze serrate. Nell’ammobigliamento, preventivamente predisposto, essi hanno considerato la nostra tendenza ad amare gli spazi lisci, i volumi integrali spogli d’ingombri, ed insieme hanno tenuto conto della convenienza economica a limitare lo spazio perduto coi mobili voluminosi. La soluzione soddisfacente è consentita dalle ossature in cemento armato, consuetudinarie negli edifici a molti piani, le quali rendono possibile la formazione di numerosi armadi a muro e l’apertura di vani di comunicazione in notevole quantità ed in qualsiasi posizione. Ecco dunque scomparire dagli ambienti tutti gli oggetti che non si prestano ad una succinta ed essenziale composizione architettonica.
Speciale cura è stata posta nel predisporre la razionale e ben congegnata interdipendenza degli ambienti e la scelta dei dettagli costruttivi e tecnici. Tutto è curato con amore e secondo gli ultimi e più comodi ritrovati: l’ubicazione delle finestre nei punti più acconci, per l’illuminazione e l’economia degli spazi, la modernissima struttura delle vetrate e delle persiane, i bagni, gli impianti igienici, le cucine, le lavanderie, ecc. Si può dire che perfino troppo è stato concesso alle condizioni del comodo e dell’utile, com’era consentito in questo caso dall’assenza di coordinazioni architettoniche d’insieme, specialmente esterne. In presenza di esse è ovvio che notevoli transazioni si sarebbero imposte in tal senso.
Perfino nei minimi particolari si nota la cura di offrire modelli perfezionati; le maniglie delle porte interne secondo recente modello americano; l’uso di legnami eccellentemente compensati, intagliati ed impiallacciati; l’adozione di preparati speciali in cellulosa per formazione di zoccolature di pareti e per impiallacciatura di mobili di servizio; gli impianti elettrici, telefonici, ecc., ecc. Anche nei mobili, tutti disegnati apposta, si notano molte trovate geniali e forme sintetiche ed eleganti.
Sull’ottimo fondamento della struttura, la veste architettonica è ottenuta con pochi mezzi; molta importanza è stata attribuita alla policromia ed agli arredi, come stoffe, tappezzerie, ninnoli, ecc. L’aspetto risultante è oltremodo confortevole e spesso veramente gustoso.
La fatica dei progettisti è stata compensata dalla intelligente e lungimirante collaborazione delle ditte costruttrici, le quali non solo hanno offerto gratuitamente ed a loro rischio l’opera, i manufatti e gli impianti costosissimi, ma, comprese dell’importanza sempre maggiore che la figura dell’architetto deve assumere nel rifiorire dell’industria e dell’arte applicata, hanno tangibilmente riconosciuto il contributo degli iniziatori. Già nelle Pagine Sindacali del fascicolo d’ottobre, abbiamo messo in chiaro l’importanza di questo fatto, ed abbiamo notato che solo dal più stretto contatto dell’industria e dell’attività pratica con l’arte, del lavoro con la sensibilità, si può sperare nello sviluppo dell’architettura, secondo forme nuove, vitali e non artificiose. A questo aspetto va connesso l’altro, di cui parlammo dianzi, cioè dell’unità fra il problema costruttivo e la sua manifestazione estetica.
Porsi problemi attuali, svolgerli assolutamente nel limite della loro concretezza e della loro possibilità di realizzazione, e viverli con tanta forza da superarne il contenuto materiale per arrivare, senza trasferirne il valore obbiettivo, al fatto d’arte: il quale, senza dubbio oltrepassa tale contenuto materiale e se ne distingue, ma intanto lo presuppone, lo implica, ne aderisce e se ne nutre.
Attenersi, nella consapevolezza dell’indispensabile unità fra sostanza e forma, all’equilibrio, sommo dono tradizionale dello spirito italiano, dote precipua dei nostri ingegni più fecondi nelle epoche di fiore: equilibrio che il nostro Leon Battista Alberti, a cui non faceva certo difetto la sete di pura bellezza, così bene definiva nei suoi libri dell’Architettura, ad esempio quando poteva dire: «vorrei che l’architetto fosse, e si studiasse di essere tale, che mostrasse di aver voluto in ogni cosa attendere prima all’utilità ed al bisogno che ad altro; e quand’anche tutto quel che avrà fatto non sia che per semplice adornamento, io nientedimeno vorrei che non si potesse negare ch’egli abbia avuto principalmente in vista l’utilità.... ».
Tale, mutato il piano ed il tempo, ci sembra ancora la via, specialmente in un periodo di formazione.
Che il tentativo del gruppo torinese si amplifichi e si propaghi: si studino dopo l’alloggio, con gli stessi intendimenti, la casa, la scuola, la fabbrica, ecc.
Gli elementi estetici nuovi nasceranno da sè e si selezioneranno i già nati; e quando la loro forza sarà cresciuta, e si sarà liberata maggiormente dalla materia, potrà essere di base anche per edifici di carattere più astratto e monumentale, pei quali evidentemente l’aderenza al concreto conta meno, perchè la loro forma dipende in maggior grado da un valore fantastico e soggettivo.
PLINIO MARCONI.

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