PROBLEMI REALI PIÙ CHE RAZIONALISMO
PRECONCETTO
Questo articolo va connesso con quello intitolato “Prima Internazionale
architettonica” dello stesso autore, comparso in questa Rivista
nel numero di Agosto 1928.
Ginevra, la cittadina capitale tranquilla e fiorita, offriva, durante
l’esposizione del Concorso per il Palazzo delle Nazioni, l’ambiente
migliore per chi voleva dedicarsi, per qualche giornata, lontano dalle
fatiche e dagli affanni, allo studio puro e silenzioso di tutti i movimenti
attuali dell’arte architettonica, come la mostra consentiva.
I progetti esposti erano in tutto ben 377. Avevo quindi avanti a me
più di 8.000 disegni da esaminare, da comparare.
Nessun progetto pazzo, del tutto inconcludente o assurdo. Nè
vi fu, questa volta, la solita zavorra che annienta così spesso
l’interesse dei concorsi architettonici. Tutti avevano preso sul
serio (chi sa perchè), quel concorso. N’è risultata
una rivista completa di tutti gli indirizzi e gli intendimenti dell’architettura
contemporanea: uno spiegamento grandioso ed esauriente delle varie forze
internazionali.
Di tutti i progetti, circa l’ottanta per cento appartenevano
a quella categoria che nelle commissioni edilizie si chiamano onesti,
dignitosi, sui quali non v’è nulla da dire, privi di audacie
moderniste, concepiti senza partito preso. Un’altro dieci per
cento erano: Academie de beaux Arts: piante acquerellate a sepia con
ombre a 45 gradi, giardini e parchi foltissimi, colonnati alla Grand
Palais, attici carichi di statuaria, cupole schiacciate. Bene studiati
tuttavia, proporzioni raramente errate, armonia fra le parti quasi sempre
raggiunta, schemi di distribuzione semplici e larghi.
L’ultimo dieci per cento finalmente, una trentina, erano i buoni,
i sani tra i modernisti. E qui debbo candidamente confessare che, a
studio terminato, mi accorsi che soltanto questi mi avevano veramente
e profondamente interessato. Avanti ai primi si passava allo stesso
modo come si passa lungo le interminabili corsie delle esposizioni delle
svariate promotrici: occhiate stanche, molti sbadigli. I secondi si
esaminavano con qualche attenzione; il tema era generalmente bene studiato,
i problemi accademicamente risolti. Ma sugli ultimi ci si fermava ore
ed ore, a legare le piante tra di loro, con le sezioni, con i prospetti:
a leggere le succose relazioni, a meditare sopratutto sulle idee, sulle
trovate riguardanti quesiti attaccati audacissimamente.
Ed è proprio su qualcuna di queste trovate che voglio oggi un
poco soffermarmi. Non che tra questi progetti vi fosse quello che, per
chi non avesse preconcetti antimodernisti, potesse meritare il primo
premio e l’esecuzione. Il Le-Corbusier soltanto si avvicinò
molto a questo grande onore: si sa anzi che in una delle ultime delle
sessanta sedute della Commissione giudicatrice egli rischiò,
in un momento in cui pareva volesse prevalere la sincerità, di
vincere. Ma fu un attimo: subito riprese il sopravvento la lotta tendenzista
e più ancora quella politica e la conclusione fu quanto di più
ginevrino si potesse immaginare! Non un vincitore, ma nove vincitori:
il progetto sarà fatto da sei architetti insieme, di tutte le
razze, e il capo in testa sarà il grande accademico Nenot. So
che oggi ancora i sei sfortunati vincitori stanno da più mesi
sudando sei camicie, per far sì che nel progettone internazionale
non manchi un poco del vecchio progetto di concorso: e nessuno oramai
potrà più giudicare, poichè al disopra di Ginevra
non v’è che l’Empireo.
Ne risulterà una Macedonia di stili e di temperamenti, un caos
architettonico; in un certo senso, genuino e perfetto esponente dell’arte
e della vita d’oggi.
Ma torniamo alle trovate. Non mi preoccupo di esaminare se queste varie
soluzioni rispondessero bene al tema grandioso e magniloquente del Palazzo
delle Nazioni; anzi dico addirittura che no, che non rispondevano. Ma
esaminiamole indipendentemente dal Concorso, come studi particolari
e a sè stanti, di quesiti che si presentano ogni giorno, nei
temi più svariati, all’architetto moderno.
Fig. 1. Ecco come un concorrente ha risolto la costruzione di un lungo
braccio di ambienti. Quante volte si presenta questo tema! Nei ministeri,
nelle scuole, negli istituti, ovunque occorra allineare due sterminati
numeri di stanze lungo i lati di uno sterminato corridoio. Occorre sempre
pensare alle difficoltà di illuminazione e di aereazione del
corridoio, alla monotonia sconfinata, alla ubicazione, quasi sempre
cattiva, delle scale e dei gabinetti.
La linea spezzata della fig. 1 risolve tutto: i brevi tratti di corridoio
hanno luce nel fondo; qui trovano posto - perfettamente adatto - gli
ascensori, le scale, i gabinetti. Internamente la continua spezzatura
di visuale dà vivacità e allegria. Ne risulta un problema
estetico: una facciata tutta a rientranze successive. Ecco un vero problema
moderno, impostato su di una realtà pratica e logica, e non su
cerebralismi o neo-accademicismi.
Questo quesito, per esempio, non fu affatto risolto dal razionalissimo
Le Corbusier che immagina anche lui i soliti corridoi chilometrici.
Fig. 2. Lo stesso tema del precedente fu risolto dagli architetti Meyer
e Wittwer in tutt’altro modo. Anzichè distribuire le 700
stanze degli uffici - quasi tutte eguali tra loro - in cinque o sei
piani lunghissimi, egli ha preferito distribuirle in due bracci relativamente
brevi, ma elevati a circa 20 piani. I due bracci sono paralleli, ma
non si sovrappongono: dove l’uno finisce, si inizia l’altro;
soltanto due piccole zone si trovano di fronte, e qui sono collocati,
in una torre, i numerosi ascensori, la scala e un tabogan coperto, utile
per l’immediato sfollamento degli uffici sia nel caso di incendio,
sia nel caso di interruzione del funzionamento degli ascensori, e sia
infine nell’ora dell’uscita simultanea di tutti gli impiegati.
Qualche cosa di simile aveva pure immaginato - ma con minore coraggio
- il danese Anton Rosen, uno dei terzi premi. Si tratta insomma dell’applicazione
del grattacielo americano al reparto uffici di un grande palazzo. Da
un lato il grande salone delle assemblee e annessi, dall’altro
uffici: ne è risultato, in questi progetti, un qualche cosa come
la chiesa e il campanile, la moschea e il minareto.
Fig. 3-4. Nils-Einar Eriksson, svedese (uno dei primi premiati) ha
proposto il sistema a raggi, come nelle biblioteche e come nelle grandi
case dei detenuti. Da un’ampia galleria curva si partono tanti
corpi di fabbrica tripli, non lunghi, che prendono luce dagli ampi finestroni
nel fondo. Dal lato opposto della galleria, le scale e gli accessori.
Esternamente si evitano le lunghe facciate zeppe di finestre tutte eguali.
Il tema particolare è indubbiamente ben risolto.
Ecco dunque come uno specialissimo tema sia stato proposto e risolto
da pochissimi architetti. Altri, anche tra gli ultramoderni e razionalissimi,
non l’hanno veduto.
Così il Fahrenkamps (uno dei primi premiati), il Wijdeveld di
Amsterdam (dei secondi), Paolo Bonatz e Alfredo Fischer (pure dei secondi),
Augusto Perret, per non parlare che di nomi ben noti, hanno immaginato
le solite maniche-lunghe tipo convento.
Fig. 5. Un tema risolto assai arditamente dal Meyer e dal Le Corbusier
è stato quello dei vari e molteplici accessi all’edificio.
Il bando di concorso esigeva accessi riservati per la Presidenza del
Consiglio e per quello delle Assemblee: accessi riservati per gli 800
deputati: accessi per il corpo diplomatico (600 persone), accessi per
la stampa, e infine per il pubblico. Ancora altri accessi speciali ai
vari uffici, alla biblioteca, per il servizio, ecc. Per ogni accesso,
scale e ascensori, tabelle indicative.
Come è possibile soddisfare ad un così complicato servizio,
con il solito sistema del gran pronao o vestibolo, con relativo scalone
monumentale esterno e col portiere enorme, con tanto di feluca in testa
e mazza di maresciallo in mano?
Queste migliaia di persone, perchè di migliaia si tratta, debbono
tutte avvicinarsi con le automobili all’ingresso, inzupparsi se
piove, salire le scale, entrare nel magno vestibolo, tutto statue e
marmi, e lì domandare, cercare, raggiungere la propria scala,
il proprio corridoio, il proprio posto.
Le automobili poi debbono alla lor volta allontanarsi, per attendere
nei lontani garages.
Il Meyer immagina invece che tutto l’edificio sia sollevato da
terra per un’altezza di qualche metro: soltanto i pilastri di
cemento armato, che sostengono l’edificio scendono a terra e vanno
a fissarsi sulle fondazioni. L’edificio è dunque tutto
aperto e penetrabile all’intorno e nel suo interno. Una specie
di mille piedi, o una costruzione su palafitte, se preferite. Gli automobili,
da qualunque parte essi giungano, penetrano nell’interno di questa
foresta di cemento armato, e raggiungono immediatamente e da presso
la propria scala, il proprio ascensore: poi sostano lì vicini,
pronti alla discesa del padrone.
Ovunque lumi, tabelle indicative, frecce di orientamento. Pronao, vestibolo,
atrio e garage insieme.
Che cosa succede all’esterno è facile comprendere: questo
prospetto schematico (figura 6) del Le Corbusier ve lo dice. Che tale
soluzione possa pure ottenersi ricoprendo questi pilastri di cemento
armato con pietre o marmi, è verissimo; ma ciò è
secondario e accessorio. Il problema e la soluzione non cambiano.
Hannes Meyer e Hans Wittwer, di cui ho parlato più innanzi (quelli
del tabogan) hanno questa soluzione per la sala delle assemblee, ed
adottano il sistema con ancora maggior coraggio e intransigenza del
Le Corbusier, che l’adotta parzialmente. Ciò significa
del resto, a parte la ricerca della paternità, che si tratta
di una questione già posta da tempo sul tappeto.
Fig. 7, 8 e 9. Sia il Le Corbusier, che il Meyer, che il Van Linge
hanno tentato il tipo della Sala scientifica.
Si pongono esattamente le condizioni di visibilità perfetta (da
ogni punto si deve veder bene la tribuna dell’oratore e quella
della presidenza), di luce abbondante, di aereazione diretta, di minima
cubicità per far udire bene ognuno (circa 2000 persone in tutto),
e finalmente di acustica. Il Le Corbusier sostiene che leggi rigide
di acustica esistono, e ne espone i principi fondamentali. Da tutte
queste condizioni generali, e da quelle speciali della varia e complessa
distribuzione dei posti, secondo le varie categorie dei presenti, nasce
una forma di sala singolarissima, come risulta dalle sezioni che mostro.
Facendo centro sulla tribuna dell’oratore, i lati delle sale divergono
come nei teatri tedeschi: di fronte i posti si allineano su gradinate
concentriche, che salgono gradatamente verso il fondo. Questa parete
di fondo riesce quindi assai alta: invece di essere congiunta con quella
dell’oratore che le sta di faccia, per mezzo di un soffitto piano
o a volta a base piana, che creerebbe una parete altissima e vuota (i
classicisti la decorano con grandi pitture o bassorilievi, alle spalle
della presidenza), con un immenso spazio perduto e assorbente la voce,
abbassa la volta stessa su di un piano fortemente inclinato, parallelo
alla gradinata per raccordarsi a questa stessa parete più in
basso possibile. Così pure il pavimento saliente non è
un piano, ma è fatto a conchiglia, seguendo gli anelli delle
gradinate. Tutte queste superfici curve si riallacciano fra loro in
modo da formare una sala che sembra un uovo.
La decorazione, che non potrebbe mai essere architettonico-lineare,
è nulla: l’attenzione dei deputati non può essere
distratta da storie o allegorie. Penso invece che una sala così
fatta potrebbe essere splendidamente decorata da affreschi, se si trovasse
chi li facesse.
Di sale così concepite ve n’erano tre all’Esposizione
di Ginevra. Oggi ne abbiamo una già costruita e funzionante in
Parigi: la sala Playel (figg. 10, 11, 12).
Fig. 13. Ancora un difficile quesito posto da alcuni concorrenti nel
concorso di Ginevra era questo. Ogni categoria di partecipanti alle
sedute dell’assemblea, doveva avere una propria sala di trattenimento
e di meritato riposo. E poiché il palazzo dovrà sorgere
sul bordo del lago, di fronte al panorama delle Alpi, sarebbe opportuno
che da queste sale si potesse godere la sublime vista.
Il Klitmen dell’Aja l’ha risolto. Ha creato in facciata
una lunga sala di passi perduti, alta quanto tutto l’edificio
ed appoggiata al fondo della sala delle assemblee.
I ranghi sono quattro: al piano terreno i deputati, sopra il corpo diplomatico,
poi la stampa e finalmente il pubblico. Tre grandi gallerie al disopra
del piano terreno si aprono sul vuoto della alta sala dei passi perduti,
la quale ha la fronte verso lago costituita da un’unica immensa
vetrata trasparente. Ne consegue che tutte le suddette gallerie hanno
il godimento della superba vista e stanno nello stesso tempo in comunicazione
tra di loro, costituendo un solo grande ambiente monumentale. Il risultato
esterno è quanto mai spontaneamente geniale e nuovo.
Il partito delle grandi vetrate è stato invece adottato dal Le
Corbusier nelle pareti laterali della grande sala delle assemblee, pensando
forse che per i deputati fosse assai più divertente vedere il
Monte Bianco che la faccia dei colleghi.
Altri problemucci più modesti - posizione delle tolette, forme
asimmetriche e irregolarissime di sale di passi-perduti, ecc., non starò
qui ad illustrare, per non dilungarmi troppo. Ebbi a Ginevra il rammarico
che nessuno avesse pensato a far lì in quella occasione un congresso
internazionale di architetti per discutere su problemi positivi, studiati
e affrontati con tanto amore e con tanta fatica.
Certo è che non si sarebbe trattato di vuote e sterili discussioni
su razionalismo o ambientismo. Si trattava della architettura del vero,
cioè dei problemi pratici e organici, così come si presentano
nella vita che ogni giorno si evolve. Per me è questo il vero
sbocco dell’architettura contemporanea: vedere dov’è
il problema, scovarlo, e farcisi davanti senza pregiudizi, senza partiti
presi: studiandolo per quello che è, e risolvendolo scientificamente,
tecnicamente e con idee. Idee quindi, più che razionalismo.
Idee, e non puerile e sterile controllo su ogni elemento esterno perchè
corrisponda matematicamente alla struttura interna. Dei 377 progettisti
di Ginevra solo tre o quattro hanno pensato che una fila di uffici poteva
costituire un problema nuovo. Cento razionalisti invece si sono preoccupati
di fare architettura scheletrica e industriale.
Invece di perdersi in inutili polemiche su ambientismo e razionalismo
estetico, su nazionalismo o internazionalismo, vediamo di servire, spiritualmente
e praticamente, i bisogni della vita d’oggi, che sono veramente
spostati.
La visione estetica e la veste decorativa ognuno la darà secondo
la propria razza, secondo il proprio temperamento; secondo l’ambiente
dove dovrà operare.
MARCELLO PIACENTINI.