COMMENTO ALL’ ESPOSIZIONE DI TORINO
1928
Nel fascicolo di aprile di quest’anno, in occasione dell’inaugurazione
dell’Esposizione di Torino, abbiamo illustrato i criteri informatori
generali di essa, abbiamo offerto i dati metrici e planimetrici più
importanti della zona edificata e dei singoli padiglioni, e date brevi
notizie sulle caratteristiche estetiche essenziali dell’insieme.
In seguito, nella rubrica delle pagine sindacali, abbiamo messo in rilievo
l’importanza della realizzazione dal punto di vista organizzativo
e sindacale.
Ora, ad esposizione chiusa, è opportuno tornare sul tema per
illustrarlo nei suoi aspetti, non ancora noti, valutarne la portata
e trarre le conclusioni.
Non aggiungeremo nulla al già illustrato, per quanto riguarda
la planimetria generale della mostra ed i dati metrici e planimetrici
dei singoli padiglioni.
È ovvio che, trattandosi di costruzioni provvisorie e volte ad
ospitare le più svariate manifestazioni di attività senza
possibilità di predisposta precisa attribuzione, tali dati offrono
scarso interesse.
Non esiste dunque un interesse tecnico. Si tratta di scenografia, generalmente
adeguata al mezzo costruttivo presupposto (per lo più il cemento
armato) data la competenza dei progettisti, ma non chiusa da responsabilità
d’ordine realizzativo.
Il valore della mostra ed il suo contributo vanno invece cercati in
due altri aspetti; l’uno, d’ordine si potrebbe dire morale,
l’altro d’ordine architettonico-decorativo, aspetti che
potrebbero sembrare l’un l’altro estranei ed invece non
sono.
Dunque a Torino si è da qualche tempo formato un gruppo di giovani
architetti i quali sono capaci di lavorare insieme: significa che, nella
incertezza delle direttive dell’arte nazionale e locale, ha potuto
determinarsi anche là una concorde simpatia di gusti e di tendenze
fra numerosi artisti. La prima cosa infatti che colpisce il visitatore
dell’Esposizione e che la differenzia dalle sue precedenti, all’infuori
e magari contro il valore in sè stesso delle singole fabbriche,
è l’omogeneità dell’ispirazione architettonica.
Il fatto non è nuovo: con attitudini assai diverse od anche inverse
e con maggiore maturità esso si è verificato altrove specialmente
nell’Italia settentrionale.
L’uscire dal singolo per assumere valori collettivi, il passare
successivamente e con generale coerenza da un indistinto a un distinto,
significa per l’architettura approfondimento e formazione di carattere.
Purchè tali correnti di gusti finiscano di costituire, come fu
talvolta, una moda od un’impostazione retorica (ed esiste una
retorica dell’avvenire come ci sono quelle del passato), purchè
esse riescano a possedere e per conseguenza ad esprimere vita interiore
sufficiente, cioè a fondarsi su realtà sostanziali, sentite
in profondità e non assunte troppo facilmente dal di fuori e
con obiettivi estranei; alla determinazione dei gruppi d’artisti
con un dato orientamento, al loro confronto, al loro cozzo, ed al lottante
contemperamento, dovrebbero seguire formazioni su basi comuni sempre
più vaste, fino alla maturazione di un minimo denominatore comune
a tutta l’architettura italiana.
È senza dubbio questa la via verso la rinascita dell’arte
nostra dal caos e dall’accademica nullità a cui fino a
non molto tempo fa era ridotta.
È dunque notevole la tendenza alla formazione di ben delineate
correnti stilistiche a cui accennammo e molto attendiamo dal propagarsi
e dal generalizzarsi di essa, in guisa da saldare il vuoto attualmente
esistente attorno a brillanti ingegni, i quali, precorrono e tentano
precorrere isolatamente ed ecletticamente.
Consideriamo poi la Mostra di Torino nel suo aspetto architettonico-decorativo.
Nell’insieme essa reca, antecedentemente alla valutazione dei
pregi stilistici, una favorevole impressione di freschezza, talvolta
un pò nuda e secca, di giovanile vivacità, di una certa
acerba spregiudicatezza.
Il gruppo dei progettisti ha dato a sè stesso il titolo di «novatore
».
Dunque, tendenza alla novità ad ogni costo? Retorica del diverso
dall’esistente? Un pò, senza dubbio.
Ma bisogna tener conto dell’ambiente. Non esiste città
che inviti, come Torino, a sfuggire, anche contro la possibilità,
al passato. Non volendo parlare di scarse traccie d’epoche più
remote, oltre Palazzo Madama, il nucleo degli altri palazzi regali del
centro e le chiese del Juvara, che già rappresentano l’estremo
limite della forza barocca, null’altro possiamo godere del passato
a Torino, che ha il pregio urbanistico ed il difetto architettonico
d’appartenere, così com’è, quasi tutta al
Secolo XIX.
Dalle infinite distese di portici pseudoclassici alle sorde pareti dei
casoni d’affitto senza alcun carattere, dalle ville dei quartieri
di lusso, goticheggianti e pseudobarocche, rococò e moresche,
alle casette di Valsalice, ove fiorisce il tritume mediovaleggiante
ed il pittoresco di maniera; tutto a Torino invita ad uscire dove non
si veda alcuna casa.
La sapienza mal digerita ha ivi rimasticato senza discernimento tutta
la storia dell’architettura e non ha potuto trovare una via d’uscita.
È comprensibile che all’arte brutta riesca più gradita
la sua assenza, e che sia più simpatica una visita alle fumose
officine della Dora, potenti nella loro grigia aridità, od alla
Fiat, gelida nella sua meccanicità, ad una passeggiata lungo
il Corso Vittorio Emanuele.
Si capisce allora come il desiderio di novità integrale dei giovani
non trovi alcuna resistenza e critica nel pubblico e nei clienti, e,
poichè il nuovo non s’inventa lì per lì,
come esso cominci a realizzarsi con soluzioni immature od aderendo a
forme acquisite in altro paese.
Certo, a quest’ultimo proposito, bisogna procedere cum grano salis.
È appena necessario constatare che l’Europa non è
più evidentemente nelle condizioni del Medio Evo, quando un paese
era diviso dall’altro da settimane di diligenza ed i viaggiatori,
a parte le invasioni militari, si contavano sì e no a decine;
quando non esistevano giornali e riviste: allora i principï sociali,
gli elementi del pensiero, della sensibilità, della tecnica,
erano suscettibili di tenaci localizzazioni, con radicali diversità.
Ora invece gli scambi, i contributi, le interferenze, così delle
strutture architettoniche, come di tutti gli altri elementi della vita
e della coltura, fatali ed indispensabili in ogni tempo al progresso
collettivo, sono e debbono essere assai più immediati.
Specialmente i nuovi materiali costruttivi ed i dispositivi tecnico-distributivi
dei più moderni tipi di fabbricati, adottati contemporaneamente
nei vari paesi sotto l’impulso di identici bisogni e ritrovati
economici, sociali, industriali, scientifici, è naturale non
possano essere usati in modo radicalmente diverso nell’uno e nell’altro
luogo. Le differenziazioni avverranno più in superficie, ed è
in tal caso molto difficile definire a priori quali debbano essere da
un punto di vista estetico i caratteri specifici di esse, e quale punto
d’appoggio debbano possedere nelle tradizioni per essere appunto
loro aderenti. In arte prima nasce il fatto indi il giudizio; nei giudizi
preventivi si arrischia di incorrere in gravi errori di formalismo e
la teorizzazione anticipata, vizio del secolo, è sempre uno sbaglio.
Ma che una differenziazione debba effettivamente esistere è indubbio,
giacchè l’architettura, come arte plastica, si riconnette
a tutta la natura sensibile del nostro spirito e, come tale, risente
le effettive diversità dei caratteri individuali e quindi nazionali.
L’internazionalismo artistico resta un non senso, non per virtù
di dogmi preconcetti, ma per merito della stessa natura dell’attività
creatrice.
Un vero artista, ad es. italiano, adopera il cemento armato nello stesso
modo del collega tedesco, ma, se tien conto dei concreti dati di fatto
relativi all’ambiente, e sopratutto della propria sensibilità,
fa, anche non volendolo, cosa italiana.
Il plagio si svela immediatamente e qualifica l’assenza di forza
creatrice dell’autore, così come tale assenza può
essere qualificata dal plagio dell’antico, se l’antico sia
grettamente riprodotto e non ricreato e trasformato in cosa nuova. L’architetto
che possiede la stoffa, dopo l’indispensabile esauriente preparazione
sull’arte del passato, con la quale l’arte del futuro è
naturale non debba presentare soluzioni di continuo, non ha nulla a
temere dallo studio della produzione straniera; anzi, essa gli può
recare il prezioso contributo di elementi organici derivanti da una
maggiore intensità e perfezione di vita sociale. La veste di
cui è suscettibile la sostanza acquisita, diverrà, s’egli
è forte, del tutto sua in breve tempo.
Tornando alla Mostra di Torino, si può osservare che in qualche
padiglione l’evidente ispirazione forestiera non è sufficientemente
digerita e rivissuta: ci auguriamo, alla prossima prova, di assistere
a dei progressi in tal senso.
Non sembra necessario rendere ulteriormente evidenti le caratteristiche
architettoniche delle varie costruzioni, a cui, d’altronde, si
accennò nell’articolo precedente.
In alcune di esse, come ad es. l’ingresso dal Corso Raffaello,
la bottega del Vino, il padiglione dell’Agricoltura, quello delle
industrie di Sardegna, il padiglione della Caccia e Pesca, affiorano
elementi classicheggianti od inspirati ad architetture rustiche locali.
Il padiglione romano del Da Vico è da vicino e con fine senso
d’arte intonato all’ambiente della villa romana barocca:
si trova quindi isolato nel suo genere e non partecipa all’indirizzo
che qui ci preme mettere in chiaro.
Il padiglione futurista pecca di incompetente ed artificiosa eccessività.
La mostra Coloniale, coi relativi ingressi, reca naturalmente le impronte
del paese che rappresenta. Il resto dei padiglioni, la più gran
parte, ha spiccati caratteri moderni, talvolta con le esagerazioni stilistiche
e le reminiscenze di cui abbiamo detto poc’anzi. L’Architetto
Giuseppe Pagano, che ha contribuito così largamente ai progetti,
e che possiede forte fantasia, vasto senso di composizione e garbo decorativo,
ha anche costruito un nuovo ponte sul Po al Pilonetto, che ci sembra
però troppo secco nella sua geometrica nudità.
È infine opportuno soffermarsi sur una manifestazione assolutamente
lodevole ed originale che ci offre la mostra: la cosidetta «Casa
degli Architetti». I giovani architetti torinesi hanno qui voluto
ancor più stringere l’accordo che unisce il loro gusto,
il loro sapere e la loro volontà, scegliendo un tema del più
alto valore nell’attuale attività edificatoria, e svolgendolo
in cordiale collaborazione fino ai minuti dettagli.
La Casa degli Architetti è costituita da un alloggio moderno,
per una famiglia di agiata condizione, concepita in guisa da poter essere
cellula di una vasta casa di abitazione formata da vari appartamenti,
distribuiti ciascuno su due piani.
L’alloggio è racchiuso in un padiglione più vasto
ed è disposto, per comodità, sur un solo piano, con le
due parti affiancate anzichè sovrapposte.
Gli autori hanno compreso ed hanno voluto dimostrare che la prima condizione
di chi voglia creare uno sbocco alla moderna sensibilità architettonica
è di procedere dall’interno all’esterno e non viceversa.
Partire dal fatto, dalla viva sostanza della vita attuale, per poi superarla
con l’arte: essere consapevoli che vano è sperare in un
valore decorativo per sè stante, scisso da un punto di partenza
costituito sempre da una realtà concreta e umana, la sostanza
della sua forma. Nella casa è dunque necessario osservare le
esigenze che la vita d’oggi rende urgenti e desiderabili, cercare
il mezzo tecnico più moderno e perfezionato per soddisfarle,
conciliare prima da un punto di vista esclusivamente pratico tali esigenze
coi limiti imposti dai mezzi disponibili, rendere equilibrati ed organici
gli schemi delle soluzioni che scaturiscono da tale bilanciamento. Tali
schemi astratti non costituiscono ancora un fatto d’arte, ma lasciano
sempre un grado di libertà sufficiente per formarne degli scheletri
costruttivi attuali e sinceri, armonici in sè stessi e col loro
oggetto, su cui la fantasia potrà poi elaborare le indispensabili
forme del superamento e del piacere.
Per arrivare alla definizione architettonica della casa moderna, è
dunque necessario cominciare a svolgerne cogli anzidetti criteri la
cellula base, cioè l’appartamento.
Ecco il tema proposto.
La coordinazione degli ambienti è studiata, nell’alloggio
modello, in modo che esso risulti organicamente unitario nei suoi tre
nuclei destinati, alla vita del giorno, a quella del riposo, ed ai servizi.
Nel determinare la forma, la proporzione e le caratteristiche degli
ambienti, gli autori hanno avuto presenti le azioni a cui sono destinati,
ottenendone rispondenze serrate. Nell’ammobigliamento, preventivamente
predisposto, essi hanno considerato la nostra tendenza ad amare gli
spazi lisci, i volumi integrali spogli d’ingombri, ed insieme
hanno tenuto conto della convenienza economica a limitare lo spazio
perduto coi mobili voluminosi. La soluzione soddisfacente è consentita
dalle ossature in cemento armato, consuetudinarie negli edifici a molti
piani, le quali rendono possibile la formazione di numerosi armadi a
muro e l’apertura di vani di comunicazione in notevole quantità
ed in qualsiasi posizione. Ecco dunque scomparire dagli ambienti tutti
gli oggetti che non si prestano ad una succinta ed essenziale composizione
architettonica.
Speciale cura è stata posta nel predisporre la razionale e ben
congegnata interdipendenza degli ambienti e la scelta dei dettagli costruttivi
e tecnici. Tutto è curato con amore e secondo gli ultimi e più
comodi ritrovati: l’ubicazione delle finestre nei punti più
acconci, per l’illuminazione e l’economia degli spazi, la
modernissima struttura delle vetrate e delle persiane, i bagni, gli
impianti igienici, le cucine, le lavanderie, ecc. Si può dire
che perfino troppo è stato concesso alle condizioni del comodo
e dell’utile, com’era consentito in questo caso dall’assenza
di coordinazioni architettoniche d’insieme, specialmente esterne.
In presenza di esse è ovvio che notevoli transazioni si sarebbero
imposte in tal senso.
Perfino nei minimi particolari si nota la cura di offrire modelli perfezionati;
le maniglie delle porte interne secondo recente modello americano; l’uso
di legnami eccellentemente compensati, intagliati ed impiallacciati;
l’adozione di preparati speciali in cellulosa per formazione di
zoccolature di pareti e per impiallacciatura di mobili di servizio;
gli impianti elettrici, telefonici, ecc., ecc. Anche nei mobili, tutti
disegnati apposta, si notano molte trovate geniali e forme sintetiche
ed eleganti.
Sull’ottimo fondamento della struttura, la veste architettonica
è ottenuta con pochi mezzi; molta importanza è stata attribuita
alla policromia ed agli arredi, come stoffe, tappezzerie, ninnoli, ecc.
L’aspetto risultante è oltremodo confortevole e spesso
veramente gustoso.
La fatica dei progettisti è stata compensata dalla intelligente
e lungimirante collaborazione delle ditte costruttrici, le quali non
solo hanno offerto gratuitamente ed a loro rischio l’opera, i
manufatti e gli impianti costosissimi, ma, comprese dell’importanza
sempre maggiore che la figura dell’architetto deve assumere nel
rifiorire dell’industria e dell’arte applicata, hanno tangibilmente
riconosciuto il contributo degli iniziatori. Già nelle Pagine
Sindacali del fascicolo d’ottobre, abbiamo messo in chiaro l’importanza
di questo fatto, ed abbiamo notato che solo dal più stretto contatto
dell’industria e dell’attività pratica con l’arte,
del lavoro con la sensibilità, si può sperare nello sviluppo
dell’architettura, secondo forme nuove, vitali e non artificiose.
A questo aspetto va connesso l’altro, di cui parlammo dianzi,
cioè dell’unità fra il problema costruttivo e la
sua manifestazione estetica.
Porsi problemi attuali, svolgerli assolutamente nel limite della loro
concretezza e della loro possibilità di realizzazione, e viverli
con tanta forza da superarne il contenuto materiale per arrivare, senza
trasferirne il valore obbiettivo, al fatto d’arte: il quale, senza
dubbio oltrepassa tale contenuto materiale e se ne distingue, ma intanto
lo presuppone, lo implica, ne aderisce e se ne nutre.
Attenersi, nella consapevolezza dell’indispensabile unità
fra sostanza e forma, all’equilibrio, sommo dono tradizionale
dello spirito italiano, dote precipua dei nostri ingegni più
fecondi nelle epoche di fiore: equilibrio che il nostro Leon Battista
Alberti, a cui non faceva certo difetto la sete di pura bellezza, così
bene definiva nei suoi libri dell’Architettura, ad esempio quando
poteva dire: «vorrei che l’architetto fosse, e si studiasse
di essere tale, che mostrasse di aver voluto in ogni cosa attendere
prima all’utilità ed al bisogno che ad altro; e quand’anche
tutto quel che avrà fatto non sia che per semplice adornamento,
io nientedimeno vorrei che non si potesse negare ch’egli abbia
avuto principalmente in vista l’utilità.... ».
Tale, mutato il piano ed il tempo, ci sembra ancora la via, specialmente
in un periodo di formazione.
Che il tentativo del gruppo torinese si amplifichi e si propaghi: si
studino dopo l’alloggio, con gli stessi intendimenti, la casa,
la scuola, la fabbrica, ecc.
Gli elementi estetici nuovi nasceranno da sè e si selezioneranno
i già nati; e quando la loro forza sarà cresciuta, e si
sarà liberata maggiormente dalla materia, potrà essere
di base anche per edifici di carattere più astratto e monumentale,
pei quali evidentemente l’aderenza al concreto conta meno, perchè
la loro forma dipende in maggior grado da un valore fantastico e soggettivo.
PLINIO MARCONI.