FASCICOLO III - NOVEMBRE 1928
MARCELLO PIACENTINI : Problemi reali più che razionalismo preconcetto, con 13 illustrazioni

PROBLEMI REALI PIÙ CHE RAZIONALISMO PRECONCETTO

Questo articolo va connesso con quello intitolato “Prima Internazionale architettonica” dello stesso autore, comparso in questa Rivista nel numero di Agosto 1928.

Ginevra, la cittadina capitale tranquilla e fiorita, offriva, durante l’esposizione del Concorso per il Palazzo delle Nazioni, l’ambiente migliore per chi voleva dedicarsi, per qualche giornata, lontano dalle fatiche e dagli affanni, allo studio puro e silenzioso di tutti i movimenti attuali dell’arte architettonica, come la mostra consentiva.
I progetti esposti erano in tutto ben 377. Avevo quindi avanti a me più di 8.000 disegni da esaminare, da comparare.
Nessun progetto pazzo, del tutto inconcludente o assurdo. Nè vi fu, questa volta, la solita zavorra che annienta così spesso l’interesse dei concorsi architettonici. Tutti avevano preso sul serio (chi sa perchè), quel concorso. N’è risultata una rivista completa di tutti gli indirizzi e gli intendimenti dell’architettura contemporanea: uno spiegamento grandioso ed esauriente delle varie forze internazionali.

Di tutti i progetti, circa l’ottanta per cento appartenevano a quella categoria che nelle commissioni edilizie si chiamano onesti, dignitosi, sui quali non v’è nulla da dire, privi di audacie moderniste, concepiti senza partito preso. Un’altro dieci per cento erano: Academie de beaux Arts: piante acquerellate a sepia con ombre a 45 gradi, giardini e parchi foltissimi, colonnati alla Grand Palais, attici carichi di statuaria, cupole schiacciate. Bene studiati tuttavia, proporzioni raramente errate, armonia fra le parti quasi sempre raggiunta, schemi di distribuzione semplici e larghi.
L’ultimo dieci per cento finalmente, una trentina, erano i buoni, i sani tra i modernisti. E qui debbo candidamente confessare che, a studio terminato, mi accorsi che soltanto questi mi avevano veramente e profondamente interessato. Avanti ai primi si passava allo stesso modo come si passa lungo le interminabili corsie delle esposizioni delle svariate promotrici: occhiate stanche, molti sbadigli. I secondi si esaminavano con qualche attenzione; il tema era generalmente bene studiato, i problemi accademicamente risolti. Ma sugli ultimi ci si fermava ore ed ore, a legare le piante tra di loro, con le sezioni, con i prospetti: a leggere le succose relazioni, a meditare sopratutto sulle idee, sulle trovate riguardanti quesiti attaccati audacissimamente.
Ed è proprio su qualcuna di queste trovate che voglio oggi un poco soffermarmi. Non che tra questi progetti vi fosse quello che, per chi non avesse preconcetti antimodernisti, potesse meritare il primo premio e l’esecuzione. Il Le-Corbusier soltanto si avvicinò molto a questo grande onore: si sa anzi che in una delle ultime delle sessanta sedute della Commissione giudicatrice egli rischiò, in un momento in cui pareva volesse prevalere la sincerità, di vincere. Ma fu un attimo: subito riprese il sopravvento la lotta tendenzista e più ancora quella politica e la conclusione fu quanto di più ginevrino si potesse immaginare! Non un vincitore, ma nove vincitori: il progetto sarà fatto da sei architetti insieme, di tutte le razze, e il capo in testa sarà il grande accademico Nenot. So che oggi ancora i sei sfortunati vincitori stanno da più mesi sudando sei camicie, per far sì che nel progettone internazionale non manchi un poco del vecchio progetto di concorso: e nessuno oramai potrà più giudicare, poichè al disopra di Ginevra non v’è che l’Empireo.
Ne risulterà una Macedonia di stili e di temperamenti, un caos architettonico; in un certo senso, genuino e perfetto esponente dell’arte e della vita d’oggi.

Ma torniamo alle trovate. Non mi preoccupo di esaminare se queste varie soluzioni rispondessero bene al tema grandioso e magniloquente del Palazzo delle Nazioni; anzi dico addirittura che no, che non rispondevano. Ma esaminiamole indipendentemente dal Concorso, come studi particolari e a sè stanti, di quesiti che si presentano ogni giorno, nei temi più svariati, all’architetto moderno.

Fig. 1. Ecco come un concorrente ha risolto la costruzione di un lungo braccio di ambienti. Quante volte si presenta questo tema! Nei ministeri, nelle scuole, negli istituti, ovunque occorra allineare due sterminati numeri di stanze lungo i lati di uno sterminato corridoio. Occorre sempre pensare alle difficoltà di illuminazione e di aereazione del corridoio, alla monotonia sconfinata, alla ubicazione, quasi sempre cattiva, delle scale e dei gabinetti.
La linea spezzata della fig. 1 risolve tutto: i brevi tratti di corridoio hanno luce nel fondo; qui trovano posto - perfettamente adatto - gli ascensori, le scale, i gabinetti. Internamente la continua spezzatura di visuale dà vivacità e allegria. Ne risulta un problema estetico: una facciata tutta a rientranze successive. Ecco un vero problema moderno, impostato su di una realtà pratica e logica, e non su cerebralismi o neo-accademicismi.
Questo quesito, per esempio, non fu affatto risolto dal razionalissimo Le Corbusier che immagina anche lui i soliti corridoi chilometrici.

Fig. 2. Lo stesso tema del precedente fu risolto dagli architetti Meyer e Wittwer in tutt’altro modo. Anzichè distribuire le 700 stanze degli uffici - quasi tutte eguali tra loro - in cinque o sei piani lunghissimi, egli ha preferito distribuirle in due bracci relativamente brevi, ma elevati a circa 20 piani. I due bracci sono paralleli, ma non si sovrappongono: dove l’uno finisce, si inizia l’altro; soltanto due piccole zone si trovano di fronte, e qui sono collocati, in una torre, i numerosi ascensori, la scala e un tabogan coperto, utile per l’immediato sfollamento degli uffici sia nel caso di incendio, sia nel caso di interruzione del funzionamento degli ascensori, e sia infine nell’ora dell’uscita simultanea di tutti gli impiegati.
Qualche cosa di simile aveva pure immaginato - ma con minore coraggio - il danese Anton Rosen, uno dei terzi premi. Si tratta insomma dell’applicazione del grattacielo americano al reparto uffici di un grande palazzo. Da un lato il grande salone delle assemblee e annessi, dall’altro uffici: ne è risultato, in questi progetti, un qualche cosa come la chiesa e il campanile, la moschea e il minareto.

Fig. 3-4. Nils-Einar Eriksson, svedese (uno dei primi premiati) ha proposto il sistema a raggi, come nelle biblioteche e come nelle grandi case dei detenuti. Da un’ampia galleria curva si partono tanti corpi di fabbrica tripli, non lunghi, che prendono luce dagli ampi finestroni nel fondo. Dal lato opposto della galleria, le scale e gli accessori. Esternamente si evitano le lunghe facciate zeppe di finestre tutte eguali. Il tema particolare è indubbiamente ben risolto.
Ecco dunque come uno specialissimo tema sia stato proposto e risolto da pochissimi architetti. Altri, anche tra gli ultramoderni e razionalissimi, non l’hanno veduto.
Così il Fahrenkamps (uno dei primi premiati), il Wijdeveld di Amsterdam (dei secondi), Paolo Bonatz e Alfredo Fischer (pure dei secondi), Augusto Perret, per non parlare che di nomi ben noti, hanno immaginato le solite maniche-lunghe tipo convento.

Fig. 5. Un tema risolto assai arditamente dal Meyer e dal Le Corbusier è stato quello dei vari e molteplici accessi all’edificio. Il bando di concorso esigeva accessi riservati per la Presidenza del Consiglio e per quello delle Assemblee: accessi riservati per gli 800 deputati: accessi per il corpo diplomatico (600 persone), accessi per la stampa, e infine per il pubblico. Ancora altri accessi speciali ai vari uffici, alla biblioteca, per il servizio, ecc. Per ogni accesso, scale e ascensori, tabelle indicative.
Come è possibile soddisfare ad un così complicato servizio, con il solito sistema del gran pronao o vestibolo, con relativo scalone monumentale esterno e col portiere enorme, con tanto di feluca in testa e mazza di maresciallo in mano?
Queste migliaia di persone, perchè di migliaia si tratta, debbono tutte avvicinarsi con le automobili all’ingresso, inzupparsi se piove, salire le scale, entrare nel magno vestibolo, tutto statue e marmi, e lì domandare, cercare, raggiungere la propria scala, il proprio corridoio, il proprio posto.
Le automobili poi debbono alla lor volta allontanarsi, per attendere nei lontani garages.
Il Meyer immagina invece che tutto l’edificio sia sollevato da terra per un’altezza di qualche metro: soltanto i pilastri di cemento armato, che sostengono l’edificio scendono a terra e vanno a fissarsi sulle fondazioni. L’edificio è dunque tutto aperto e penetrabile all’intorno e nel suo interno. Una specie di mille piedi, o una costruzione su palafitte, se preferite. Gli automobili, da qualunque parte essi giungano, penetrano nell’interno di questa foresta di cemento armato, e raggiungono immediatamente e da presso la propria scala, il proprio ascensore: poi sostano lì vicini, pronti alla discesa del padrone.
Ovunque lumi, tabelle indicative, frecce di orientamento. Pronao, vestibolo, atrio e garage insieme.
Che cosa succede all’esterno è facile comprendere: questo prospetto schematico (figura 6) del Le Corbusier ve lo dice. Che tale soluzione possa pure ottenersi ricoprendo questi pilastri di cemento armato con pietre o marmi, è verissimo; ma ciò è secondario e accessorio. Il problema e la soluzione non cambiano.
Hannes Meyer e Hans Wittwer, di cui ho parlato più innanzi (quelli del tabogan) hanno questa soluzione per la sala delle assemblee, ed adottano il sistema con ancora maggior coraggio e intransigenza del Le Corbusier, che l’adotta parzialmente. Ciò significa del resto, a parte la ricerca della paternità, che si tratta di una questione già posta da tempo sul tappeto.

Fig. 7, 8 e 9. Sia il Le Corbusier, che il Meyer, che il Van Linge hanno tentato il tipo della Sala scientifica.
Si pongono esattamente le condizioni di visibilità perfetta (da ogni punto si deve veder bene la tribuna dell’oratore e quella della presidenza), di luce abbondante, di aereazione diretta, di minima cubicità per far udire bene ognuno (circa 2000 persone in tutto), e finalmente di acustica. Il Le Corbusier sostiene che leggi rigide di acustica esistono, e ne espone i principi fondamentali. Da tutte queste condizioni generali, e da quelle speciali della varia e complessa distribuzione dei posti, secondo le varie categorie dei presenti, nasce una forma di sala singolarissima, come risulta dalle sezioni che mostro. Facendo centro sulla tribuna dell’oratore, i lati delle sale divergono come nei teatri tedeschi: di fronte i posti si allineano su gradinate concentriche, che salgono gradatamente verso il fondo. Questa parete di fondo riesce quindi assai alta: invece di essere congiunta con quella dell’oratore che le sta di faccia, per mezzo di un soffitto piano o a volta a base piana, che creerebbe una parete altissima e vuota (i classicisti la decorano con grandi pitture o bassorilievi, alle spalle della presidenza), con un immenso spazio perduto e assorbente la voce, abbassa la volta stessa su di un piano fortemente inclinato, parallelo alla gradinata per raccordarsi a questa stessa parete più in basso possibile. Così pure il pavimento saliente non è un piano, ma è fatto a conchiglia, seguendo gli anelli delle gradinate. Tutte queste superfici curve si riallacciano fra loro in modo da formare una sala che sembra un uovo.
La decorazione, che non potrebbe mai essere architettonico-lineare, è nulla: l’attenzione dei deputati non può essere distratta da storie o allegorie. Penso invece che una sala così fatta potrebbe essere splendidamente decorata da affreschi, se si trovasse chi li facesse.
Di sale così concepite ve n’erano tre all’Esposizione di Ginevra. Oggi ne abbiamo una già costruita e funzionante in Parigi: la sala Playel (figg. 10, 11, 12).

Fig. 13. Ancora un difficile quesito posto da alcuni concorrenti nel concorso di Ginevra era questo. Ogni categoria di partecipanti alle sedute dell’assemblea, doveva avere una propria sala di trattenimento e di meritato riposo. E poiché il palazzo dovrà sorgere sul bordo del lago, di fronte al panorama delle Alpi, sarebbe opportuno che da queste sale si potesse godere la sublime vista.
Il Klitmen dell’Aja l’ha risolto. Ha creato in facciata una lunga sala di passi perduti, alta quanto tutto l’edificio ed appoggiata al fondo della sala delle assemblee.
I ranghi sono quattro: al piano terreno i deputati, sopra il corpo diplomatico, poi la stampa e finalmente il pubblico. Tre grandi gallerie al disopra del piano terreno si aprono sul vuoto della alta sala dei passi perduti, la quale ha la fronte verso lago costituita da un’unica immensa vetrata trasparente. Ne consegue che tutte le suddette gallerie hanno il godimento della superba vista e stanno nello stesso tempo in comunicazione tra di loro, costituendo un solo grande ambiente monumentale. Il risultato esterno è quanto mai spontaneamente geniale e nuovo.
Il partito delle grandi vetrate è stato invece adottato dal Le Corbusier nelle pareti laterali della grande sala delle assemblee, pensando forse che per i deputati fosse assai più divertente vedere il Monte Bianco che la faccia dei colleghi.

Altri problemucci più modesti - posizione delle tolette, forme asimmetriche e irregolarissime di sale di passi-perduti, ecc., non starò qui ad illustrare, per non dilungarmi troppo. Ebbi a Ginevra il rammarico che nessuno avesse pensato a far lì in quella occasione un congresso internazionale di architetti per discutere su problemi positivi, studiati e affrontati con tanto amore e con tanta fatica.
Certo è che non si sarebbe trattato di vuote e sterili discussioni su razionalismo o ambientismo. Si trattava della architettura del vero, cioè dei problemi pratici e organici, così come si presentano nella vita che ogni giorno si evolve. Per me è questo il vero sbocco dell’architettura contemporanea: vedere dov’è il problema, scovarlo, e farcisi davanti senza pregiudizi, senza partiti presi: studiandolo per quello che è, e risolvendolo scientificamente, tecnicamente e con idee. Idee quindi, più che razionalismo.
Idee, e non puerile e sterile controllo su ogni elemento esterno perchè corrisponda matematicamente alla struttura interna. Dei 377 progettisti di Ginevra solo tre o quattro hanno pensato che una fila di uffici poteva costituire un problema nuovo. Cento razionalisti invece si sono preoccupati di fare architettura scheletrica e industriale.
Invece di perdersi in inutili polemiche su ambientismo e razionalismo estetico, su nazionalismo o internazionalismo, vediamo di servire, spiritualmente e praticamente, i bisogni della vita d’oggi, che sono veramente spostati.
La visione estetica e la veste decorativa ognuno la darà secondo la propria razza, secondo il proprio temperamento; secondo l’ambiente dove dovrà operare.

MARCELLO PIACENTINI.

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