CORRIERE ARCHITETTONICO
GLI UFFICI DELLA TESSITURA ROVELLI-MARELLI
A MONZA
degli Architetti TOMASO BUZZI e MICHELE MARELLI
Una recente opera, e, principalmente d’architettura, presentiamo
quì, di Buzzi e Marelli. Si tratta della costruzione di uffici
e laboratori industriali, vasto rimaneggiamento di edifici in parte
esistenti, con aggiunta di padiglioni e nuovi bassi fabbricati adibiti
a certe specialissime lavorazioni del cotone. Architettura, dunque,
industriale ed obbediente a tiranniche leggi di impianto; e, pertanto,
lineare, sincera, utilitaria.
L’effetto n’è ottenuto con pochi mezzi, con pochi
motivi alternati a fondi chiari e scuri, motivi di sapore neoclassico
e perfettamente ambientati con tanta parte di Monza.
Sopratutto, vennero curati i punti di vista, perchè le testatine
dei vari edifici nuovi si presentassero sempre come sfondi prospettici
e dal lato di maggior decoro.
Il materiale usato, come accennammo, fu tra i più semplici: intonaci
di calce, cemento per le principali modanature, serizzo per il basamento
e le cornici. Ovunque, tonalità biancogrige e gialline di allegro
effetto.
R. F.
LE NUOVE TERME DI ACQUI
dell’arch. PIETRO BETTA
L’Architetto Torinese Pietro Betta, dopo un lungo e minuzioso
studio diretto dei principali stabilimenti termali esteri, ha redatto
un grande progetto per la completa rinnovazione delle vecchie terme
di Acqui, accompagnandolo con una interessante relazione tecnica.
Il problema di uno stabilimento termale vi è trattato con concetti
del tutto moderni. Un grandissimo Albergo è conglobato alle terme,
studiato secondo le regole terapeutiche più nuove, mentre uno
stabilimento termale a parte, serve a chi desidera la cura separata
dall’alloggio. Un altro albergo è progettato in città
ed è prevista la costruzione di un grande Kursaal. Il tutto costituisce
un insieme architettonico di notevole importanza trattato con semplicità
e modernità di linee. Hanno cooperato con l’architetto
Betta, lavorando con fervore, gli architetti P. Perone e G. Rosso
L. PICCINATO
CRONACA DEI MONUMENTI
VICENZA. - Le proposte di completamento della Loggia del Capitanio
sulla piazza dei Signori in Vicenza hanno formato oggetto di gravi quesiti
e di vivaci polemiche sull’arduo tema del ripristino dei monumenti.
Ora che, per il rinvio sine die dell’attuazione dell’iniziativa
e per il lungo tempo ormai trascorso si sono acquietati i dibattiti
appassionati ed aspri, è certo interessante il far conoscere,
con le illustrazioni qui unite, il progetto dell’arch. Ettore
Fagiuoli, ed il riportare il voto sull’argomento dall’autorità
massima nel campo della conservazione del patrimonio artistico e del
restauro di monumenti, cioè la Giunta del Consiglio superiore
per le Belle Arti:
“La Giunta del Consiglio superiore per le Antichità e le
Belle Arti, riunita con la partecipazione dei consiglieri Proff. Pogliaghi
e Chierici, esaminato il progetto di continuazione della palladiana
Loggia del Capitanio presentato dal podestà di Vicenza:
“letti i pareri del R. Soprintendente all’arte medioevale
e moderna di Venezia e della Commissione provinciale per la conservazione
dei monumenti e presa altresì nozione dei voti emessi sull’argomento
da vari enti ed in particolare modo dalla Accademia di Belle Arti di
Venezia su particolareggiata relazione del Comm. Marangoni, membro del
Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti;
“ritiene che l’importante tema, a cui così vivo interessamento
portano l’amministrazione e la cittadinanza vicentina e che ha
destato tanto fervore di polemiche, debba riportarsi con ponderato giudizio
alle norme che ora reggono il restauro dei monumenti;
“se per tali norme deve in generale ritenersi inopportuno il completamento
in stile similare di quei monumenti lontani ormai dal nostro sentimento
e dalla nostra civiltà, inimitabili per la stessa libera e complessa
collaborazione che li produsse, come quasi sempre può dirsi per
le opere architettoniche del Medio Evo, non può invece escludersi
la ritmica continuazione di opere del Rinascimento rimaste incompiute:
sia per la regolarità geometrica e la costanza di rapporti che
le inquadra, sia pel coordinamento di ogni parte dell’opera ad
un pensiero unico, sia infine per la maggiore e diretta comprensione
che è in noi di quel pensiero d’Arte; per il che nei numerosissimi
esempi, del passato in cui tale continuazione fedele è avvenuta,
come per le Procuratie nuove in Venezia, pel Palazzo della Gran Guardia
in Verona, per i palazzi michelangioleschi e le loggie vignolesche sul
Campidoglio, per la cornice di coronamento del palazzo di Venezia in
Roma, per la stessa basilica di Vicenza di cui il Palladlo lasciò
terminate due sole campate del portico, l’opera di completamento
ci appare ora come una non arbitraria espressione d’Arte e di
rispetto ad una concezione architettonica ed edilizia fatta essenzialmente
di armonica proporzione;
“Per tali ragioni ritiene la Giunta, in massima, che l’intendimento
dell’amministrazione comunale di Vicenza sia da accogliersi col
maggior favore nei riguardi intrinseci dell’insigne monumento
ora mutilo e quasi mancante di significato, ed in quelli della mirabile
piazza dei Signori, che col prolungarsi della Loggia di fronte alla
basilica riprenderà il suo logico sviluppo longitudinale;
“Passando ad esprimere un parere sulle modalità del progetto,
ed anzitutto sulla grave questione, a cui nessun documento autentico
soccorre, del numero delle arcate del portico, la Giunta ha maturamente
bilanciato le ragioni che farebbero propendere per portare a cinque
od a sette le arcate stesse. Esprime il suo parere favorevole alla soluzione
delle cinque arcate felicemente concretata nel progetto dell’architetto
Fagiuoli, sia per la pratica ragione urbanistica della opportunità
di creare un largo che faciliti l’accesso alla piazza dei Signori
e perchè sia scongiurato il pericolo di un taglio e di una ricostruzione
della parete di fondo della piazza, sia per seguire il criterio della
minima aggiunta nuova, sicchè rimanga del monumento maggiore
la parte antica di quella moderna. Anche se con tale soluzione permarrà
un dubbio sulla forma voluta dall’autore, l’aspetto del
monumento vi sarà in ogni caso più prossimo di quello
che ora non sia, e le indicazioni poste a denotare la nuova data dovranno
essere chiare ed evidenti, sì da non trarre alcuno in errore;
“Quanto infine agli elementi decorativi, che incorniciati nelle
linee architettoniche sono parte integrante dell’aspetto del monumento,
ritiene la Giunta che essi debbano nella parte nuova essere eseguiti,
ma su temi moderni e con sentimento moderno, pur armonizzando con gli
antichi; chè se per gli elementi geometrici la riproduzione perfetta
può dirsi ben legittima, precisa e sicura nella forma e nello
spirito, non così sarebbe per gli ornati plastici in cui il tempo
e la personalità dell’autore hanno avuto e debbono avere
diretta influenza. Siano pertanto essi espressione del nostro tempo;
si riferiscano a simboli od a strumenti della guerra moderna, dicano
onestamente mediante le epigrafe e le date quale sia la parte aggiunta
all’antica;
“Certo all’attuazione di siffatto arduo tema, nel contemperare
tale affermazione di modernità col rispetto al monumento, dovrà
presiedere una vigile cura: e la Giunta esprime il voto che disegni
e modelli le siano a suo tempo sottoposti;
“Essa confida, nell’approvare, con le suddette osservazioni,
il progetto redatto dall’architetto Fagiuoli, che abbia così
degna espressione la nobile iniziativa del Podestà e del popolo
di Vicenza, per cui la Loggia del Capitaniato avrà la doppia
consacrazione del ricordo della battaglia di Lepanto e di quello della
battaglia di Vittorio Veneto”.
Firmati: C. RICCI, vice-presidente: GINO CHIERICI, GUSTAVO GIOVANNONI,
VITTORIO GRASSI, LUDOVICO POGLIAGHI, MARCELLO PIACENTINI, ROBERTO PARIBENI,
PIETRO TOESCA.
ARQUÀ PETRARCA. - Restauro di vecchie case. - In quel mirabile
paese di Arquà Petrarca, gioiello di edilizia paesana, in cui
le vecchie case si stringono intorno alla tomba del grande poeta quasi
a difenderla ed a costituirle intorno un ambiente tranquillo e raccolto,
la Sovraintendenza ai Monumenti del Veneto, ed in particolare l’egregio
Arch. Comm. Ferdinando Forlati, ha preso la iniziativa di una serie
di restauri modesti e non invadenti, che consolidino elementi fatiscenti
e riaprano finestre e loggiati, riportando i piccoli e modesti edifici
che son vissuti insieme, alla loro forma originaria senza nulla aggiungere
di arbitrario, senza “forzare” il restauro.
Quest’opera è appena iniziata e va avanti lentamente, secondo
lo permettono gli stremenziti stanziamenti della Sovraintendenza; ma
appunto per ciò merita d’essere segnalata. E gli esempi
di architettura rustica che man mano tornano in vita meritano d’essere
conosciuti a costituire una pagina, non priva d’importanza, di
quel libro che ancora non è stato scritto sull’Arte popolare
italiana, in cui è tanta poesia, tanta tradizione viva e feconda,
adatta, in questo periodo architettonico d’incertezza, a fornire
elementi interessantissimi di studio pei nostri architetti vecchi o
giovani.
Di alcuni di questi edifici o restaurati od in corso di restauro, riproduciamo
qui i prospetti. Sono essi di vario tipo, di vario tempo, di influenze
diverse. Ecco ad esempio la casa Bonello che è la tipica casa
rustica, naturalmente sorta, costituita di tanti elementi liberamente
aggiunti e pittorescamente aggruppati. Ecco invece la casa Vettorato
e la casa Contatto in cui interviene nelle finestre qualche elemento
cittadino e reca con sè l’impronta, forse tarda, di uno
stile. E la casa Donà, che è una bella ed elegante sovrapposizione
di loggiati; e la casa stessa del Petrarca con le sue aggiunte di vario
tipo e di vario tempo; e la casa Contarini che (come la fa indovinare
anche il nome) è la vera casa veneta di una famiglia agiata,
la quale ha voluto affermare architettonicamente la sua superiorità
sui buoni villici ed ha da Venezia chiamato il suo architetto o la sua
maestranza.
I restauri della Sovraintendenza si sono anche volti alla bella colonna
col leone veneto, ora scomposta e mutila, ed alla tomba stessa del Petrarca,
così bella e forte e suggestiva, nella quale opportunamente s’intende
sostituire una cancellata semplicissima a quella banalissima a linee
di finto gotico, ora esistente. Ottime iniziative e, speriamolo, felici
risultati.
G. G.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
H. GÖBEL: Wandteppiche. II Teil. Die Romanischen Länder.
- Un volume di testo di pp. IV 646; ed uno di tavole con 562 riproduzioni,
10 delle quali a colori. - Lipsia, Klinkhardt u. Biermann, 1928.
Nei due volumi qui indicati abbiamo davanti la seconda parte di un’opera
che si propone di fare la storia dell’arte degli arazzi e di offrire
insieme al lettore un ampia raccolta di riproduzioni, che valgono a
dare un’idea del grande sviluppo che quell’arte ha avuto
attraverso i secoli.
La prima parte, divisa egualmente in due volumi, l’uno di testo
e l’altro di tavole, comparve già nel 1923. In esse il
chiaro a. discorre prima, in generale, della tecnica e dell’importanza
che ebbe l’arte dell’arazzo dal suo nascere fino al sec.
XVIII, e tratta in seguito dalle fabbriche dei Paesi Bassi, dove, come
ognuno sa, prima che in altre nazioni, l’arte stessa ha raggiunto
il massimo fiore. La terza parte che tratterà degli arazzi dei
popoli germanici e slavi, e la quarta degli arazzi orientali sono ancora
in preparazione.
L’arte degli arazzi tra i popoli latini dall’Italia al Portogallo
forma, come detto nel titolo dei due volumi, l’argomento della
seconda parte, la quale si modella sulla prima nel modo con cui è
distribuita e trattata la materia non solo perchè ne rappresenta
lo sviluppo più diretto, ma anche perchè ha con essa grandi
affinità nella tecnica, nella scelta e nel trattamento dei soggetti.
Il primo posto è dato naturalmente alla Francia e a Parigi; quindi
alle fabbriche di stato, da quella di Fontaineblau a quella, che tutte
le completa e le continua, dei Gobelins. Vengono in seguito le fabbriche
minori delle singole città e dell’antico ducato di Lotaringia,
colle quali si oltrepassano i due terzi di tutto il volume.
Il quarto e il quinto posto sono assegnati alla Spagna e al Portogallo,
all’Italia il terzo. Di questa che ci riguarda più da vicino,
diremo qualche cosa di più.
Come tutti sanno, la produzione delle fabbriche italiane di arazzi non
regge al confronto di quelle francesi e fiamminghe, nè per l’antichità,
nè per il valore. Quando fra noi si svegliò il gusto dell’arazzo
e le città e i principi sentirono il desiderio di decorarne i
palazzi e le chiese, l’arte dell’arazzo aveva raggiunto
altrove la maturità, specialmente al Nord della Francia e nelle
Fiandre, dove prosperavano fabbriche numerose e rinomate per l’abilità
delle loro maestranze, che potevano, in tempo relativamente breve, dar
corso ad importanti lavori, ed esse erano chiamate il più delle
volte ad eseguire gli arazzi per i committenti italiani. Basti citare
il fatto degli Arazzi di Raffaello in Vaticano, che furono tessuti nella
fabbrica di Pietro van Aelst di Bruxelles, in poco più di due
anni.
Ciò non ostante, nel rifiorimento di tutte le arti che si è
manifestato in Italia ai primi albori del 300, non poteva mancare la
ricerca dell’arazzo, come necessario completamento degli addobbi
di cui facevano pompa i più nobili edifici; e allora, o si chiamarono
artisti francesi, fiamminghi ed alemanni a lavorare in Italia o si mandarono
le ordinazioni alle case madri dell’estero. Coll’andar del
tempo gli artisti, venuti dall’estero, formarono maestranze locali
che si giovavano per i disegni e per i cartoni, degli artisti italiani
più in voga; e allora al posto delle ordinazioni si sostituirono
anche manifatture locali, nelle quali insieme coi nomi stranieri vennero
alternandosi nomi prettamente italiani.
È il caso degli arazzi tessuti a Ferrara (p. 366 e segg.) I maestri
arazzieri vengono per lo più dal Nord della Francia e dalle Fiandre
e riproducono principalmente modelli provenienti dalla loro patria,
in cui le scuole pittoriche Ferraresi contemporanee mescolano nuovi
elementi nelle forme decorative; ma per tutto il sec. XV non vi è
traccia della formazione di una maestranza vitale o di un gusto speciale
per gli arazzi capace di dar vita ad una nuova industria artistica.
Fu col duca Ercole II e col Cardinale Ippolito suo fratello che si svolse
in Ferrara una vera e propria fabbrica di arazzi. Fin dal 1517 si trovavano
presso la corte i maestri Niccolò e Giovanni Carcher, a cui si
aggiunsero in seguito otto operai fatti venire dalle Fiandre, e sotto
la loro direzione verso la metà del secolo ebbero vita diversi
cicli di arazzi quasi tutti di grande importanza. All’opera degli
arazzieri si associava quella dei nostri pittori, i fratelli Battista
e Dosso Dossi, i quali mostravano di comprendere assai bene le esigenze
della nuova arte, e, secondo la testimonianza del Vasari, anche Giulio
Romano, il quale avrebbe fatto per il duca molti disegni per arazzi
eseguiti in seta ed oro dai fiamminghi Niccolò e Giovanni Battista
Rosso. Insieme e dopo, coi fratelli Dossi lavorarono i pittori Camillo
Filippo, Benvenuto Tisi (Garofalo), Luca d’ Olanda, Leonardo da
Brescia, Giovanni B. Rossetti di Bologna, Girolamo da Carpi, Tomaso
da Treviso, ecc.
Si citano come esempi della produzione ferrarese una serie di arazzi
che rappresentano scene delle Metamorfosi di Ovidio, e un’altra
che aveva per soggetto le imprese d’Ercole; a cui si devono aggiungere
altri arazzi per la città di Modena, per i castelli del ducato,
e quelli di argomento religioso del Duomo di Ferrara, i cui cartoni,
disegnati da Camillo Filippo e dal Garofalo, rappresentano le storie
di S. Maurelio e di S. Giorgio.
Dopo la morte di Ercole II (1559) le fabbriche di Ferrara rimasero in
fiore per qualche anno, ma poi andarono lentamente decadendo e alla
fine del sec. XVI si può dire che esse hanno cessato di vivere.
Da Ferrara il Dr. Göbel passa al granducato di Toscana (p. 377
e segg.) Anche qui l’industria degli arazzi non prese un vero
sviluppo prima del duca Cosimo I, che fece venire da Ferrara Giovanni
Rost e Niccolò Carcher, e con essi ebbe consistenza una vera
fabbrica statale, in cui lavorarono come disegnatori il Bronzino, Raffaello
del Colle, Francesco Salviati e Francesco Ubertini (il Bachiacca).
La produzione della fabbrica fiorentina, assai ricca e preziosa, si
prolungò con arazzieri italiani e stranieri per due secoli, e
allo spegnersi della casa medicea le sue maestranze si trapiantarono
nelle manifatture di Torino e di Napoli. Lo stesso Niccolò Carcher
di Ferrara stabilì la fabbrica più importante di Mantova,
(p. 402 e segg.) dove era stato preceduto da artisti stranieri e italiani,
per i quali aveva preparato cartoni il celebre Mantegna; ma la produzione
mantovana, come la ferrarese, non oltrepassa di molto il secolo XVI.
Nel ducato di Milano (p. 408 e segg.) è ricordata anzitutto la
fabbrica di Vigevano, dove furono tessuti per conto del Marchese Gian
Giacomo Trivulzio (1436-1518) dodici grandi arazzi rappresentanti i
dodici mesi dell’anno, che sono ancora in possesso della famiglia.
Regna molta incertezza circa gli autori dei cartoni, per i quali si
fanno i nomi del Bramantino e del Foppa; ma l’industria nel sec.
XVI viene esercitata anche in Milano sia per la casa ducale degli Sforza,
sia per la Cattedrale, e i cartoni sono preparati da Pietro de Rizolis,
Nicolò d’Appiano, Gaudenzio Ferrari, Michele da Molino,
Antonio da Sanino e Giulio Campi. Non sembra tuttavia che l’industria
abbia continuato nel sec. XVII.
Più tardi che altrove cominciò la tessitura degli arazzi
nello stato pontificio (p. 416 e segg.) e ciò si spiega col fatto
che a Roma mettevan capo tutte le nazioni cristiane d’Europa,
le quali insieme con i loro legati, religiosi e pellegrini inviavano
anche i migliori prodotti delle industrie proprie, mentre, di ricambio,
ad esse di preferenza si rivolgeva la corte pontificia per le sue ordinazioni.
Niccolò V fece venire a Roma da Siena il tessitore Giachetto
di Benedetto di Arras, e negli inventarii della fine del ’400
sono menzionati parecchi arazzi di Arras, Parigi e Tournai con gli stemmi
di Niccolò V e di Callisto III. Nel secolo seguente Leone X e
Clemente VII sono in relazione con Pietro van Aelst per gli arazzi di
Raffaello della vecchia e della nuova scuola; ma se alla corte papale
s’incontrano arazzieri, questi sono addetti alla conservazione
e al restauro, non alla tessitura. Fu Paolo IV che pensò di istituire
in Roma una vera fabbrica di arazzi, e a tale scopo intavolò
trattative con Giovanni Rost, capo dell’arazzeria toscana; ma
prima che il progetto fosse tradotto in realtà egli morì.
Soltanto nei secoli XVII e XVIII si può parlare di vere e proprie
fabbriche romane, le quali ebbero fama durevole: la fabbrica di casa
Barberini e quella dell’Ospizio di S. Michele (p. 417 e segg.)
La fabbrica di casa Barberini deve la propria origine e il grande sviluppo
al Cardinale Francesco, nipote di Urbano VIII, che a questo scopo (1620)
visitò in Parigi le fabbriche allora fiorenti, e prese informazioni
e materiali, e che cercò i pittori che dovessero allestire i
cartoni. Pietro Paolo de Gubernatis, Pietro da Cortona, Giovanni Francesco
Romanelli col suo scolaro Paolo Spagna furono i primi artisti incaricati
dei disegni; Giacomo della Riviera (fiammingo) col suo compatriota Michele
e col francese Antonio sono gli arazzieri, a cui in processo di tempo
altri se ne aggiunsero: Passarino Bartolomeo, Giovanni Pigoni, Fermo
Perini e Gasparo Rochi. Interrotta alla morte di Urbano VIII (1644),
la fabbrica riprese vita sotto Innocenzo X e continuò sino allo
scorcio del sec. XVII.
Tra i lavori eseguiti dalla fabbrica Barberini sono molte portiere con
armi delle famiglie Barberini e Colonna, drappi per balconi e sopra-porte,
copie di arazzi di Bruxelles e Parigi ed anche nuove composizioni, come
quelle che hanno per soggetto le avventure di Apollo e Diana e i fasti
della famiglia che aveva promossa in Roma la tessitura degli Arazzi.
A continuare la nobile impresa della fabbrica Barberini provvide Clemente
XI coll’istituire nel 1710 una fabbrica-scuola degli arazzi nell’Ospizio
di S. Michele (p. 422 e segg.), chiamando a dirigerla il parigino Jean
Simonet e alla sua dipendenza il pittore Andrea Procaccini, con i tessitori
Pierre Augier, Niccolò della Valle e Andrea Antonio Gargaglia;
a cui si associarono nel 1714 Jacques Gragnos, Mathieu Giaqué,
Felice Mollicati e Vittore Demignot. Tra le prime produzioni della scuola
si citano la serie degli Apostoli e degli Evangelisti, alcuni paesaggi
e Papa Clemente XI in atto di ricevere il Cardinal nipote Albani, protettore
dell’Ospizio.
Dopo il 1717, al Simonet, come capo arazziere, succedette Pietro Ferloni,
il quale nel 1729 aveva come compagni G. B. Draggi, Francesco Ferretti,
Mario Silvestri, Antonio Dini (che andò più tardi a dirigere
la fabbrica di Torino) e maestro Perozzi. Nel 1770 la direzione della
fabbrica era affidata a Filippo Cettomai, nel 1791 a Filippo Pericoli
il quale rimase al suo posto fino all’invasione francese del 1798,
le quale segnò la fine del primo glorioso periodo della Fabbrica.
Oltre gli arazzi già citati, dall’ospizio di S. Michele
ne uscirono altri che rappresentano scene della Gerusalemme Liberata,
le quattro stagioni, e soggetti religiosi condotti su cartoni, di cui
non si conoscono sempre gli autori, e che venivano spesso regalati dal
pontefici ad ambasciatori, principi e regnanti.
Dalla scuola di S. Michele, sotto la protezione della Compagnia di Gesù,
si distaccò nel 1743 una fabbrica che aveva sede in piazza di
S. Maria in Trsstevere ed era diretta da Antonio Gargaglia e Agostino
Speranza. A questa fabbrica si devono tredici arazzi che rappresentano
episodi della vita di S. Ignazio di Lojola e S. Stanislao Kostka e un
arazzo per altare che ha per soggetto la Circoncisione, i quali tutti
sono ancora in possesso della Compagnia.
Il Dr. Göbel nella sua diligente rassegna fa cenno anche di altre
fabbriche minori di Urbino (p. 414), Todi (p. 428), Bologna (p. 429),
Verona (p. 445), Genova (p. 447), Correggio (p. 449), Perugia (p. 450),
Siena (p. 451); ma dopo Firenze e Roma le fabbriche che hanno lasciato
tracce più considerevoli sono quelle di Napoli, di Venezia e
di Torino, e di esse egli tratta con maggior ampiezza.
Come fu detto sopra, l’arte dell’arazzo risorge a Napoli,
quando essa scompare da Firenze. Il re delle due Sicilie Carlo VII (p.
430 e segg.), per mezzo de’ suoi rappresentanti, fece venire a
Napoli i due fiorentini Domenico Del Rosso e Giovanni Francesco Pieri
(1737), l’uno come direttore e l’altro come amministratore,
e insieme con essi furono raccolti numerosi maestri arazzieri ed apprendisti.
Il tintore Andrea Camici di Firenze non avendo dato buoni risultati,
al suo posto furono chiamati Gennaro Celentano e Mariano Savarese. La
sistemazione della fabbrica richiese tre anni di tempo e cominciò
seriamente a produrre nel 1743. In quell’anno si pose mano alla
serie dei quattro elementi destinata al palazzo di Caserta e che consisteva
di quattro grandi arazzi parietali, l’acqua, l’aria, la
terra e il fuoco, con diverse portiere, sopra porte e tende per finestre.
Il quarto dei grandi arazzi, quello del fuoco, fu terminato nel 1763
e porta la segnativa di Pietro Duranti. Questo artista, che aveva lavorato
prima a Roma, e che si trasferì a Napoli nel 1757, diede alla
fabbrica napoletana un impulso più vigoroso, e sotto la sua direzione,
che si prolungò sino all’ultimo decennio del secolo, ebbero
compimento gli arazzi più preziosi della scuola napoletana.
Una prima serie ebbe per soggetto le imprese di Don Chisciotte distribuite
in quarantacinque episodi dipinti in gran parte da Michelangelo Fasano
e trasportati in altrettanti arazzi sotto la guida maestra del Duranti.
Contemporaneamente a questi furono eseguiti i così detti arazzi
della stanza del Belvedere, i cui cartoni furono dipinti dal Vanni e
dal Morghen.
La terza grande serie di arazzi del Duranti svolge la storia di Amore
e Psiche, che fu tessuta negli anni 1783-1786: essa fu ispirata certamente
dai celebri affreschi della Farnesina, ma non si conosce chi abbia preparato
i cartoni relativi. Altri lavori erano in corso nel 1798, quando i torbidi
prodotti dalla invasione francese, costrinsero la casa regnante a riparare
in Sicilia; e così la fabbrica si disciolse.
La città di Venezia conserva ancor oggi un centinaio di arazzi,
ma è difficile stabilire a quali fabbriche essi appartengono.
In generale si può asserire (p. 438 e segg.), che il gusto dell’arazzo
si diffuse nella nobiltà veneziana soltanto nel sec. XVI; ma
gli arazzi erano per lo più fatti eseguire nelle Fiandre o dalle
fabbriche di Ferrara e di Firenze. Vi è notizia non di meno di
alcuni tessitori che lavoravano nel sec. XVI anche in Venezia: Francesco
Fiammingo, Gaspardo Carnes, Lazzaro Canaam, Giovanni Giacomo Zinqueoic,
Angelo di Battista Clemente del Friuli ecc.
Nel sec. XVII diversi arazzieri fiamminghi domandano licenza di trasportare
la loro industria in Venezia; ma è dubbio se la domanda abbia
avuto risposta affermativa, perchè un documento del 1634 riportato
dal Müntz, dichiara che “in Venetia non si lavora ne d’arazzi
ne di tappeti, ma ci sono tre botteghe di rapezzatori tutti gente di
Venetia.... che sanno tanto poco che non li basterebbe l’animo
di far di nuovo qualsivoglia cosa benchè felicissima”.
Unica impresa di qualche importanza è quella del romano Antonio
Dini, il quale formatosi a Roma nell’ospizio di S. Michele alla
scuola di Pietro Ferloni, dopo aver tenuto una fabbrica d’arazzi
a Torino per diciannove anni, passò dal 1760 in poi colle sue
figlie a Venezia, dove tre anni più tardi aveva stabilito una
manifattura d’arazzi insieme con due figliuole, sei garzoni e
diversi aiutanti. Alla morte del Dini (1771) la fabbrica continuò
nelle mani delle figlie divisa in due rami: “la fabbricazione
degli Arazzi ad uso di Roma, e de tapeti ad uso de sacri Tempi”,
e finì colla caduta della repubblica.
A Torino, più che nelle altre città principali d’Italia
l’arte dell’arazzo fu limitata per lungo tempo alla conservazione
e al ristaure delle opere tessute che erano state eseguite all’estero.
Soltanto nel 1737, per iniziativa di Carlo Emanuele III, fu eretta una
manifattura di Stato sotto la direzione di Vittorio Demignot che aveva
lavorato prima in Roma e poi a Firenze. Alla dipendenza di Demignot
stavano dodici arazzieri: alla morte di lui (1744) succedette il figlio
Francesco. Nel 1798 lavoravano ancora otto arazzieri, quando sopraggiunse
l’invasione francese, che soffocò l’attività
della fabbrica: essa riprende vita nel 1823, ma per poco, perchè
nel 1838 fu costretta a chiudere le porte e i suoi cartoni andaron in
possesso dell’Accademia Albertina (pag. 452 e segg.)
Chi diede maggior impulso artistico all’arazzeria torinese fu
il pittore di corte Claudio de Beaumont. Lavorarono con lui per i cartoni
Matteo Franceschini, Lorenzo Pescheux, G. Domenico Molinari, Felice
Manassero, Vittorio Blanchery, Antonio Scarzella, Vittorio Amedeo Cignaroli,
e dopo di lui il veneziano G. B. Crosato e il napoletano Francesco Demura.
Gli arazzi che uscirono dalla loro scuola sono in possesso dello Stato
e quasi tutti di buona conservazione.
La prima grande serie di sette arazzi ha per soggetto la storia di Alessandro
Magno; altri sette eseguiti fra il 1744 e il 1750 svolgono la storia
di Giulio Cesare; nel 1756 si pose mano ad una terza serie di dieci
arazzi colle vicende di Ciro il Giovane; nel 1760 s’intraprese
l’esecuzione di una quarta che rappresenta i fatti di Annibale.
Dal 1762 al 1790 si diede la preferenza a composizioni di paesaggio,
e su questo soggetto con i cartoni del Cignaroli fu tessuta una serie
di diciassette arazzi, mentre sui cartoni di Carlo Bianchi altri ne
furono eseguiti, dove predominano motivi statuari od architettonici.
Ma non per questo vennero abbandonati del tutto i soggetti storici e
mitologici, perché quasi contemporaneamente, dal 1770 in poi,
furono condotti a termine altri otto arazzi che rappresentano la storia
di Enea e Didone, per i quali i cartoni furono dipinti da Demura, Demignot,
Crosato e Antonio Bruno.
Colla storia dell’arazzeria torinese si chiude la rassegna delle
fabbriche italiane, di cui ho dato qui un brevissimo cenno. Segue la
rassegna delle fabbriche spagnuole e portoghesi, sulle quali predominano
quelle di Madrid. Vengono infine gli indici copiosissimi ed accurati
delle fabbriche, dei soggetti trattati, degli arazzieri, dei pittori
che hanno preparati i cartoni, dei personaggi storici, delle collezioni
pubbliche e private nelle quali gli arazzi sono conservati, degli autori
che ne hanno trattato, delle marche di fabbrica e delle sigle degli
artisti che s’incontrano negli arazzi stessi.
L’opera, come ognun vede, offre un mezzo facile per orientarsi
nella storia complessa degli arazzi che è stata parte così
grande dell’arte medioevale e del rinascimento e che ha dato vita
per tanti secoli ad un’industria veramente aristocratica; e perciò
- non v’ha dubbio - essa sarà accolta con favore da tutti
gli studiosi dell’arte. Ma con favore speciale essa sarà
accolta dagli studiosi di architettura, perchè gli arazzi, come
il mosaico parietale e come i grandi affreschi, non hanno un ufficio
puramente decorativo, ma devono essere considerati come elemento vitale
delle grandi architetture.
BARTOLOMEO NOGARA.
COMMENTI E POLEMICHE
PEL PARCO DELLA VITTORIA E PER LA BELLEZZA DI PERUGIA
In Perugia, città cara ad ogni italiano che ami l’Arte,
si presenta un caso veramente singolare di contrasto tra l’interesse
pubblico ed il privato, tra la bellezza e la bruttezza.
Una nobilissima iniziativa del Podestà di Perugia ha promosso
un concorso per la sistemazione della vasta piazza d’armi che
si estende fuori della barriera della Croce nel piano sottostante alla
città. Ed il progetto vincitore, dovuto all’egregio arch.
Angelini, può dirsi veramente degno del tema. Posto nel fondo
il nuovo stadio, lasciate da un lato libere le visuali verso la chiesa
di Santa Giuliana, l’Angelini sistema la zona con una adatta unione
dell’architettura con la vegetazione, disponendo piazzali e scalee
e fontane secondo la bella tradizione delle nostre ville cinquecentesche
e seicentesche.
Il maggiore elemento di tale sistemazione è il piazzale della
Vittoria, da cui una scalea monumentale è portata a discendere
sulla via XX Settembre, racchiudendo tra le sue braccia un terrazzo,
vero belvedere magnifico da cui lo sguardo dovrebbe spaziare nel panorama
circostante.
Ed il panorama è quanto mai bello e suggestivo. Lo chiude il
lungo colle di Porta S. Pietro, con l’agile campanile di S. Pietro,
con la forte massa di S. Domenico, col giardino del Frontone, ridente
propaggine di Perugia in cui l’elemento naturale ed il monumentale
mirabilmente si uniscono. È il quadro, è lo scenario a
cui la nuova opera è direttamente connessa, è una visuale
che al visitatore che giunge a Perugia dà la prima impressione,
il primo saluto.
Orbene proprio ora si iniziano i lavori di una vasta costruzione la
quale, continuando la massa orrenda di un enorme edificio già
sorto presso la barriera S. Croce, si estenderebbe avanti la scalea,
sbarrando ogni veduta!
Ed il Comune non s’oppone e non protesta, come se non vedesse
il sabotaggio della opera da lui voluta e non intendesse la sproporzione
tra l’insignificante vantaggio, non certo estetico ma edilizlo,
che la nuova fabbrica recherebbe col procurare alcuni appartamenti,
ed il danno enorme prodotto alle ragioni stesse della vita cittadina.
Si è opposto invece, in base alla Legge sulle bellezze naturali,
il Consiglio superiore per le Belle Arti; e poche volte le norme che
tutelano il paesaggio possono avere applicazione più chiara e
diretta di questa: in cui la veduta panoramica non fa capo ad una apertura
accidentalmente creata, ma ha ormai fissato il suo asse, il suo centro
architettonico, è legata ad una vasta sistemazione edilizia,
utile e bella. Alla creazione del Parco della Vittoria non può
corrispondere una sconfitta della logica, dell’arte, dell’interesse
cittadino.
G. GIOVANNONI.
SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI
PAGINE DI VITA SINDACALE
CONVOCAZIONE DEL DIRETTORIO NAZIONALE.
Entro la seconda decade di novembre sarà convocato a Roma il
Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, per discutere i seguenti
temi:
Tariffa professionale.
Giunte Sindacali.
Attività dei Sindacati Regionali.
Scuole di Architettura.
Al convegno saranno invitati anche i Segretari Regionali. Faccio pertanto
vivo appello ai camerati, perchè sui temi indicati raccolgano
tutto il materiale e le proposte opportune.
SCUOLE DI ARCHITETTURA
Il delicato ed importante problema delle Scuole di Architettura è
in questo momento, in una fase di acuto interesse.
È noto che S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione sta studiando
una riforma degli studi e degli ordinamenti universitari, ed appare
quindi logico che anche le scuole di architettura, che attendono, ad
eccezione di quella di Roma, il loro definitivo ordinamento come Istituti
di Istruzione Superiore, saranno oggetto di particolare attenzione da
parte di S. E. il Ministro.
Quale sia in proposito il Suo pensiero non è dato ancora conoscere;
ma la classe degli architetti che alle Scuole Superiori giustamente
attribuisce un’importanza basilare per lo sviluppo e l’avvenire
dell’architettura italiana, deve attendere serena e fiduciosa.
S. E. il Ministro ha preso atto della relazione che un’apposita
Commissione aveva compilato per incarico del Ministro del tempo, e che
in gran parte coincideva con i voti espressi dal Congresso dei Sindacati
Architetti; ricevette in seguito il Segretario Nazionale e altri studiosi
coi quali conferì in proposito lasciando comprendere quanto gli
stia a cuore l’interesse degli studi superiori compreso quello
dell’Architettura che in un paese come l’Italia ha funzioni
politiche di primo ordine.
Ai camerati che si agitano in ansietà dubitosa si raccomanda
la calma e la fiducia nella serena saggezza del Ministro, che, ne siamo
certi, vorrà trovare il modo, in occasione di prossime riforme,
di dare definitivo ed equo assetto anche agli studi superiori artistici
e tecnici, secondo le giuste aspirazioni del nostro Sindacato.
Il Segretario Nazionale
A. CALZA-BINI
IL SINDACATO PROVINCIALE DEGLI ARCHITETTI DI TORINO
E L’ESPOSIZIONE DI TORINO 1928
È da segnalare a titolo di lode l’azione svolta dal Sindacato
Torinese per l’organizzazione dell’importante Esposizione
del 1928, che sta per chiudersi dopo aver destato vivo interesse pel
valore intrinseco delle cose esposte, e per la veste architettonica
offerta ai padiglioni. Di quest’ultimo pregio della mostra, il
nostro Sindacato Torinese ha gran parte di merito per la partecipazione
di suoi numerosi membri ai progetti dei padiglioni e per l’entusiasmo
con cui l’esecuzione delle opere fu seguita e curata.
Nella nostra Rivista già illustrammo parte dei progetti, in occasione
dell’inaugurazione della Mostra, e nei prossimi fascicoli torneremo
sul tema.
Sopratutto è da additare all’ammirazione dei colleghi e
all’esempio degli altri Sindacati Nazionali, l’organizzazione
in seno all’Esposizione, della Casa degli Architetti, uno speciale
padiglione ideato e costruito dai componenti il Sindacato.
Detta Casa, che al piano terreno ospita un quartiere modello moderno
ed al primo piano una mostra di lavori d’architettura, verrà
pure illustrata in un prossimo articolo. Intanto ci è grato mettere
in valore, all’infuori delle qualità artistiche dell’opera,
il risultato pratico della realizzazione, da addebitarsi, in primo luogo
al fraterno ed amichevole spirito di cooperazione che rese possibile
l’iniziativa, promosso e cementato dalle buone e sane qualità
direttive del Segretario provinciale Arch. Armando Melis, ed in secondo
luogo alle qualità concrete ed attuatrici di tale spirito collaboratore.
Mediante sapienti contatti con le aziende private industriali di Torino,
i nostri colleghi poterono infatti ottenere che il pregevole e costoso
padiglione potesse venire costruito ed arredato dalle stesse Ditte,
all’infuori di ogni pubblica partecipazione o sollecitazione,
a loro spese, anzi con lungimiranti contributi economici all’opera
dei progettisti. Simile modo di intendere la collaborazione tra industria
ed arte dovrebbe prevalere ovunque in Italia. Comprendano gli artisti
che soltanto al contatto della realtà pratica la loro opera potrà
assumere sinceri valori moderni ed attuali. Comprendano gli industriali
che sarà loro vantaggio vivificare la produzione associandosi
artisti di valore che possano dare ai loro prodotti, con la stessa spesa,
forma bella ed allettante.
Quando l’arte, ora dissociata dalla vita, avrà saputo invece
innestarsi ad essa; quando la pittura e la scultura, scendendo dai regni
astratti dell’accademica opera d’esposizione, avranno saputo
piegarsi verso il più fecondo e sano regno delle applicazioni
pratiche, (l’affresco, la decorazione, la scultura architettonica,
il mobilio, l’arredamento, ecc.); quando sopratutto l’architettura
avrà saputo lasciare l’abitudine del bel disegno, come
fine a sè stesso, per darsi alle attività concrete e si
sarà ricondotta a quella che è la sua vera funzione sociale
ora dispersa, e cioè di ganglio nervoso principale d’unione
fra la tecnica e l’arte, fra la vita e l’espressione della
forma, vero centro di raccolta, di sintesi e di scambio fra tutte le
attività umane; allora assisteremo alle rinascite di cui presentiamo
gli inizi ma che si ostinano ancora a non manifestarsi in pieno.
Ci sembra che l’opera del Sindacato degli Architetti di Torino,
costituisca un buon precedente in questo senso, che tutti gli altri
Sindacati regionali debbono cercate di seguire.
P. M.
I CONCORSI
NOTIZIE SUL BANDO DI CONCORSO PER IL FARO A CRISTOFORO COLOMBO NELLA
REPUBBLICA DOMINICANA.
Nel fascicolo di settembre di questa Rivista fu già annunciato
che per iniziativa dell’Unione Panamericana ed in seguito a decisione
della Quinta Conferenza Panamericana, detto faro monumentale dovrà
sorgere sulla costa di S. Domingo, di fronte alla città omonima.
Sono state anche date le notizie principali relative ai premi, ai termini
di scadenza, ecc., ecc.
È stato pubblicato, a cura del Comitato nazionale ordinatore,
e sotto la guida dell’Arch. A. Kelsey, incaricato dalla Federazione
dell’organizzazione del Concorso Mondiale indetto, un volume redatto
in tre lingue, francese, inglese e spagnola, contenente, oltre il testo
del Bando, la planimetria della località, le altre norme tecniche
necessarie, e l’indicazione delle modalità procedurali
per la partecipazione al Concorso, anche un numerosissimo corredo di
notizie sul carattere della regione ove dovrà sorgere il faro,
sull’architettura locale, sui concetti informativi dell’opera,
ecc.
Tale volume è stato diffuso in tutti i paesi d’Europa e
può aversi in visione presso i principali Consolati della Repubblica
di S. Domingo. Esso verrà inviato anche ai concorrenti che ne
facciano regolare domanda al Consigliere tecnico dell’Unione Panamericana,
Arch. Albert Kelsey, Consejero Tecnico, Direccion Union Panamericana,
Washington.
Il Bando prevede che il partecipante al Concorso debba essere un Architetto;
solo gli architetti dunque, o le Associazioni fra Architetti, potranno
concorrere indipendentemente. Gli ingegneri e gli scultori che vogliono
partecipare alla gara, sono avvertiti che essi debbono associarsi con
un architetto.
Domandando all’Arch. Kelsey un esemplare del programma e regolamento
del Concorso, l’architetto concorrente deve dichiarare formalmente
il suo nome e il suo indirizzo, con la sua età, e dare referenze
sulla sua istruzione ed esperienza. Egli deve anche dare il nome e le
referenze dei suoi associati, architetti, ingegneri o scultori; di più
deve dichiarare preliminarmente se, nel caso in cui egli fosse premiato,
intenda continuare l’opera solo od in associazione.
Il Sindacato Architetti richiama l’attenzione di tutti gli artisti
italiani sulla grandissima importanza della gara internazionale alla
quale essi debbono partecipare nel più gran numero, per ottenere
possibilmente una vittoria nazionale.
Molto interesse ha anche la scelta del giurato europeo; il Sindacato
di Roma ha preso l’iniziativa di designare disciplinatamente il
Segretario Nazionale del Sindacato Architetti, Alberto Calza-Bini ed
a tal uopo ha inviato una circolare a tutti i Segretari Regionali.
Va ricordato in proposito che il sistema della assegnazione della Giuria
impone la scelta di 10 nomi, per parte di ciascun concorrente; tra i
quali colui che avrà avuto il massimo numero dei voti sarà
chiamato quale membro unico rappresentante dell’Europa.
Da qui la necessità che i concorrenti italiani votino compatti
il nome del Segretario Nazionale, segnandolo ben chiaro in capo-lista
(in quantochè tal nome è quello che si intende prescelto
dal concorrente tra i dieci) e aggiungendo i nomi di rappresentanti
delle altre regioni d’Italia, secondo le indicazioni date dalla
Circolare del Sindacato di Roma. I nomi degli altri membri proposti
oltre Alberto Calza-Bini sono: Giovannoni - Piacentini - Moretti G.
- Arata -Marangoni - Berlam - Corradini - Brizzi - Fichera - Capitò.
BANDO DI CONCORSO PER IL PROGETTO DELLO STADIO
DELLA VITTORIA IN BARI.
Il Comitato per lo Stadio della Vittoria bandisce un Concorso Nazionale
per il progetto dello Stadio della Vittoria, al quale potranno partecipare
gli ingegneri, gli architetti e gli artisti di cittadinanza italiana
e laureati o diplomati in Italia ed iscritti ai Sindacati Fascisti.
Lo stadio dovrà corrispondere a tutte le esigenze della tecnica,
specialmente in rapporto ai moderni progressi dello Sport e dovrà
contenere tutti i reparti ed ambienti necessari, in modo da renderlo
adatto anche a spettacoli di eccezionale importanza.
Si lascia al criterio del concorrente la scelta delle dimensioni dei
vari reparti e la loro ubicazione nell’area all’uopo destinata,
come pure la forma e la dimensioni delle tribune e la loro ubicazione,
nonchè la distribuzione di tutti i servizi e locali relativi,
tenendo conto anche del bisogni futuri, in relazione allo sviluppo demografico
della città.
A richiesta dei concorrenti verrà fornita una planimetria nella
scala di 1:1000, col tracciato delle vie esistenti e di quelle da costruirsi
e con l’indicazione precisa dell’area su cui dovrà
sorgere lo Stadio della Vittoria.
Prima del giudizio della Commissione i progetti saranno esposti al pubblico
per un periodo di giorni 15 e così dopo il verdetto saranno esposti
con l’indicazione della graduatoria.
CRITICA DI UN BANDO DI CONCORSO NAZIONALE PER IL PIANO REGOLATORE DI
UNA CITTÀ GIARDINO A MARASSI PRESSO GENOVA.
L’Istituto per le Case popolari di Genova ha preso la lodevole
iniziativa di bandire un Concorso di piano regolatore di città
giardino popolare in località Marassi; senonchè la buona
intenzione non è stata sorretta dalla chiara visione della importanza
del Concorso e della opportunità che in regime corporativo fascista
non si possa prescindere da parte di enti pubblici, da alcune tassative
norme nel preparare e bandire Concorsi.
La vastità del piano da progettare, la imprecisa indicazione
del numero e dei tipi di fabbricati che si richiedono, il fatto che
al Concorso possono partecipare tutti e non soltanto i tecnici ed artisti
autorizzati, e, peggio ancora, la esiguità dei premi in rapporto
alla importanza del progetto e la facoltà che l’Istituto
si riserva, di eseguire in tutto o in parte ciascuno dei progetti premiati,
facendo anche un miscuglio delle varie soluzioni proposte, costituiscono
una così grande deficienza del bando, che il Sindacato Architetti
vuole augurarsi che il benemerito Istituto per le Case popolari di Genova
voglia procedere alla rinnovazione del Bando, con norme più chiare
e ragionevoli.
In tal senso il Segretario Nazionale si è già rivolto
al Commissario dell’Istituto per le Case popolari di Genova.