FASCICOLO IV - DICEMBRE 1928
CARLO IACOPI : L'Iconostasio di Trianda, con 9 illustrazioni

L’ICONOSTASIO DI TRIANDA

Ancora troppo scarsamente è conosciuto uno dei prodotti più monumentali dell’arte dell’intaglio in legno, diffusissimo in tutto il Levante, ove esso forma il principale e più suggestivo ornamento delle chiese ortodosse. Intendiamo parlare dell’iconôstasi od iconostasio, opera paziente di decenni e decenni di lavoro di anonimi artigiani che perpetuarono colla loro assidua fatica un elemento tipico della decorazione sacra bizantina, la cui origine si perde nell’alto medioevo. Dall’Athos al Megaspilion, da Patmo ad Osios Lukàs, la tipica serranda lignea, sovraccarica di intagli e rilievi patinati, policromi o dorati, che ospita nei suoi tre piani le nicchie e i riquadri destinati ad accogliere le sacre iconi nella loro tradizionale e gerarchica disposizione, è senza dubbio uno dei fattori precipui dell’ammirazione reverente che s’impone al visitatore. Egli intuisce di trovarsi dinanzi a qualche cosa di sacro, non solo, ma di profondamente tradizionale. Quella parete protesa arditamente a separare l’adito sacratissimo della hiera trapeza ove si celebrano i più alti ministeri, dall’ecclesia del volgo; barriera insormontabile per le donne, che ammette appena gli assistenti della laterale demothyra all’adorazione più prossima del Crocifisso, mentre la oraia pyle o porta regia, porta centrale, è riservata al sacerdote officiante ed all’Imperatore; quella parete, simbolo essa stessa dello spirito chiuso ed esterioristico della ortodossia, contiene per chi si provi a leggerla, una delle antologie più ricche e nutrite del simbolismo paleocristiano e bizantino, espresse in forme involute e pure strettamente unitarie: sottile e complicata come una questione teologica dibattuta nei concili, ardua nelle sintesi e semplice all’analisi minuta ed elementare.
Dell’importanza capitale da essa rivestita nelle forme del culto e del rito, è indice il fatto che essa non manca anche nelle chiese più umili e rustiche, ove anzi spesso, come nel caso che qui sotto esaminiamo, presenta aspetti di gran lunga più perfezionati e complessi di quel che potrebbe sembrare logico attendersi.
La chiesa di Trianda, recente borgata rurale ad otto chilometri da Rodi, non è a vero dire una delle più felici espressioni dell’architettura ortodossa moderna. Il suo ibridismo è anzi accentuato dalla presenza, sull’unica spaziosa navata, delle volte a costoloni, evidente reminiscenza di gotiche costruzioni cavalleresche. La nudità del tempio non è attenuata nè dall’ambone, di scarso valore artistico, nè dalla cattedra che gli fa riscontro. Unica ricchezza nello squallore dei muri imbiancati a calce, l’iconostasio (fig. 1) che si erge maestoso, senza alcun impedimento alla vista.
Poichè la chiesa risale al 1756 e il grande crocifisso che corona il timpano dell’iconostasio è datato dal 1810, è fra queste due date che potremo collocare l’opera, che si dice sia costata trent’anni di fatiche.
Intagliato in un legno speciale di Anatolia, detto cara agazzi (albero nero, spede di olmo) ha lo scheletro (stirigma) in legno di cipresso. Il fondo è sobriamente colorato di azzurro in basso, di rosso in alto. Nella parte inferiore l’iconostasio ha già assunto una mirabile patina lucida, oscura, che sembra quasi segnare una differenza di età colle parti meno accessibili e meno a contatto della gente. Del resto non è improbabile che tale differenza esista realmente, considerando che l’opera per arrivare al suo compimento richiese diverse decine d’anni.
Possiamo distinguere struttivamente le quattro parti principali dell’iconostasio:
1. - La transenna inferiore, composta di specchi lignei incorniciati, fra pilastrini, destinati originariamente a contenere le iconi dei profeti, ma qui rimasti liberi.
Essa è sormontata da pannelli traforati che formano uno degli elementi più ricchi della decorazione.
2. - L’ iconostasi propriamente detta (Fig. 3), consistente in sette nicchie poco profonde, desinenti superiormente ad arco, delimitate ai lati da gruppi di tre colonnine meno che dal lato esterno delle nicchie estreme, ove si conta una colonnina sola. E qui che trovano posto le cosiddette basilikes eikones o iconi principali. Sui capitelli delle colonnine insistono delle figure di sirene che sorreggono la cornice della trabeazione (arafi) aggettante.
La parte che segue presenta ora una sapiente inclinazione in avanti, sì da facilitare l’osservazione dal basso.
3. - Un ricco zoophoros sostiene in seguito un’iconostasi in proporzioni ridotte, ove molto più numerose e continue sono le iconi, non interrotte dalla porta centrale. Tale elemento si chiama dodekaeopta. I quadri raffigurano degli episodi di sacre istorie (cf. fig. 3).
4. - Il timpano (pyramìda) (Fig. 2) che sopporta al centro un grande crocifisso (stavrosis) fiancheggiato da due iconi, riccamente incorniciate e dorate.
Nell’iconostasio di Trianda sono praticate due porte. Manca cioè la porta cosiddetta diaconica, situata alla destra della porta regia.
Le colonne tortili (fig. 7) (pendestalia) dell’iconostasio, i pilastrini che formano loro di basamento, i riquadri delle transenne, presentano tutti una ricchissima decorazione floreale: lunghi steli fioriti di corolle, foglie di conifere o di acanto, talvolta liberamente intrecciate ed avvolte, talvolta formanti schemi quasi geometrici, e pigne e pampini, festosamente uniti, forniscono elementi alla sempre varia fantasia ornamentale; la quale specialmente si manifesta nei pannelli traforati delle transenne (fig. 9). Ivi si rilevano tre tipi, rappresentati due volte, ai due lati della oraia pyle.
Tutti presentano al centro una specie di padiglione sormontato da una corona e sostenuto da animali fantastici, specie di grifi dalla parte anteriore aquilina e dal corpo di leone, con ampia capigliatura ricadente sul dorso graziosamente quasi come una massa di fogliame, sotto cui sparisce talvolta il corpo stesso.
Lo sfondo, complicatissimo, è formato da intrecci e risvolti di fogliame e corolle dagli stami talvolta molto pronunciati e riuniti a corimbo.
L’intercolunnio centrale, occupato dai due battenti della porta regia, offre al posto della transenna rettangolare traforata, un motivo montante di fogliame e fiorame sormontato da due leoni e due grifi alati rampanti (fig. 8). Essi sono disposti araldicamente ai lati dell’asse della porta, formato da una colonnina tortile pur essa decorata di foglie e fiori e sostenente sul capitellino un disco sormontato da corona, destinato originariamente a contenere il monogramma di Cristo o l’immagine dell’occhio divino.
Sopra la porta centrale che presenta, al posto dell’icone una tenda dipinta coll’immagine del Cristo e che ha la bocca del vano incorniciata in alto ad archetto trilobo ribassato da cui pendono pampini e grappoli d’uva, c’è invece un ciborio sferico su piede, sorretto da due angeli con candelabri (fig. 5).
Nei fornici (fig. 4, 5, 6) si ripete il motivo del padiglione, con sfondo visibile a targa, ricco di festoni e girali; i due mostri che lo sorreggono mandano verso l’alto una specie di cornucopia floreale, che sembra dipartirsi dal loro becco. Il padiglione è affiancato da due angeli che si librano suonando la tromba (fig. 4) o da due draghi, o da due leoni (fig. 6). Il fornice centrale presenta invece al posto del consueto padiglione, l’imagine del pellicano che atterra un serpente (fig. 5).
Tra fornice e fornice, il cui arco è ornato di perle e di avvolgimenti floreali, sporge, sopra la colonnina, una sirena col corpo desinente a volute floreali, grosso ventre rotondo orlato inferiormente di perle, mammelle pronunciate. Essa insiste su di un modiglione, e ai suoi due lati sono espressi due grifi alati rampanti.
Succede la sottocornice e sopra questa si svolge un zoophoros decorato di sirene più piccole, sorreggenti colle braccia dei festoni, su cui insistono delle aquile monocefale riguardanti in direzione alternamente opposta. L’aquila centrale è dicefala (fig. 3).
Sulle sirene si svolge una fascia di fogliame, intrecciato con corolle e grappoli, dal quale emerge al centro un padiglione coronato.
Poi si ripete l’iconostasi, in scala ridotta, con tutti i motivi dell’intaglio semplificati. Le sirene qui sono alate, e il loro corpo inferiormente è leonino.
La cimasa è ad encarpo, interrotta da mascheroni (fig. 2). Su di essa c’è il coronamento a timpano, traforato, a lieve saliente triangolare, che presenta la fusione dei soliti motivi di foglie, fiori, grappoli. Al centro campeggia la figura del pellicano, contenuta entro una corona floreale, che è sostenuta da due grifi alati rampanti. Sotto ai suoi artigli si snodano in direzione divergente due draghi dal corpo squamoso di serpente, muniti di zampe e di ali, terminanti a triplice testa vibrata verso l’alto.
Il grande crocifisso dorato, situato al centro del timpano, è decorato riccamente di grappoli e pigne che arieggiano quelli dell’iconostasio. La sua base è sostenuta da due leoni a intaglio. Essa porta dipinti alle estremità i simboli degli Evangelisti. Sotto la croce, in una specie di grotta, si vede raffigurato il teschio di Adamo.
Il crocefisso è fiancheggiato da due iconi rappresentanti le due lypeterai Marta e Maria. Anch’esse sono riccamente incorniciate in una edicola a colonnine tortili, sormontata da un frontispizio arcuato su cui si posano due uccelli. Anche qui si nota una profusione di elementi vegetali che circondano l’insieme.
Il carattere tradizionale e simbolico dell’iconostasio di Trianda è evidente a chiunque abbia esaminato anche superficialmente i suoi partiti struttivi e decorativi. Anzi, tutta la disposizione d’insieme rivela una grande sapienza tecnica, che non può essere il patrimonio d’un oscuro artigiano qualsiasi; ciò del resto è facilmente spiegabile sol che si pensi al carattere strettamente conservatore della religione ortodossa. Più difficile è fissare l’epoca in cui si affermò tale disposizione, per quel che riguarda l’iconostasio in legno.
Anche senza risalire alla tenda del tempio di Salomone, sappiamo difatti come fin dai primissimi tempi del Cristianesimo esistevano, e non solo in Oriente, delle recinzioni di carattere più o meno monumentale che separavano il presbiterio dallo spazio riservato ai fedeli. Ma esse erano prevalentemente in pietra e a loro era aliena la funzione vera e propria di sostegno per le imagini del culto. Consistevano essenzialmente in un colonnato con trabeazione, chiuso in basso da transenne e sostenente delle lampade o dei simboli sacri. Così a S. Sofia, così nella basilica costantiniana di S. Pietro, in quella di S. Paolo, a Torcello, a Ravenna, ecc.
La serranda di legno si dev’essere imposta in chiese forse meno solenni, ma pure meno schiettamente primitive, perchè è ovvio che essa, non avendo a giustificazione della sua nudità la durezza e presiosità della materia, doveva elaborare ben altrimenti quest’ultima. A nostro parere la sua origine è da ricercarsi più che nelle cappelle e chiese bizantine, pur di dimensioni limitate, nel culto privato, dal quale potrebbe esser passata a poco a poco nei santuari. La contesa per le imagini, ove prevalse l’iconolatria, dovette dare grande impulso all’affermazione del nuovo elemento decorativo che sì bene si prestava a mettere in evidenza quanto era sì caro allo spirito popolare. Origine quindi umile ma antichissima, risalente all’alto medioevo.
Il nuovo membro architettonico offriva agli artisti decoratori vasto campo di svolgere la loro attività, sempre nel repertorio già allora tradizionale, ove affioravano reminiscenza architettoniche e decorative derivate dall’arte classica e adattate al nuovo stile bizantino (colonne, trabeazione, modanature, motivi floreali) associate con persistenze di motivi ancora più antichi dell’animalistica, sempre fiorente nelle terre orientali (grifi, leoni, sirene, draghi). Nelle forme usate si adattava il nuovo simbolismo parzialmente arricchito dalla fantasia del popolo, dal quale uscivano gli artefici, ma sostanzialmente fedele alla originaria ispirazione.
Qualche tarda influenza occidentale, specialmente del barocco e del gonfio e fiorito stile settecentesco, non è aliena dalla composizione di alcuni dei più recenti iconostasi, ed essa ben si presta ad essere incastrata in un genere di monumento che per la sua stessa natura e per la lunga evoluzione risulta sovraccarico di ornamenti e di motivi.
Tutte queste caratteristiche ritroviamo nel nostro iconostasio di Trianda, per alcuni elementi del quale abbiamo un riscontro veramente notevole. Intendiamo le colonnine tortili, che somigliano stranamente a quelle dell’iconostasio della prima basilica di S. Pietro, ora disperse ma riconoscibili nella nuova fabbrica e alle quali si vuole attribuire una origine orientale. La decorazione a pampini e grappoli, cui si dissetano degli uccelli (colombe?) è quasi identica. In essa è evidente l’allusione simbolica, vuoi al Cristo ed ai fedeli (1), vuoi al popolo eletto e alla Chiesa (2), o al Paradiso ove le anime, rappresentate dalle colombe, si ristorano ai dolci frutti che ricordano quelli portati da Kanaan come indizio tangibile della bontà della terra promessa.
Forse anche i fiori delle colonnine di Trianda sono da identificarsi colle ninfee di quelle vaticane, sebbene la tradizione locale vi veda piuttosto delle dalie.
E per concludere con un altro simbolo evidentissimo, diremo che il pellicano, al quale la leggenda attribuisce la qualità di aprirsi il petto per nutrire i figli, adombra il Salvatore che risveglia gli uomini alla vita dando per essi il proprio sangue.
Altre interpretazioni simboliche si offrono probabili, nel monumento che esaminiamo, come quelle della corona che contiene il pellicano, ricordo della corona di spine di Gesù; e quella che vede nell’intreccio floreale del fondo del timpano raffigurato il paradiso. Ma su esse, di carattere meno certo e forse dettate dal misticismo popolare, non insisteremo.
Ci basti per ora aver reso noto e lumeggiato coll’ausilio della fotografia, che meglio d’ogni altro si presta, un monumento non privo d’interesse e forse nuovo per i lettori, e averli forse invogliati a approfondire meglio che non sia dato ai nostri mezzi, l’argomento, che non è dei più aridi nel vastissimo e ancora poco esplorato campo artistico orientale.
CARLO IACOPI

(1) Ego sum vitis vera, pater meus agricola est (Ioan. 15, 1), ego sum vitis, vos palmites (l. c. n. 5)
(2) Vineam de Aegypto transtulisti, extendit palmites suos usque ad mare (Ps. 79, 9 ed Isaia 5).

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