L’ICONOSTASIO DI TRIANDA
Ancora troppo scarsamente è conosciuto uno dei prodotti più
monumentali dell’arte dell’intaglio in legno, diffusissimo
in tutto il Levante, ove esso forma il principale e più suggestivo
ornamento delle chiese ortodosse. Intendiamo parlare dell’iconôstasi
od iconostasio, opera paziente di decenni e decenni di lavoro di anonimi
artigiani che perpetuarono colla loro assidua fatica un elemento tipico
della decorazione sacra bizantina, la cui origine si perde nell’alto
medioevo. Dall’Athos al Megaspilion, da Patmo ad Osios Lukàs,
la tipica serranda lignea, sovraccarica di intagli e rilievi patinati,
policromi o dorati, che ospita nei suoi tre piani le nicchie e i riquadri
destinati ad accogliere le sacre iconi nella loro tradizionale e gerarchica
disposizione, è senza dubbio uno dei fattori precipui dell’ammirazione
reverente che s’impone al visitatore. Egli intuisce di trovarsi
dinanzi a qualche cosa di sacro, non solo, ma di profondamente tradizionale.
Quella parete protesa arditamente a separare l’adito sacratissimo
della hiera trapeza ove si celebrano i più alti ministeri, dall’ecclesia
del volgo; barriera insormontabile per le donne, che ammette appena
gli assistenti della laterale demothyra all’adorazione più
prossima del Crocifisso, mentre la oraia pyle o porta regia, porta centrale,
è riservata al sacerdote officiante ed all’Imperatore;
quella parete, simbolo essa stessa dello spirito chiuso ed esterioristico
della ortodossia, contiene per chi si provi a leggerla, una delle antologie
più ricche e nutrite del simbolismo paleocristiano e bizantino,
espresse in forme involute e pure strettamente unitarie: sottile e complicata
come una questione teologica dibattuta nei concili, ardua nelle sintesi
e semplice all’analisi minuta ed elementare.
Dell’importanza capitale da essa rivestita nelle forme del culto
e del rito, è indice il fatto che essa non manca anche nelle
chiese più umili e rustiche, ove anzi spesso, come nel caso che
qui sotto esaminiamo, presenta aspetti di gran lunga più perfezionati
e complessi di quel che potrebbe sembrare logico attendersi.
La chiesa di Trianda, recente borgata rurale ad otto chilometri da Rodi,
non è a vero dire una delle più felici espressioni dell’architettura
ortodossa moderna. Il suo ibridismo è anzi accentuato dalla presenza,
sull’unica spaziosa navata, delle volte a costoloni, evidente
reminiscenza di gotiche costruzioni cavalleresche. La nudità
del tempio non è attenuata nè dall’ambone, di scarso
valore artistico, nè dalla cattedra che gli fa riscontro. Unica
ricchezza nello squallore dei muri imbiancati a calce, l’iconostasio
(fig. 1) che si erge maestoso, senza alcun impedimento alla vista.
Poichè la chiesa risale al 1756 e il grande crocifisso che corona
il timpano dell’iconostasio è datato dal 1810, è
fra queste due date che potremo collocare l’opera, che si dice
sia costata trent’anni di fatiche.
Intagliato in un legno speciale di Anatolia, detto cara agazzi (albero
nero, spede di olmo) ha lo scheletro (stirigma) in legno di cipresso.
Il fondo è sobriamente colorato di azzurro in basso, di rosso
in alto. Nella parte inferiore l’iconostasio ha già assunto
una mirabile patina lucida, oscura, che sembra quasi segnare una differenza
di età colle parti meno accessibili e meno a contatto della gente.
Del resto non è improbabile che tale differenza esista realmente,
considerando che l’opera per arrivare al suo compimento richiese
diverse decine d’anni.
Possiamo distinguere struttivamente le quattro parti principali dell’iconostasio:
1. - La transenna inferiore, composta di specchi lignei incorniciati,
fra pilastrini, destinati originariamente a contenere le iconi dei profeti,
ma qui rimasti liberi.
Essa è sormontata da pannelli traforati che formano uno degli
elementi più ricchi della decorazione.
2. - L’ iconostasi propriamente detta (Fig. 3), consistente in
sette nicchie poco profonde, desinenti superiormente ad arco, delimitate
ai lati da gruppi di tre colonnine meno che dal lato esterno delle nicchie
estreme, ove si conta una colonnina sola. E qui che trovano posto le
cosiddette basilikes eikones o iconi principali. Sui capitelli delle
colonnine insistono delle figure di sirene che sorreggono la cornice
della trabeazione (arafi) aggettante.
La parte che segue presenta ora una sapiente inclinazione in avanti,
sì da facilitare l’osservazione dal basso.
3. - Un ricco zoophoros sostiene in seguito un’iconostasi in proporzioni
ridotte, ove molto più numerose e continue sono le iconi, non
interrotte dalla porta centrale. Tale elemento si chiama dodekaeopta.
I quadri raffigurano degli episodi di sacre istorie (cf. fig. 3).
4. - Il timpano (pyramìda) (Fig. 2) che sopporta al centro un
grande crocifisso (stavrosis) fiancheggiato da due iconi, riccamente
incorniciate e dorate.
Nell’iconostasio di Trianda sono praticate due porte. Manca cioè
la porta cosiddetta diaconica, situata alla destra della porta regia.
Le colonne tortili (fig. 7) (pendestalia) dell’iconostasio, i
pilastrini che formano loro di basamento, i riquadri delle transenne,
presentano tutti una ricchissima decorazione floreale: lunghi steli
fioriti di corolle, foglie di conifere o di acanto, talvolta liberamente
intrecciate ed avvolte, talvolta formanti schemi quasi geometrici, e
pigne e pampini, festosamente uniti, forniscono elementi alla sempre
varia fantasia ornamentale; la quale specialmente si manifesta nei pannelli
traforati delle transenne (fig. 9). Ivi si rilevano tre tipi, rappresentati
due volte, ai due lati della oraia pyle.
Tutti presentano al centro una specie di padiglione sormontato da una
corona e sostenuto da animali fantastici, specie di grifi dalla parte
anteriore aquilina e dal corpo di leone, con ampia capigliatura ricadente
sul dorso graziosamente quasi come una massa di fogliame, sotto cui
sparisce talvolta il corpo stesso.
Lo sfondo, complicatissimo, è formato da intrecci e risvolti
di fogliame e corolle dagli stami talvolta molto pronunciati e riuniti
a corimbo.
L’intercolunnio centrale, occupato dai due battenti della porta
regia, offre al posto della transenna rettangolare traforata, un motivo
montante di fogliame e fiorame sormontato da due leoni e due grifi alati
rampanti (fig. 8). Essi sono disposti araldicamente ai lati dell’asse
della porta, formato da una colonnina tortile pur essa decorata di foglie
e fiori e sostenente sul capitellino un disco sormontato da corona,
destinato originariamente a contenere il monogramma di Cristo o l’immagine
dell’occhio divino.
Sopra la porta centrale che presenta, al posto dell’icone una
tenda dipinta coll’immagine del Cristo e che ha la bocca del vano
incorniciata in alto ad archetto trilobo ribassato da cui pendono pampini
e grappoli d’uva, c’è invece un ciborio sferico su
piede, sorretto da due angeli con candelabri (fig. 5).
Nei fornici (fig. 4, 5, 6) si ripete il motivo del padiglione, con sfondo
visibile a targa, ricco di festoni e girali; i due mostri che lo sorreggono
mandano verso l’alto una specie di cornucopia floreale, che sembra
dipartirsi dal loro becco. Il padiglione è affiancato da due
angeli che si librano suonando la tromba (fig. 4) o da due draghi, o
da due leoni (fig. 6). Il fornice centrale presenta invece al posto
del consueto padiglione, l’imagine del pellicano che atterra un
serpente (fig. 5).
Tra fornice e fornice, il cui arco è ornato di perle e di avvolgimenti
floreali, sporge, sopra la colonnina, una sirena col corpo desinente
a volute floreali, grosso ventre rotondo orlato inferiormente di perle,
mammelle pronunciate. Essa insiste su di un modiglione, e ai suoi due
lati sono espressi due grifi alati rampanti.
Succede la sottocornice e sopra questa si svolge un zoophoros decorato
di sirene più piccole, sorreggenti colle braccia dei festoni,
su cui insistono delle aquile monocefale riguardanti in direzione alternamente
opposta. L’aquila centrale è dicefala (fig. 3).
Sulle sirene si svolge una fascia di fogliame, intrecciato con corolle
e grappoli, dal quale emerge al centro un padiglione coronato.
Poi si ripete l’iconostasi, in scala ridotta, con tutti i motivi
dell’intaglio semplificati. Le sirene qui sono alate, e il loro
corpo inferiormente è leonino.
La cimasa è ad encarpo, interrotta da mascheroni (fig. 2). Su
di essa c’è il coronamento a timpano, traforato, a lieve
saliente triangolare, che presenta la fusione dei soliti motivi di foglie,
fiori, grappoli. Al centro campeggia la figura del pellicano, contenuta
entro una corona floreale, che è sostenuta da due grifi alati
rampanti. Sotto ai suoi artigli si snodano in direzione divergente due
draghi dal corpo squamoso di serpente, muniti di zampe e di ali, terminanti
a triplice testa vibrata verso l’alto.
Il grande crocifisso dorato, situato al centro del timpano, è
decorato riccamente di grappoli e pigne che arieggiano quelli dell’iconostasio.
La sua base è sostenuta da due leoni a intaglio. Essa porta dipinti
alle estremità i simboli degli Evangelisti. Sotto la croce, in
una specie di grotta, si vede raffigurato il teschio di Adamo.
Il crocefisso è fiancheggiato da due iconi rappresentanti le
due lypeterai Marta e Maria. Anch’esse sono riccamente incorniciate
in una edicola a colonnine tortili, sormontata da un frontispizio arcuato
su cui si posano due uccelli. Anche qui si nota una profusione di elementi
vegetali che circondano l’insieme.
Il carattere tradizionale e simbolico dell’iconostasio di Trianda
è evidente a chiunque abbia esaminato anche superficialmente
i suoi partiti struttivi e decorativi. Anzi, tutta la disposizione d’insieme
rivela una grande sapienza tecnica, che non può essere il patrimonio
d’un oscuro artigiano qualsiasi; ciò del resto è
facilmente spiegabile sol che si pensi al carattere strettamente conservatore
della religione ortodossa. Più difficile è fissare l’epoca
in cui si affermò tale disposizione, per quel che riguarda l’iconostasio
in legno.
Anche senza risalire alla tenda del tempio di Salomone, sappiamo difatti
come fin dai primissimi tempi del Cristianesimo esistevano, e non solo
in Oriente, delle recinzioni di carattere più o meno monumentale
che separavano il presbiterio dallo spazio riservato ai fedeli. Ma esse
erano prevalentemente in pietra e a loro era aliena la funzione vera
e propria di sostegno per le imagini del culto. Consistevano essenzialmente
in un colonnato con trabeazione, chiuso in basso da transenne e sostenente
delle lampade o dei simboli sacri. Così a S. Sofia, così
nella basilica costantiniana di S. Pietro, in quella di S. Paolo, a
Torcello, a Ravenna, ecc.
La serranda di legno si dev’essere imposta in chiese forse meno
solenni, ma pure meno schiettamente primitive, perchè è
ovvio che essa, non avendo a giustificazione della sua nudità
la durezza e presiosità della materia, doveva elaborare ben altrimenti
quest’ultima. A nostro parere la sua origine è da ricercarsi
più che nelle cappelle e chiese bizantine, pur di dimensioni
limitate, nel culto privato, dal quale potrebbe esser passata a poco
a poco nei santuari. La contesa per le imagini, ove prevalse l’iconolatria,
dovette dare grande impulso all’affermazione del nuovo elemento
decorativo che sì bene si prestava a mettere in evidenza quanto
era sì caro allo spirito popolare. Origine quindi umile ma antichissima,
risalente all’alto medioevo.
Il nuovo membro architettonico offriva agli artisti decoratori vasto
campo di svolgere la loro attività, sempre nel repertorio già
allora tradizionale, ove affioravano reminiscenza architettoniche e
decorative derivate dall’arte classica e adattate al nuovo stile
bizantino (colonne, trabeazione, modanature, motivi floreali) associate
con persistenze di motivi ancora più antichi dell’animalistica,
sempre fiorente nelle terre orientali (grifi, leoni, sirene, draghi).
Nelle forme usate si adattava il nuovo simbolismo parzialmente arricchito
dalla fantasia del popolo, dal quale uscivano gli artefici, ma sostanzialmente
fedele alla originaria ispirazione.
Qualche tarda influenza occidentale, specialmente del barocco e del
gonfio e fiorito stile settecentesco, non è aliena dalla composizione
di alcuni dei più recenti iconostasi, ed essa ben si presta ad
essere incastrata in un genere di monumento che per la sua stessa natura
e per la lunga evoluzione risulta sovraccarico di ornamenti e di motivi.
Tutte queste caratteristiche ritroviamo nel nostro iconostasio di Trianda,
per alcuni elementi del quale abbiamo un riscontro veramente notevole.
Intendiamo le colonnine tortili, che somigliano stranamente a quelle
dell’iconostasio della prima basilica di S. Pietro, ora disperse
ma riconoscibili nella nuova fabbrica e alle quali si vuole attribuire
una origine orientale. La decorazione a pampini e grappoli, cui si dissetano
degli uccelli (colombe?) è quasi identica. In essa è evidente
l’allusione simbolica, vuoi al Cristo ed ai fedeli (1), vuoi al
popolo eletto e alla Chiesa (2), o al Paradiso ove le anime, rappresentate
dalle colombe, si ristorano ai dolci frutti che ricordano quelli portati
da Kanaan come indizio tangibile della bontà della terra promessa.
Forse anche i fiori delle colonnine di Trianda sono da identificarsi
colle ninfee di quelle vaticane, sebbene la tradizione locale vi veda
piuttosto delle dalie.
E per concludere con un altro simbolo evidentissimo, diremo che il pellicano,
al quale la leggenda attribuisce la qualità di aprirsi il petto
per nutrire i figli, adombra il Salvatore che risveglia gli uomini alla
vita dando per essi il proprio sangue.
Altre interpretazioni simboliche si offrono probabili, nel monumento
che esaminiamo, come quelle della corona che contiene il pellicano,
ricordo della corona di spine di Gesù; e quella che vede nell’intreccio
floreale del fondo del timpano raffigurato il paradiso. Ma su esse,
di carattere meno certo e forse dettate dal misticismo popolare, non
insisteremo.
Ci basti per ora aver reso noto e lumeggiato coll’ausilio della
fotografia, che meglio d’ogni altro si presta, un monumento non
privo d’interesse e forse nuovo per i lettori, e averli forse
invogliati a approfondire meglio che non sia dato ai nostri mezzi, l’argomento,
che non è dei più aridi nel vastissimo e ancora poco esplorato
campo artistico orientale.
CARLO IACOPI
(1) Ego sum vitis vera, pater meus agricola est (Ioan. 15, 1), ego
sum vitis, vos palmites (l. c. n. 5)
(2) Vineam de Aegypto transtulisti, extendit palmites suos usque ad
mare (Ps. 79, 9 ed Isaia 5).