CORRIERE ARCHITETTONICO
LA FONTANA DI PIAZZA DEI QUIRITI IN ROMA dello
Scultore ATTILIO SELVA
Attilio Selva sa allargare la propria sensibilità di scultore,
passando dalla costruzione plastica e ritmica della forma umana a quella
delle masse e dei volumi in generale.
In questi ultimi tempi l’abbiamo visto anche vigoroso e significativo
compositore degli elementi architettonici sussidiari delle sue concezioni
scultoree. La fontana che qui presentiamo è un esempio di tale
recente attività.
Libera di reminiscenze stilistiche, la forma è attinta direttamente
al soggetto; la pietra sente l’acqua, palpita del vivo elemento
che la riempie e vela.
La foglia larga, dalle labbra grasse ed abnormi, cresciuta nelle valli,
ove l’acqua degli stagni la nutre d’opulenza ampollosa e
caduca, vive colla sua stessa sostanza nelle sinuosità carnose
del travertino.
La fontana, sul largo bacino, è tutta una strana costruzione
di elementi vegetali, foglie, petali, picciuoli, composti in armonico
volume.
Le quattro figure di donna innestate nel fiore mostruoso, ad aiutare
l’ultimo stelo nel sorreggere il calice troppo pesante, cooperano
ad accentuare la fantasiosità della composizione che ci piace
appunto perchè astratta, fiabesca, inventata, vissuta sicuramente
per la prima volta.
Siamo così assetati di fantasia in questo periodo di cerebralismo,
di imitazione, di sforzo, di economia, di calcolo, di povero sentire
insomma, che una volta tanto ci piace trabordare.
La plastica delle figure, dalla carne vigorosa ed esigente, ma sana
e casta, è la solita che conosciamo di Selva; il quale sente
davvero la materia col suo pollice di scultore e non la vede solo col
cervello, attraverso i complicati prismi della sterilità, come
tanti suoi colleghi d’oggi.
PLINIO MARCONI.
LA NUOVA CASA CICOGNA IN MILANO
Architetti BERGOMI E CANEVA
Le sgraziate fabbriche, sorte di recente a specchio delle acque, in
verità poco limpide, del Naviglio interno, a turbare la linea
tradizionale dei vetusti pittoreschi edifici, rendono meno penosa la
scomparsa, che si annuncia prossima, di quest’ultima caratteristica
del vecchio centro cittadino. Ma buona eccezione, fra troppe costruzioni
nuove di aspetto petulante e banale, segnano le due case disegnate dall’architetto
Bergomi in collaborazione coll’architetto Caneva, la casa Damioli
e la contigua casa del conte Cicogna. Quest’ultima, in angolo
fra Via San Damiano e il Corso Monforte, affronta con elegante semplicità
l’arduo problema della sistemazione di una fronte architettonica
in un raccordo curvilineo. La soluzione è ottenuta con estrema
parsimonia di mezzi, che oggi può parere aridità, quando
le preferenze del pubblico sono ancora rivolte alla sgargiante faciloneria
del cemento modellato, ed è invece il segno di gusto artisticamente
raffinato. Alla severa logica che governa la linea di ogni elemento
sembrano sfuggire, sola lieve menda, le serraglie sopra le finestre
di piano terreno, che non trovano nella struttura e nelle ricorrenze
della fronte le loro premesse, pur formando un particolare di buon disegno
di piacevole effetto.
Tutto è attuato con nobiltà di materiale: il ceppo mezzano
di Brembate ha dato le lesene, i cornicioni e l’alta zoccolatura
fino al primo piano: il bardiglio, le sottili lastre di contorno e i
davanzali delle finestre: l’intonaco negli sfondi è di
calce e polvere di marmo bianco.
P. MEZZANOTTE.
CASA A MILANO IN VIA SAN VITTORE
degli Architetti EMILIO LANCIA e GIOVANNI PONTI
Presentiamo qui la più recente opera d’architettura di
Ponti e Lancia: costruzione di non comune importanza e ricca di temi
assai interessanti.
Casa di lusso: dunque tutte le trovate e gli agi vi devono essere rappresentati,
a costo di sacrificare spazio o rinunciare allo sfruttamento geometrico
ed analitico dell’area. Facciate chiare e piane, atri, gallerie,
scale moltiplicate, e cortili infiorati, e appartamenti diurni e notturni:
tutto il meccanismo della moda recente impiegato nelle soluzioni più
eleganti.
Già la pianta appare congegnata con tali propositi: due ingressi,
l’uno padronale e raccolto, l’altro carraio ed ampio; ed
una portineria così disposta da sorvegliare il doppio passaggio.
Poi bisogna notare l’accorgimento estetico del vestibolo rotondo
adottato per mascherare certa fatale stortura dell’area fabbricata;
poi, il cortilone interno diviso in due parti ben distinte ed a diverso
livello, come esigono le disparatissime funzioni di ciascuna.
Questa complessa planimetria appare ben studiata ed organica, benchè
risolta con notevole spreco di spazio. Ad esempio, per raggiungere la
scala occorre fare una vera camminata, soverchia ed inutile davvero,
benchè attraverso ad una fastosa ed ornatissima galleria. Ma
tant’è: la casa ha da essere più bella dentro che
fuori; e perciò si è abbondato in passaggi ed atrietti
e disimpegni. Così si è dato motivo e pretesto per la
decorazione d’ambiente cui son tanto devoti Ponti e Lancia.
Non è la prima volta che dobbiamo accusare di tali preferenze
le opere «architettoniche» dei due giovani architetti. La
loro non è mai una «architettura» nel vero senso
della parola, perchè troppo spesso manca di unità, e sacrifica
l’organismo davanti alla decorazione. Anche le facciate, interna
ed esterna, di San Vittore, risultan troppo legate ad una eccessiva
preoccupazione decorativa. Son pareti distribuite con gusto piacevole,
son cornici e riquadri, specchiature e pannelli, nicchiette e balconi,
ma non è sempre «architettura».
Cosicché la prima impressione genera disorientamento. E, stavolta,
le fronti interne ci sembrano perfino un poco disordinate più
che fastose. Meglio assai le parti ove la decorazione ha la maggiore
ragione d’essere e può liberamente ed a buon diritto svilupparsi
col gusto leggermente caricaturale e d’eccezione preferito da
Ponti e Lancia. Pavimenti a mosaico, marmi attorno alle porte, stucchi
sulle pareti e sulle vôlte, tutta una generosa profusione d’elementi
sereni e, tanto spesso, addirittura allegri, che bene invitano a rifugiarsi
nel molle e lezioso tepore d’una casa ospitale.
Un cenno sui principali materiali impiegati: all’esterno zoccolo
e contorni in travertino, fondi ad intonaco gialliccio. Dentro, mosaici
e stucchi, gialli di Siena; la scala in pietra del Carso; le ringhiere
in ferro e ghisa fusa e verniciata. Un pò ovunque, intonaci a
calce o polvere di marmo lavorati in vari modi.
F. R.
ARCHITETTURA MODERNA VENEZIANA
Altre volte la nostra Rivista ebbe occasione di illustrare la produzione
architettonica di artisti veneti. Ora torniamo sull’argomento.
Tra gli indirizzi eterogenei e talvolta discordi prevalenti nei vari
centri architettonici in Italia, nel presente periodo di lento ma sicuro
ritrovamento di una nuova personalità stilistica nazionale, quello
svolgentesi nella regione veneta in generale e tra gli artisti veneziani
in particolare non è il meno improntato di valore.
Del valore esso ha infatti alcuni caratteri fondamentali: intanto la
coscienziosità dei tentativi ed il tormento della ricerca interiore;
qualità queste emergenti dallo stesso carattere frammentario
e fluttuante degli indirizzi, dai quali esula la pedestre imitazione
del vecchio o dell’estraneo e la leggera faciloneria o la sbrigliata
fantasiosità a buon mercato.
Da questo tentare in campi disparati, da questa mancanza di accontentamento
e di esaurimento della volontà di ricerca, da questa apparente
incostanza di carattere, deriva lo stato di animo di parecchi fra gli
architetti più seri, insoddisfatti di se stessi, dolenti di una
povertà che ancora non ha saputo vincersi con forme di valore
definitivo.
Simili crisi, appunto perchè profondamente sofferte, sono sempre
il punto di partenza verso raggiungimenti concreti.
Non esiste ancora una netta fisionomia architettonica nel Veneto, ma
una serie di realizzazioni parziali, ciascuna delle quali contiene un
proprio calore e testimonia di personalità in isviluppo: è
già molto nella presente fase di formazione dell’arte italiana.
È preferibile infatti l’inquieto movimento a certe apparenti
maturità che indicano un accontentamento prematuro.
Non esiste dunque nelle opere che esamineremo unità di stile,
spesso nemmeno tra quelle di ciascun artista. Talvolta vediamo alzati
a motivo architettonico degli elementi dell’arte rustica adriatica,
antica e moderna, o svolti dei temi tratti dalle fabbriche medioevali
e del primo rinascimento; tal’altra volta notiamo ricerche di
allacciamento alle architetture del Palladio o del Sansovino, o di ulteriori
sviluppi del settecento veneziano. Quasi sempre si rifugge sanamente
dall’ispirarsi al gotico veneziano, come da espressione di un
momento storico speciale svoltasi ed esauritasi in se stessa fino all’ultima
perfezione, senza lasciar fuori della propria pienezza alcun elemento
vitale suscettibile di essere continuato.
In questo fascicolo offriamo ai lettori della rivista alcune recenti
produzioni di Brenno Del Giudice, di Giuseppe Torres e di Orfeo Rossato.
Di Del Giudice diamo in primo luogo la fotografia della Chiesa-Ossario
di Vidor eretta quale monumento ai caduti della nostra guerra: di essa
pubblicammo a suo tempo il progetto. L’autore si ispira nella
sobrietà volumetrica delle forme e nella materia usata, alle
costruzioni della piana veneta. Il muro di cinta che sorregge lo spalto
racchiudente la chiesa, è unito architettonicamente all’altura
ove posa, pel legame di rudezza della pietra in vista e per la robusta
parsimonia degli andamenti. Sopra di esso si alza la fabbrica, tutta
bianca, modesta e serena coi suoi piani lisci, con le ombre quiete del
portico, ed i piccoli campanili laterali: forme tranquille e famigliari
concluse dai rustici tetti di tegole. Solo la cella campanaria centrale
assume valore, indicando da lontano il monumento e continuando dal basso
in alto come in un crescendo, il pregio della forma. La sua sagoma,
nelle tenui accentuazioni di una un po’ grossa sinuosità,
sintetizza bene il gusto di agreste sensualità barocca con quello
di levigata essenzialità moderna.
È al suo posto quella chiesetta sulla collina veneta, pur nella
sua modestia.
Ad analoghe attitudini, ma con maggior fasto e predominio del tema tradizionale
delle ville venete settecentesche, si ispira il progetto di trasformazione
e di sistemazione di una casa di campagna signorili sul Lago di Garda.
È meno interessante.
Maggior valore e personalità presenta la nota casa del farmacista
al Lido di Venezia, ove la tendenza barocca è resa assolutamente
attuale della semplicità volumetrica, dalla levigatezza e chiarità
delle superfici e da un certo senso equoreo, come di conchiglia marina,
chiuso nelle tenui tortilità delle scarse sagome, vive appunto
perchè delicate e sottili sul piano breve della facciata. Sta
molto bene al Lido questa casa. Più tortuosa ed ambigua, meno
simpatica, in attitudini non dissimili, la lapide ai Caduti del 71°
e 118° Fanteria.
Nell’ingresso e nel bar della XVa Biennale Veneziana, le essenziali
nudità dei piani assumono valori più compiutamente moderni
e settentrionali. Effettivamente il desiderio di chiarezza e costruttività,
di abbandono del superfluo, di una sempre maggiore interiorità
esprimibile mediante le forme in sè stesse, a prescindere da
veli decorativi, caratterizza il nostro modo attuale di sentire l’architettura,
così come nella vita siamo o vogliamo essere semplici, franchi,
attivi e concreti.
L’Arch. Giuseppe Torres ha recentemente edificata la Pieve di
S. Stefano in Sigliano Veneto.
La bella chiesetta, che sintetizza certi caratteri romanici e bizantineggianti
con la fresca ed un po’ rozza sensibilità dell’Architettura
rustica Veneta, risente di una composizione volumetrica originale ed
armoniosa.
L’esecuzione accurata rende saporose le superfici esterne, molto
umili del resto, com’è voluto dall’ambiente.
L'interno, nella sua semplicità, è gradevole.
L’architetto Orfeo Rossato ha costruite al Lido alcune ville
che si fanno notare per le attitudini sinteticamente moderne della composizione.
Sono lavori sinceri e simpatici.
P. M.
COMMENTI E POLEMICHE
L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA NELLO STUDIO
DEI MONUMENTI
Più volte in questa Rivista il sottoscritto ha toccato tale
grave argomento. Non è male tornarvi ancora ed insistere affinchè,
per lo meno, non il problema sia risolto, ma si abbia la coscienza che
un problema esiste.
Nella cura della conservazione dei monumenti e delle opere d’Arte
noi siamo ancora molto spesso in pieno empirismo, che talvolta assume
perfino le forme grottesche della stregoneria e della magia. Nei quesiti
essenziali della statica dei monumenti ancora le norme della scienza
delle costruzioni, ragionevolmente tradotte e ridotte in relazione alla
vecchiaia degli organismi ed alla necessità di conservarli ad
ogni costo, rappresentano tuttavia una guida severa; ma nelle spicciole
questioni di conservazione di pietre, di legnami, di intonachi, di stucchi,
di pitture ecc., l’opera cieca del praticone prende il sopravvento
e si traduce bene spesso in effettive rovine.
E quanti problemi si presentano ogni momento al restauratore! Come arrestare
il deperimento di intagli in marmo? o lo sfaldarsi di blocchi di pietra
o di colonne giunte ormai alla loro scadenza di stabilità? Come
salvare gli affreschi dal degradamento progressivo e come evitare, ad
esempio, che la loro scoperta e la liberazione dalla terra che li chiudeva
non sia che una breve meteora, non rappresenti una colpevole distruzione?
Come ridare forma agli oggetti di bronzo corrosi? Come salvarne la patina?
Come consolidare dipinti ed ornati che tendono a distaccarsi, con metodi
che ci assicurino la loro conservazione non per un illusorio periodo
effimero, ma nel lontano avvenire?
Uno dei casi più tipici è quello degli affreschi. Talvolta
essi deperiscono e si cancellano o si alterano per la soverchia umidità
del muro che rivestono, talvolta per la soverchia asciuttezza. Talvolta
le cause trovansi in ragioni intrinseche di involuzione o trasformazione
chimica, od in elementi parassitari biologici, od in marcescenza delle
pietre o dell’intonaco su cui appoggiano; e si distaccano, o si
polverizzano, o si macchiano irregolarmente o mutano colore.... Gli
affreschi di S. Maria Antiqua al Foro romano, di S. Francesco di Assisi,
del Camposanto di Pisa, del cenacolo leonardesco, della cripta di S.
Maria del Piano ad Ausonia rappresentano altrettanti casi clinici, taluni
disperati, altri no, ma tutti degni di uno studio severo e sistematico,
che accumuli le nostre incerte cognizioni e le porti a risultati concreti.
E per le pietre ed i marmi che si disgregano, come al portale del Duomo
di Cefalù, alle gallerie di S. Andrea di Vercelli, alle opere
vignolesche in Roma, quale può essere la diagnosi, quale il rimedio?
Trattasi prevalentemente di azione esterna delle intemperie o di interna
alterazione fisica o chimica? Sono efficaci i silicati che chiudono
e soffocano in uno strato impermeabile, o i grassi che impediscono il
fermarsi dell’acqua o speciali spalmature saponacee, o iniezioni
a forte pressione? Oppure tutti i rimedi sono inutili e non v’è
che l’extrema ratio della sostituzione? E quando ed in quali casi?
Tutto questo studio, parte deduttivo parte induttivo, dovrebbe essere
opera di scienziati, come lo è nella medicina umana; e dovrebbe
valersi di tutti i portati della scienza moderna, dalla chimica, alla
fisica, alla biologia, di tutti i mezzi delle tecnica moderna, dalle
indagini coi raggi Roentgen ai procedimenti di iniezioni di silicati
o di cementi, e drenaggi ed apparecchi essicatori; e dovrebbe far capo
a constatazioni regolari, ad esperimenti ben controllati, a conclusioni
parziali da cui ci si avvii a nuovo cammino verso risultati generali
e verso leggi ben definite. Invece così non è. Siamo ancora
nel periodo dei tentativi frammentari che spesso danneggiano invece
che riparare, nel regno degli empirici, talvolta abilissimi per tecnica
esecuzione manuale, ma quasi sempre ignoranti, che si rifugiano nel
mistero dei preparati di loro invenzione, così come fa, di contro
al medico, lo specialista della quarta pagina dei giornali.
Occorre dunque che finalmente in questi muri umidi, in queste strutture
cadenti penetri la scienza; la quale non è altro che metodo di
osservazione, coordinamento delle cognizioni dei competenti, tesaurizzazione
dei risultati acquisiti, utilizzazione dei più diversi mezzi
tecnici d’indagine e di opera. Ed è doveroso farlo senza
indugio.
E non è difficile la via da seguire, purchè si voglia
con tenacia, sgombrando la mente da pregiudizi e da riguardi personali:
chiamare in ausilio i laboratori scientifici che per altri scopi, didattici
od amministrativi, esistono nelle principali città italiane ed
in partirolare a Roma; riunire in convegni periodici i Sovraintendenti
ai Monumenti ed alle opere d’Arte per formulare quesiti, comunicarsi
i risultati di osservazioni, inquadrare il lavoro teorico e pratico
nei casi concreti; pubblicare in apposita rubrica del Bollettino d’Arte
del Ministero della Istruzione quelli che possono dirsi dati definitivi
nello studio sperimentale; preparare infine una categoria di tecnici
specialisti, che siano edotti non solo della pratica delle operazioni
chirurgiche, come ora sono, ma anche dai criteri di fisiologia, di igiene,
di terapia che debbono presiedere allo studio analitico ed alle cure
adeguate.
Al Governo fascista il provvedere i mezzi, tutt’altro che ragguardevoli,
per svolgere questo programma; alla Direzione generale di Belle Arti
l’attuarla con metodo, con energia, con oculatezza. Il prezzo
è la salvezza di una parte cospicua del nostro incomparabile
patrimonio artistico nazionale.
GUSTAVO GIOVANNONI
BIBLIOGRAFIA
E. F. MAGER, Some Notes on the parthenon. in Journal of the R. Institute
of British Architects, 25 febbr. 1928, 12 maggio 1928.
Sono note le discussioni e le ipotesi sorte sul quesito della interna
illuminazione dei templi greci fin dai primi tempi da cui data il loro
studio scientifico. Molti moderni studiosi, a cominciare dal Penrose
e dal Fergusson, si sono proposti il tema, e, nell’assenza assoluta
di elementi diretti (poichè delle coperture degli antichi monumenti
nulla più ci rimane), e nella scarsezza dei riferimenti letterari
(che si limitano a pochi ed incerti passi di Vitruvio, di Pausania,
di Giustino) hanno supposte ingegnose soluzioni consistenti in discontinuità
del tetto, tali da consentire di portare spiragli di luce nell’interno
della cella.
In questo stesso ordine di ricerche trovasi il recente studio del Mager
che in parte riannodasi alle proposte dello Chipiez.
Le figure qui unite, tratte dagli articoli sopra indicati, dimostrano
chiaramente le più tipiche ipotesi. Il Fergusson supponeva dei
pozzi longitudinali, a cui avrebbero corrisposto aperture nella interna
parete verticale, formanti un terzo ordine architettonico, con una disposizione
interiore non dissimile da quella delle grandi sale ipostile nei templi
egizi, e dagli oeci o dalla basiliche dei romani. Chipiez ed il Mager
invece immaginano una illuminazione orizzontale nell’alto dei
loggiati della cella, ottenuta mediante una duplice serie di lacunari
traforati. L’ordinamento architettonico interno, invece che frazionarsi
in una triplice sovrapposizione di ordini, rimarrebbe composto da due
ordini soltanto (come dimostra il tempio di Nettuno a Pesto), e sovra
essi il soffitto.
L’ipotesi è elegante, ma, come tutte le altre analoghe,
ha il difetto di essere artificiosa e di creare complicazioni costruttive
che non sembrano rispondenti alla semplice concezione che anima il tempio
geco. Anche la disposizione ipetra, o quella semi-ipetra, a lucernario
centrale, a cui sembra attenersi lo Choisy, non debbono essere state
che soluzioni d’eccezione, determinate più da insufficienza
costruttiva, ed in particolare dalla difficoltà di procurarsi
grandi travi di legno, che da ragioni d’arte.
Ben più logico è affidarsi, fino a prova contraria, alla
spiegazione semplice e diretta, cioè quella della semi-oscurità
della cella, illuminata solo dalla porta amplissima, a cui non è
fuori luogo supporre un sovraporta del tipo di quello del Pantheon,
e da taluni spiragli ricavati nell’alto del muro, sotto il peristilio,
forse in corrispondenza di alcune metope vuote. Nella vivace luminosità
del cielo di Grecia o di Sicilia, la ricerca dell’effetto nell’interno
dei templi deve essersi sempre basata sulla semioscurità, così
come era avvenuto nei monumenti egiziani e come seguiterà ad
avvenire in tutta l’architettura di Oriente: a naturale contrasto
con l’aspirazione architettonica nei paesi del Nord, ove, specialmente
nelle chiese, lo sviluppo verticale e l’ampiezza delle vetrate
mostrano la tendenza ad accoglier la massima quantità di luce,
simile agli alberi di un fitto bosco che s’innalzano verso il
sole. Le statue dorate di cui tanti antichi templi erano adorne sembrano
fatte non per la luce aperta, ma per la penombra, che permette di passare
dalla prima suggestione mistica alla successiva percezione più
tranquilla dei mirabili particolari. Probabilmente dunque gli architetti
e gli artisti greci non si sono mai neanche poste codeste questioni,
che ora affaticano l’ingegno sottile dei nostri studiosi.
G. GIOVANNONI.
I. C. GAVINI. - Storia dell’Architettura in Abruzzo. - Vol. I
e II. - Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli. - Milano-Roma
1927.
Dopo l’opera che il compianto Vincenzo Bindi aveva pubblicato
nel 1880 sui monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, densa di
documenti e che dato il tempo nel quale era stata scritta, rappresentava
veramente un notevole contributo, oserei dire inizio, per la storia
dell’Arte Abruzzese, pochi studiosi si erano intrattenuti sull’Arte
di questa terra che ha manifestazioni veramente singlari.
Studiosi locali che non erano andati oltre la ristretta cerchia delle
loro mura ed ai quali d’altra parte dobbiamo sempre essere grati
di questa loro opera di pionieri, da ricordarsi fra tutti Pietro Piccirilli
di Sulmona, il Bellini, il Savini, il Panello, Mezzanotte ed altri che
sulla loro Rivista di Arti, Lettere e Scienze, edita a Taranto dal Panella,
si può dire hanno per i primi iniziati gli studi sull’Arte
Abruzzese. Il Bertaux pubblicando nel 1904 il primo volumo della sua
Art dans l’Italie Meridionale studiò anche alcuni monumenti
abruzzesi, non sempre sereno però nelle sue conclusioni, ebbe
sopratutto il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi
su molte opere neglette o sconosciute ai più.
L’opera che l’Arch. Ignazio Carlo Gavini pubblica per i
tipi della Casa Bestetti e Tumminelli e che egli intitola «Storia
dell’Architettura in Abruzzo», affronta in pieno il problema
delle origini e della evoluzione della Architettura Abruzzese. Egli
studia con amore profondo i vari monumenti sparsi in questa magnifica
regione, ancora pur troppo così poco nota agli italiani, andandoli
a ricercare in ogni angolo sperduto nelle profondità delle valli
o sulle cime dei monti, portando ovunque il suo occhio attento di conoscitore
e di amatore.
L’opera è veramente poderosa e ricca di belle illustrazioni,
alcuna delle quali preziose perchè si riferiscono a monumenti
ormai scomparsi, distrutti dalla furia del terremoto o dalla ignoranza
degli uomini.
La serietà con la quale il Gavini ha condotta questa sua opera
si rivela oppunto dal fatto che egli non ha dimenticato nessun elemento
che avesse potuto portare un pò di luce nell’intricato
groviglio delle scuole e degli influssi che hanno dato indirizzi così
vari negli elementi costruttivi e decorativi dei monumenti d’Abruzzo.
L’Arch. Gavini ha veramente e profondamente studiato le opere
architettoniche della Regione Abruzzese, analizzandole nei loro elementi,
scrutandole nelle loro origini, raggruppandole e ricollegandole con
intuito felice. Egli viene a conclusioni quasi sempre esatte anche quando
elementi estranei o la vicinanza di altre opere avrebbero potuto fuorviarlo.
Io stesso eseguendo, per ragioni del mio ufficio, alcuni restauri in
opere d’arte illustrate dal Gavini, ho potuto trovare elementi
che, sconosciuti all’A., confermano quanto egli aveva asserito.
Dei due volumi che compongono l’opera, il primo ci sembra il migliore
ed è veramente completo. Su questo volume egli studia i monumenti
d’Abruzzo dai secoli avanti al mille fino al secolo XIII.
Non era facile ritrovare gli elementi dell’Architettura Abruzzese
del periodo avanti al mille, considerando che ben poche vestigia ci
restano poichè quasi tutte le costruzioni sono posteriori al
mille e molti elementi erano stati assorbiti o distrutti o furono applicati
come elementi decorativi per le nuove costruzioni. Non era facile fare
queste ricerche in Abruzzo ove, salvo rarissimi casi, non esistono notizie
d’archivio e l’A. ha dovuto certamente andare a ricercare
i monumenti senza alcuna guida e senza la scorta di alcun documento.
Nessuna meraviglia se in queste difficoltà di ricerche alcuni
monumenti anche importanti possano essergli sfuggiti, come i resti della
Cattedrale dell’antica Forcona, che fu sede Vescovile e nella
quale il Signorini (1) ricorda di aver visto una lapide del VII secolo
dedicato al Vescovo Albino che fu il II Vescovo Forconense.
L’Architettura dal secolo undecimo fino agli inizi del trecento
è analizzata nelle sue varie manifestazioni in modo completo
e l’A. ne ricollega le fila e le correnti sparse nella vasta Regione
Abruzzese, accostando fra di loro i vari monumenti per classificarli
secondo le diverse scuole che, nate da un unico ceppo, abbero centri
dai quali si irradiarono, S. Liberatore a Maiella, S. Clemente a Casauria,
ecc.
Il secondo volume si occupa dell’Architettura dal secolo XIV fino
al secolo XVI. Avremmo desiderato che l’A. si fosse più
ampiamente soffermato su questo ultimo periudo nel quale si attardano
le forme romaniche o gotiche sposandosi e ingentilendosi nel rinascimento,
con espressioni d’arte veramente originali.
Quanti si occupano di Architettura devono essere grati all’A.
per questa sua pubblicazione così ricca di prezioso materiale,
scelto con amore di artista e che porta nuova luce sulla storia dell’Arte
Abruzzese. È questa la prima opera che, seguendo un metodo scientifico,
inquadra in modo completo l’Arte d’Abruzzo ricollegandola
ai vari movimenti artistici delle altre regioni d’Italia. Gli
devono essere particolarmente grati gli abruzzesi per aver egli studiati
e fatti conoscere tanti monumenti che onorano questa terra generosa
e la genialità dei suoi figli, questa terra, ove - riporto le
parole con le quali l’A. chiude il suo secondo volume - non si
concepiva una esistenza, anche modesta, senza che il sorriso dell’Arte
non venisse ad allietarla. Poichè era innato il sentimento (che
oggi pur troppo tende a scomparire) che l’Arte non debba allietare
soltanto la vita di una generazione, ma sopravvivere nelle generazioni
future.
ARMANDO VENÈ.
(1) A. SIGNORINI: La Diocesi di Aquila, pag. 99 del I vol.
SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI
PAGINE DI VITA SINDACALE
CONVOCAZIONE DEL DIRETTORIO NAZIONALE E DELLE SEGRETERIE REGIONALI
DEL SINDACATO.
Convocati dal Segretario Nazionale arch. Alberto Calza-Bini, nei giorni
23 e 24 Novembre si sono riuniti in Roma i componenti del Direttorio
Nazionale ed i Segretari Regionali del Sindacato Architetti, per discutere
i seguenti temi:
Tariffa Professionale.
Giunte Sindacali.
Attività dei Sindacati Regionali.
Scuole di Architettura.
Contributi.
Erano presenti gli architetti: Brioschi - Boni - Chierici - Fagnoni
- Magni - Stacchini - Sullam - Venturi, componenti il Direttorio Nazionale
e gli archittetti: Trebbi - Cerpi - Mainetti - Pantaleo - Melis de Villa,
Segretari dei Sindacati di Bologna, Firenze, Milano, Napoli e Torino.
Dopo lunga e laboriosa discussione sulle tariffe professionali, data
l’'importanza e la vastità dell’argomento, ritenendosi
che la tariffa presentata dal Sindacato di Roma, seppure suscettibile
di modificazioni, risponda meglio ai suoi scopi che non quelle presentate
dai Sindacati di Milano, Torino e Venezia, il Segretario Nazionale delibera
di distribuire a ciascun Sindacato la proposta di Roma, perchè
entro 10 giorni i Segretari Regionali la restituiscano con le aggiunte
e modifiche che crederanno opportune.
Esaurito il tema, si constata la necessità di far funzionare
al più presto le Giunte Sindacali, che ancora possono esser nominate,
non avendo la Commissione Centrale per la iscrizione agli Albi esaurito
il suo compito; si approva perciò il voto seguente:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza
dei Segretari Regionali, ritenuto che urge dare definitivo assetto alle
organizzazioni degli Architetti e delle Giunte Sindacali, fa voti che
la Commissione Ministeriale per gli Albi affretti la chiusura dei lavori
a lei affidati, e prega la competente autorità perché
trasmetta sollecitamente la lista degli inscritti agli Albi degli Architetti
ai rispettivi Presidenti di Tribunale, per la definitiva compilazione
degli Albi professionali».
Sull’argomento delle Scuole di Architettura, di capitale importanza
per la classe degli Architetti, si discute lungamente; il Segretario
Nazionale infine, raccogliendo i voti dei presenti, compila il seguente
ordine del giorno, approvato all’unanimità dal Direttorio:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti ritiene, in
accordo con la grandissima maggioranza degli studiosi, che condizione
essenziale per il risveglio e l’affermazione dell’architettura
nella vita moderna - con quella funzione squisitamente politica che
l’architettura ha avuto per tutti i popoli e in tutti i tempi
- sia l’esistenza di una figura ben delineata e chiara dei professionisti
architetti, e, logica e naturale conseguenza, l’esistenza di apposite
Scuole di Architettura viventi di vita propria nel grande quadro della
coltura superiore italiana.
«Riconoscendo appunto nelle leggi fasciste sulla professione e
sul titolo, e in quelle dell’inquadramemto sindacale e della funzione
dello Stato Corporativo, la volontà del Regime di attribuire
alla classe degli architetti una precipua e caratteristica missione,
e ricordando le alte e nobili parole pronunciate dal Capo del Governo
sulla differenziazione necessaria e legittima tra le professioni degli
ingegneri e degli architetti, il Direttorio vuole proclamare la sua
serena fiducia che il Ministro della Pubblica Istruzione nel procedere
alla riforma degli insegnamenti universitari voglia assicurare alle
Scuole di Architettura, con la loro spiccata autonomia didattica, la
dignità e il grado di Istituti di Istruzione Superiore.
«E afferma infine che, intesa come deve intendersi l’opera
degli architetti nell’attività edilizia, opera che si manifesta
anche in ogni piccola esplicazione purchè guidata da un vigile
senso di bellezza, chiara si delinea la necessità per la Nazione
di disporre di un grande numero di professionisti forniti di quella
solida e completa preparazione tecnica e raffinata sensibilità
artistica, quale soltanto nelle Scuole di Architettura è dato
raggiungere».
Dopo avere esaminato l’azione svolta sinora dalle varie Segreterie
Regionali, e tracciate le linee per la futura attività del Sindacato,
si passa alla questione dei contributi. Dopo attento esame della situazione
attuale e delle necessità che si prospettano, il Direttorio Nazionale
approva la deliberazione seguente:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza
dei Segretari Regionali, esaminate le necessità che si prospettano
per l’amministrazione del Sindacato durante l’anno 1929,
delibera di chiedere alle Superiori Gerarchie il permesso per l’applicazione
dei contributi volontari per ciascun inscritto al Sindacato nella misura
seguente:
Per il Sindacato Regionale L. 3 mensili.
Per il Circolo Regionale di Coltura L. 3 mensili.
Per la Segreteria e il Direttorio Nazionale L. 2 mensili.
e delibera infine che i contributi per il funzionamento delle Giunte
Sindacali e della Comminione Centrale, che a norma di Legge sono obbligatori
per tutti coloro che esercitano la professione, anche se non inscritti
al Sindacato, siano stabiliti nella misura di:
L. 2 mensili per le Giunte Sindacali.
L. 1 mensile per la Commissione Centrale ».
Prima di sciogliersi il Direttorio Nazionale vota altri due ordini
del giorno, uno relativo al bando di concorso per il palazzo Provinciale
di Napoli, ed un altro relativo all’organico degli Enti Pubblici
nei riguardi degli Architetti: ecco il Testo del Primo:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza
dei Segretari Regionali, presa cognizione del Bando di Concorso per
il palazzo della Provincia di Napoli, constatato che manca nel Bando
stesso ogni qualsiasi garanzia, per la brevità del tempo concesso
ai concorrenti, per la mole di lavoro richiesta, per le esiguità
del premio, delibera:
«di richiedere la collaborazione del Sindacato Nazionale Ingegneri,
per agire presso le competenti autorità onde ottenere la revoca
del Bando a la sua rinnovazione con le norme richieste dalla logica
e dalla serietà professionale, come i Sindacati Tecnici ed Artistici
vanno da tempo insistentemente richiedendo.
«Nel caso di infruttuosa azione in tal senso, delibera inoltre
di invitare tutti gli inscritti a boittare il Concorso, rendendo di
pubblica ragione il deliberato».
Ed ecco il Testo del secondo:
«Il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, alla presenza
dei Segretari Regionali, premesso che il Sindacato ritiene sia compito
precipuo degli Enti Pubblici di tutelare, approvare e sorvegliare le
varie manifestazioni di edilizia cittadina;
«ritenuto che gli edifici pubblici di particolare importanza devono
essere affidati attraverso pubblici concorsi, fa voti che:
«Nel caso che i progetti vengano eventualmente eseguiti per speciali
necessità da tecnici degli uffici, siano pubblicamente resi noti
gli autori dei progetti medesimi.
«ritenuto che gli attuali organici dei tecnici degli uffici pubblici
non rispondono al riconoscimento sancito dalla legge nei riguardi del
titolo e della competenza professionale degli Architetti, fa voti che
intervenga sollecitamente una riforma degli organici stessi in rispondenza
ai diritti derivanti agli Architetti dallo spirito e dalle norme della
nuova legge fascista».
Dopo esaurienti discussioni su altre questioni di minor conto riguardanti
gli interessi e le attività della classe degli Architetti, la
convocazione viene sciolta.
Il Segretario Nazionale
Arch. ALBERTO CALZA-BINI.
CONCORSI
CONCORSO PER LA RICOSTRUZIONE DELLA FACCIATA DELLA VENERABILE ARCICONFRATERNITA
DELLA MISERICORDIA IN FIRENZE.
Si è costituito in Firenze un Comitato per la ricostruzione
della facciata della sede di detta Arciconfraternita, la quale è
posta a lato della Torre Giotto ed è prossima alla loggia del
Bargello ed al Battitero. A tale scopo il Comitato ha indetto un concorso
fra gli Architetti Italiani inscritti al Sindacato, lasciando libertà
di scelta sul carattere della facciata purchè intonata all’ambiente.
Il concorso scade alle ore 18 del 10 aprile 1929. I premi assegnati
sono cinque, di L. 20.000, 10.000, 5.000, 3.000, 2.000 rispettivamente.
I premi sono indivisibili e la Giuria si riserva la facoltà di
assegnarli tutti, o di non assegnarli a suo insindacabile giudizio.
Per la planimetria dell’edificio ed altre notizie è necessario
rivolgersi al Comitato, presso la sede dell’Arciconfraternita.
ESITO DEL CONCORSO INDETTO DALL’ISTITUTO PER LE CASE POPOLARI
DI MILANO.
Il 30 settembre scorso si è chiuso il concorso indetto dall’Istituto
Case Popolari per un gruppo di costruzioni da erigersi in fregio al
Viale delle Argonne.
La Giuria, presieduta dal gr. uff. Giuseppe Borgomaneri, e composta
dal consigliere delegato dell’Istituto ing. comm. Gorla, non ha
ritenuto di poter assegnare il primo premio, ha invece distribuito i
premi successivi secondo la graduatoria seguente:
Il premio di L. 20.000, all’arch. Giovanni Crescini di Milano.
III, IV e V premio di L. 5000, ognuno rispettivamente ai progetti dell’ing.
Francesco Guzzo di Venezia, dell’ing. Giovanni Manfredi di Milano
e degli architetti Leonardi e Martinenghi di Milano, proponendo, per
quello dell’ing. Gusso, in segno di particolare riconoscimento,
che esso venga acquistato dall’Istituto, col versamento di altre
L. 5000 secondo è prescritto dal bando di concorso, onde rimanga,
insieme con quello dell’arch. Crescini, di proprietà dell’Istituto
stesso.
ESITO DEL CONCORSO PER IL PIANO REGOLATORE DI FOGGIA.
La Giuria indetta allo scopo ha assegnato i seguenti premi al concorso
indetto per lo studio del piano regolatore della città di Foggia:
Primo Premio. - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Cancellotti,
Lavagnino, Lenzi, Piccinato, Scalpelli, Valle.
Secondo Premio - Al progetto degli architetti ed ingegneri: Petrucci,
Susini, Zufaroli, Paolini.
Terzo Premio ex aequo. - Al progetto degli architetti ed ingegneri:
Chiodi, Merlo, Brazzola.
Terzo Premio ex aequo. - Al progetto degli architetti ed ingegneri:
Ciampoli, Lombardi, Messina, Vetriani.
Ad uno dei prossimi fascicoli l’illustrazione dell’interessante
concorso.
LA REVOCA DELL’ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE DECORATIVA
ED INDUSTRIALE DI MONZA 1928.
L’ufficio stampa dell’Ente promotore ci prega pubblicare
in proposito, quanto segue:
«Le ultime note vicende del Consiglio d’Amministrazione
del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, che hanno portato alla nomina
del Senatore Bevione a Commissario dell’Ente, avevano di molto
ritardato il lavoro di organizzazione artistica e di preparazione finanziaria
della IV Biennale delle arti decorative e industriali moderne, la quale,
avrebbe dovuto aver luogo dal Maggio all’Ottobre dell’anno
prossimo. E pertanto lo stesso Commissario ha deciso di rimandare al
1930 l’Esposizione, considerando gli inconvenienti del rinvio
insignificanti in confronto al grave danno che sarebbe certamente derivato
da una Mostra puntuale ma preparata affrettatamente.
«Il ritardo sarà sicuramente e largamente compensato da
un intenso perfezionamento della Mostra e dei suoi servizi, da un rinnovato
fervore di tutte le sue manifestazioni, di modo che l’Esposizione
del 1930 rimanga memorabile tra le rassegne internazionali d’arte
decorativa.
«Gli architetti Alpago e Ponti e il pittore Sironi, facenti parte
del Direttorio, sono stati riconfermati nell’incarico, avendo
essi, in seguito ad una precisa richiesta rivolta loro dal Commissario,
assunto l’impegno di una collaborazione armonica e feconda fino
alla completa preparazione della Mostra».
LE MOSTRE PER LA VALORIZZAZIONE COLONIALE A TRIPOLI.
Nella primavera prossima avrà luogo in Tripoli d’Africa
la terza manifestazione annuale per la valorizzazione della Tripolitania,
indetta, come gli scorsi anni dall’Ente Autonomo della Fiera,
il quale, dagli uffici di Roma, ha già iniziato il lavoro di
organizzazione.
Dopo il successo della scorsa primavera questa terza manifestazione
è destinata a contribuite ancora più largamente che per
il passato allo sviluppo dell’attività economica della
Tripolitania, sopratutto dal punto di vista agricolo.
Fervono già i lavori per la costruzione del nuovo quartiere della
Fiera che sorgerà sopra un’area di oltre 50.000 metri quadrati,
appositamente acquistata per erigervi magnifici e grandiosi padiglioni
i quali ospiteranno le interessanti mostre di cui il programma è
ricco.
È già assicurato per tale avvenimento un grandioso concorso
di visitatori che saranno attratti anche dalle numerose manifestazioni
turistiche, sportive, artistiche e folkloristiche che sono in via di
alacre preparazione.