FASCICOLO II - OTTOBRE 1928
Notiziario

CORRIERE ARCHITETTONICO

GLI UFFICI DELLA TESSITURA ROVELLI-MARELLI
A MONZA
degli Architetti TOMASO BUZZI e MICHELE MARELLI

Una recente opera, e, principalmente d’architettura, presentiamo quì, di Buzzi e Marelli. Si tratta della costruzione di uffici e laboratori industriali, vasto rimaneggiamento di edifici in parte esistenti, con aggiunta di padiglioni e nuovi bassi fabbricati adibiti a certe specialissime lavorazioni del cotone. Architettura, dunque, industriale ed obbediente a tiranniche leggi di impianto; e, pertanto, lineare, sincera, utilitaria.
L’effetto n’è ottenuto con pochi mezzi, con pochi motivi alternati a fondi chiari e scuri, motivi di sapore neoclassico e perfettamente ambientati con tanta parte di Monza.
Sopratutto, vennero curati i punti di vista, perchè le testatine dei vari edifici nuovi si presentassero sempre come sfondi prospettici e dal lato di maggior decoro.
Il materiale usato, come accennammo, fu tra i più semplici: intonaci di calce, cemento per le principali modanature, serizzo per il basamento e le cornici. Ovunque, tonalità biancogrige e gialline di allegro effetto.
R. F.

LE NUOVE TERME DI ACQUI
dell’arch. PIETRO BETTA

L’Architetto Torinese Pietro Betta, dopo un lungo e minuzioso studio diretto dei principali stabilimenti termali esteri, ha redatto un grande progetto per la completa rinnovazione delle vecchie terme di Acqui, accompagnandolo con una interessante relazione tecnica.
Il problema di uno stabilimento termale vi è trattato con concetti del tutto moderni. Un grandissimo Albergo è conglobato alle terme, studiato secondo le regole terapeutiche più nuove, mentre uno stabilimento termale a parte, serve a chi desidera la cura separata dall’alloggio. Un altro albergo è progettato in città ed è prevista la costruzione di un grande Kursaal. Il tutto costituisce un insieme architettonico di notevole importanza trattato con semplicità e modernità di linee. Hanno cooperato con l’architetto Betta, lavorando con fervore, gli architetti P. Perone e G. Rosso
L. PICCINATO

CRONACA DEI MONUMENTI

VICENZA. - Le proposte di completamento della Loggia del Capitanio sulla piazza dei Signori in Vicenza hanno formato oggetto di gravi quesiti e di vivaci polemiche sull’arduo tema del ripristino dei monumenti. Ora che, per il rinvio sine die dell’attuazione dell’iniziativa e per il lungo tempo ormai trascorso si sono acquietati i dibattiti appassionati ed aspri, è certo interessante il far conoscere, con le illustrazioni qui unite, il progetto dell’arch. Ettore Fagiuoli, ed il riportare il voto sull’argomento dall’autorità massima nel campo della conservazione del patrimonio artistico e del restauro di monumenti, cioè la Giunta del Consiglio superiore per le Belle Arti:
“La Giunta del Consiglio superiore per le Antichità e le Belle Arti, riunita con la partecipazione dei consiglieri Proff. Pogliaghi e Chierici, esaminato il progetto di continuazione della palladiana Loggia del Capitanio presentato dal podestà di Vicenza:
“letti i pareri del R. Soprintendente all’arte medioevale e moderna di Venezia e della Commissione provinciale per la conservazione dei monumenti e presa altresì nozione dei voti emessi sull’argomento da vari enti ed in particolare modo dalla Accademia di Belle Arti di Venezia su particolareggiata relazione del Comm. Marangoni, membro del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti;
“ritiene che l’importante tema, a cui così vivo interessamento portano l’amministrazione e la cittadinanza vicentina e che ha destato tanto fervore di polemiche, debba riportarsi con ponderato giudizio alle norme che ora reggono il restauro dei monumenti;
“se per tali norme deve in generale ritenersi inopportuno il completamento in stile similare di quei monumenti lontani ormai dal nostro sentimento e dalla nostra civiltà, inimitabili per la stessa libera e complessa collaborazione che li produsse, come quasi sempre può dirsi per le opere architettoniche del Medio Evo, non può invece escludersi la ritmica continuazione di opere del Rinascimento rimaste incompiute: sia per la regolarità geometrica e la costanza di rapporti che le inquadra, sia pel coordinamento di ogni parte dell’opera ad un pensiero unico, sia infine per la maggiore e diretta comprensione che è in noi di quel pensiero d’Arte; per il che nei numerosissimi esempi, del passato in cui tale continuazione fedele è avvenuta, come per le Procuratie nuove in Venezia, pel Palazzo della Gran Guardia in Verona, per i palazzi michelangioleschi e le loggie vignolesche sul Campidoglio, per la cornice di coronamento del palazzo di Venezia in Roma, per la stessa basilica di Vicenza di cui il Palladlo lasciò terminate due sole campate del portico, l’opera di completamento ci appare ora come una non arbitraria espressione d’Arte e di rispetto ad una concezione architettonica ed edilizia fatta essenzialmente di armonica proporzione;
“Per tali ragioni ritiene la Giunta, in massima, che l’intendimento dell’amministrazione comunale di Vicenza sia da accogliersi col maggior favore nei riguardi intrinseci dell’insigne monumento ora mutilo e quasi mancante di significato, ed in quelli della mirabile piazza dei Signori, che col prolungarsi della Loggia di fronte alla basilica riprenderà il suo logico sviluppo longitudinale;
“Passando ad esprimere un parere sulle modalità del progetto, ed anzitutto sulla grave questione, a cui nessun documento autentico soccorre, del numero delle arcate del portico, la Giunta ha maturamente bilanciato le ragioni che farebbero propendere per portare a cinque od a sette le arcate stesse. Esprime il suo parere favorevole alla soluzione delle cinque arcate felicemente concretata nel progetto dell’architetto Fagiuoli, sia per la pratica ragione urbanistica della opportunità di creare un largo che faciliti l’accesso alla piazza dei Signori e perchè sia scongiurato il pericolo di un taglio e di una ricostruzione della parete di fondo della piazza, sia per seguire il criterio della minima aggiunta nuova, sicchè rimanga del monumento maggiore la parte antica di quella moderna. Anche se con tale soluzione permarrà un dubbio sulla forma voluta dall’autore, l’aspetto del monumento vi sarà in ogni caso più prossimo di quello che ora non sia, e le indicazioni poste a denotare la nuova data dovranno essere chiare ed evidenti, sì da non trarre alcuno in errore;
“Quanto infine agli elementi decorativi, che incorniciati nelle linee architettoniche sono parte integrante dell’aspetto del monumento, ritiene la Giunta che essi debbano nella parte nuova essere eseguiti, ma su temi moderni e con sentimento moderno, pur armonizzando con gli antichi; chè se per gli elementi geometrici la riproduzione perfetta può dirsi ben legittima, precisa e sicura nella forma e nello spirito, non così sarebbe per gli ornati plastici in cui il tempo e la personalità dell’autore hanno avuto e debbono avere diretta influenza. Siano pertanto essi espressione del nostro tempo; si riferiscano a simboli od a strumenti della guerra moderna, dicano onestamente mediante le epigrafe e le date quale sia la parte aggiunta all’antica;
“Certo all’attuazione di siffatto arduo tema, nel contemperare tale affermazione di modernità col rispetto al monumento, dovrà presiedere una vigile cura: e la Giunta esprime il voto che disegni e modelli le siano a suo tempo sottoposti;
“Essa confida, nell’approvare, con le suddette osservazioni, il progetto redatto dall’architetto Fagiuoli, che abbia così degna espressione la nobile iniziativa del Podestà e del popolo di Vicenza, per cui la Loggia del Capitaniato avrà la doppia consacrazione del ricordo della battaglia di Lepanto e di quello della battaglia di Vittorio Veneto”.
Firmati: C. RICCI, vice-presidente: GINO CHIERICI, GUSTAVO GIOVANNONI, VITTORIO GRASSI, LUDOVICO POGLIAGHI, MARCELLO PIACENTINI, ROBERTO PARIBENI, PIETRO TOESCA.

ARQUÀ PETRARCA. - Restauro di vecchie case. - In quel mirabile paese di Arquà Petrarca, gioiello di edilizia paesana, in cui le vecchie case si stringono intorno alla tomba del grande poeta quasi a difenderla ed a costituirle intorno un ambiente tranquillo e raccolto, la Sovraintendenza ai Monumenti del Veneto, ed in particolare l’egregio Arch. Comm. Ferdinando Forlati, ha preso la iniziativa di una serie di restauri modesti e non invadenti, che consolidino elementi fatiscenti e riaprano finestre e loggiati, riportando i piccoli e modesti edifici che son vissuti insieme, alla loro forma originaria senza nulla aggiungere di arbitrario, senza “forzare” il restauro.
Quest’opera è appena iniziata e va avanti lentamente, secondo lo permettono gli stremenziti stanziamenti della Sovraintendenza; ma appunto per ciò merita d’essere segnalata. E gli esempi di architettura rustica che man mano tornano in vita meritano d’essere conosciuti a costituire una pagina, non priva d’importanza, di quel libro che ancora non è stato scritto sull’Arte popolare italiana, in cui è tanta poesia, tanta tradizione viva e feconda, adatta, in questo periodo architettonico d’incertezza, a fornire elementi interessantissimi di studio pei nostri architetti vecchi o giovani.
Di alcuni di questi edifici o restaurati od in corso di restauro, riproduciamo qui i prospetti. Sono essi di vario tipo, di vario tempo, di influenze diverse. Ecco ad esempio la casa Bonello che è la tipica casa rustica, naturalmente sorta, costituita di tanti elementi liberamente aggiunti e pittorescamente aggruppati. Ecco invece la casa Vettorato e la casa Contatto in cui interviene nelle finestre qualche elemento cittadino e reca con sè l’impronta, forse tarda, di uno stile. E la casa Donà, che è una bella ed elegante sovrapposizione di loggiati; e la casa stessa del Petrarca con le sue aggiunte di vario tipo e di vario tempo; e la casa Contarini che (come la fa indovinare anche il nome) è la vera casa veneta di una famiglia agiata, la quale ha voluto affermare architettonicamente la sua superiorità sui buoni villici ed ha da Venezia chiamato il suo architetto o la sua maestranza.
I restauri della Sovraintendenza si sono anche volti alla bella colonna col leone veneto, ora scomposta e mutila, ed alla tomba stessa del Petrarca, così bella e forte e suggestiva, nella quale opportunamente s’intende sostituire una cancellata semplicissima a quella banalissima a linee di finto gotico, ora esistente. Ottime iniziative e, speriamolo, felici risultati.
G. G.

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

H. GÖBEL: Wandteppiche. II Teil. Die Romanischen Länder. - Un volume di testo di pp. IV 646; ed uno di tavole con 562 riproduzioni, 10 delle quali a colori. - Lipsia, Klinkhardt u. Biermann, 1928.
Nei due volumi qui indicati abbiamo davanti la seconda parte di un’opera che si propone di fare la storia dell’arte degli arazzi e di offrire insieme al lettore un ampia raccolta di riproduzioni, che valgono a dare un’idea del grande sviluppo che quell’arte ha avuto attraverso i secoli.
La prima parte, divisa egualmente in due volumi, l’uno di testo e l’altro di tavole, comparve già nel 1923. In esse il chiaro a. discorre prima, in generale, della tecnica e dell’importanza che ebbe l’arte dell’arazzo dal suo nascere fino al sec. XVIII, e tratta in seguito dalle fabbriche dei Paesi Bassi, dove, come ognuno sa, prima che in altre nazioni, l’arte stessa ha raggiunto il massimo fiore. La terza parte che tratterà degli arazzi dei popoli germanici e slavi, e la quarta degli arazzi orientali sono ancora in preparazione.
L’arte degli arazzi tra i popoli latini dall’Italia al Portogallo forma, come detto nel titolo dei due volumi, l’argomento della seconda parte, la quale si modella sulla prima nel modo con cui è distribuita e trattata la materia non solo perchè ne rappresenta lo sviluppo più diretto, ma anche perchè ha con essa grandi affinità nella tecnica, nella scelta e nel trattamento dei soggetti. Il primo posto è dato naturalmente alla Francia e a Parigi; quindi alle fabbriche di stato, da quella di Fontaineblau a quella, che tutte le completa e le continua, dei Gobelins. Vengono in seguito le fabbriche minori delle singole città e dell’antico ducato di Lotaringia, colle quali si oltrepassano i due terzi di tutto il volume.
Il quarto e il quinto posto sono assegnati alla Spagna e al Portogallo, all’Italia il terzo. Di questa che ci riguarda più da vicino, diremo qualche cosa di più.
Come tutti sanno, la produzione delle fabbriche italiane di arazzi non regge al confronto di quelle francesi e fiamminghe, nè per l’antichità, nè per il valore. Quando fra noi si svegliò il gusto dell’arazzo e le città e i principi sentirono il desiderio di decorarne i palazzi e le chiese, l’arte dell’arazzo aveva raggiunto altrove la maturità, specialmente al Nord della Francia e nelle Fiandre, dove prosperavano fabbriche numerose e rinomate per l’abilità delle loro maestranze, che potevano, in tempo relativamente breve, dar corso ad importanti lavori, ed esse erano chiamate il più delle volte ad eseguire gli arazzi per i committenti italiani. Basti citare il fatto degli Arazzi di Raffaello in Vaticano, che furono tessuti nella fabbrica di Pietro van Aelst di Bruxelles, in poco più di due anni.
Ciò non ostante, nel rifiorimento di tutte le arti che si è manifestato in Italia ai primi albori del 300, non poteva mancare la ricerca dell’arazzo, come necessario completamento degli addobbi di cui facevano pompa i più nobili edifici; e allora, o si chiamarono artisti francesi, fiamminghi ed alemanni a lavorare in Italia o si mandarono le ordinazioni alle case madri dell’estero. Coll’andar del tempo gli artisti, venuti dall’estero, formarono maestranze locali che si giovavano per i disegni e per i cartoni, degli artisti italiani più in voga; e allora al posto delle ordinazioni si sostituirono anche manifatture locali, nelle quali insieme coi nomi stranieri vennero alternandosi nomi prettamente italiani.
È il caso degli arazzi tessuti a Ferrara (p. 366 e segg.) I maestri arazzieri vengono per lo più dal Nord della Francia e dalle Fiandre e riproducono principalmente modelli provenienti dalla loro patria, in cui le scuole pittoriche Ferraresi contemporanee mescolano nuovi elementi nelle forme decorative; ma per tutto il sec. XV non vi è traccia della formazione di una maestranza vitale o di un gusto speciale per gli arazzi capace di dar vita ad una nuova industria artistica.
Fu col duca Ercole II e col Cardinale Ippolito suo fratello che si svolse in Ferrara una vera e propria fabbrica di arazzi. Fin dal 1517 si trovavano presso la corte i maestri Niccolò e Giovanni Carcher, a cui si aggiunsero in seguito otto operai fatti venire dalle Fiandre, e sotto la loro direzione verso la metà del secolo ebbero vita diversi cicli di arazzi quasi tutti di grande importanza. All’opera degli arazzieri si associava quella dei nostri pittori, i fratelli Battista e Dosso Dossi, i quali mostravano di comprendere assai bene le esigenze della nuova arte, e, secondo la testimonianza del Vasari, anche Giulio Romano, il quale avrebbe fatto per il duca molti disegni per arazzi eseguiti in seta ed oro dai fiamminghi Niccolò e Giovanni Battista Rosso. Insieme e dopo, coi fratelli Dossi lavorarono i pittori Camillo Filippo, Benvenuto Tisi (Garofalo), Luca d’ Olanda, Leonardo da Brescia, Giovanni B. Rossetti di Bologna, Girolamo da Carpi, Tomaso da Treviso, ecc.
Si citano come esempi della produzione ferrarese una serie di arazzi che rappresentano scene delle Metamorfosi di Ovidio, e un’altra che aveva per soggetto le imprese d’Ercole; a cui si devono aggiungere altri arazzi per la città di Modena, per i castelli del ducato, e quelli di argomento religioso del Duomo di Ferrara, i cui cartoni, disegnati da Camillo Filippo e dal Garofalo, rappresentano le storie di S. Maurelio e di S. Giorgio.
Dopo la morte di Ercole II (1559) le fabbriche di Ferrara rimasero in fiore per qualche anno, ma poi andarono lentamente decadendo e alla fine del sec. XVI si può dire che esse hanno cessato di vivere.
Da Ferrara il Dr. Göbel passa al granducato di Toscana (p. 377 e segg.) Anche qui l’industria degli arazzi non prese un vero sviluppo prima del duca Cosimo I, che fece venire da Ferrara Giovanni Rost e Niccolò Carcher, e con essi ebbe consistenza una vera fabbrica statale, in cui lavorarono come disegnatori il Bronzino, Raffaello del Colle, Francesco Salviati e Francesco Ubertini (il Bachiacca).
La produzione della fabbrica fiorentina, assai ricca e preziosa, si prolungò con arazzieri italiani e stranieri per due secoli, e allo spegnersi della casa medicea le sue maestranze si trapiantarono nelle manifatture di Torino e di Napoli. Lo stesso Niccolò Carcher di Ferrara stabilì la fabbrica più importante di Mantova, (p. 402 e segg.) dove era stato preceduto da artisti stranieri e italiani, per i quali aveva preparato cartoni il celebre Mantegna; ma la produzione mantovana, come la ferrarese, non oltrepassa di molto il secolo XVI.
Nel ducato di Milano (p. 408 e segg.) è ricordata anzitutto la fabbrica di Vigevano, dove furono tessuti per conto del Marchese Gian Giacomo Trivulzio (1436-1518) dodici grandi arazzi rappresentanti i dodici mesi dell’anno, che sono ancora in possesso della famiglia. Regna molta incertezza circa gli autori dei cartoni, per i quali si fanno i nomi del Bramantino e del Foppa; ma l’industria nel sec. XVI viene esercitata anche in Milano sia per la casa ducale degli Sforza, sia per la Cattedrale, e i cartoni sono preparati da Pietro de Rizolis, Nicolò d’Appiano, Gaudenzio Ferrari, Michele da Molino, Antonio da Sanino e Giulio Campi. Non sembra tuttavia che l’industria abbia continuato nel sec. XVII.
Più tardi che altrove cominciò la tessitura degli arazzi nello stato pontificio (p. 416 e segg.) e ciò si spiega col fatto che a Roma mettevan capo tutte le nazioni cristiane d’Europa, le quali insieme con i loro legati, religiosi e pellegrini inviavano anche i migliori prodotti delle industrie proprie, mentre, di ricambio, ad esse di preferenza si rivolgeva la corte pontificia per le sue ordinazioni. Niccolò V fece venire a Roma da Siena il tessitore Giachetto di Benedetto di Arras, e negli inventarii della fine del ’400 sono menzionati parecchi arazzi di Arras, Parigi e Tournai con gli stemmi di Niccolò V e di Callisto III. Nel secolo seguente Leone X e Clemente VII sono in relazione con Pietro van Aelst per gli arazzi di Raffaello della vecchia e della nuova scuola; ma se alla corte papale s’incontrano arazzieri, questi sono addetti alla conservazione e al restauro, non alla tessitura. Fu Paolo IV che pensò di istituire in Roma una vera fabbrica di arazzi, e a tale scopo intavolò trattative con Giovanni Rost, capo dell’arazzeria toscana; ma prima che il progetto fosse tradotto in realtà egli morì.
Soltanto nei secoli XVII e XVIII si può parlare di vere e proprie fabbriche romane, le quali ebbero fama durevole: la fabbrica di casa Barberini e quella dell’Ospizio di S. Michele (p. 417 e segg.) La fabbrica di casa Barberini deve la propria origine e il grande sviluppo al Cardinale Francesco, nipote di Urbano VIII, che a questo scopo (1620) visitò in Parigi le fabbriche allora fiorenti, e prese informazioni e materiali, e che cercò i pittori che dovessero allestire i cartoni. Pietro Paolo de Gubernatis, Pietro da Cortona, Giovanni Francesco Romanelli col suo scolaro Paolo Spagna furono i primi artisti incaricati dei disegni; Giacomo della Riviera (fiammingo) col suo compatriota Michele e col francese Antonio sono gli arazzieri, a cui in processo di tempo altri se ne aggiunsero: Passarino Bartolomeo, Giovanni Pigoni, Fermo Perini e Gasparo Rochi. Interrotta alla morte di Urbano VIII (1644), la fabbrica riprese vita sotto Innocenzo X e continuò sino allo scorcio del sec. XVII.
Tra i lavori eseguiti dalla fabbrica Barberini sono molte portiere con armi delle famiglie Barberini e Colonna, drappi per balconi e sopra-porte, copie di arazzi di Bruxelles e Parigi ed anche nuove composizioni, come quelle che hanno per soggetto le avventure di Apollo e Diana e i fasti della famiglia che aveva promossa in Roma la tessitura degli Arazzi.
A continuare la nobile impresa della fabbrica Barberini provvide Clemente XI coll’istituire nel 1710 una fabbrica-scuola degli arazzi nell’Ospizio di S. Michele (p. 422 e segg.), chiamando a dirigerla il parigino Jean Simonet e alla sua dipendenza il pittore Andrea Procaccini, con i tessitori Pierre Augier, Niccolò della Valle e Andrea Antonio Gargaglia; a cui si associarono nel 1714 Jacques Gragnos, Mathieu Giaqué, Felice Mollicati e Vittore Demignot. Tra le prime produzioni della scuola si citano la serie degli Apostoli e degli Evangelisti, alcuni paesaggi e Papa Clemente XI in atto di ricevere il Cardinal nipote Albani, protettore dell’Ospizio.
Dopo il 1717, al Simonet, come capo arazziere, succedette Pietro Ferloni, il quale nel 1729 aveva come compagni G. B. Draggi, Francesco Ferretti, Mario Silvestri, Antonio Dini (che andò più tardi a dirigere la fabbrica di Torino) e maestro Perozzi. Nel 1770 la direzione della fabbrica era affidata a Filippo Cettomai, nel 1791 a Filippo Pericoli il quale rimase al suo posto fino all’invasione francese del 1798, le quale segnò la fine del primo glorioso periodo della Fabbrica.
Oltre gli arazzi già citati, dall’ospizio di S. Michele ne uscirono altri che rappresentano scene della Gerusalemme Liberata, le quattro stagioni, e soggetti religiosi condotti su cartoni, di cui non si conoscono sempre gli autori, e che venivano spesso regalati dal pontefici ad ambasciatori, principi e regnanti.
Dalla scuola di S. Michele, sotto la protezione della Compagnia di Gesù, si distaccò nel 1743 una fabbrica che aveva sede in piazza di S. Maria in Trsstevere ed era diretta da Antonio Gargaglia e Agostino Speranza. A questa fabbrica si devono tredici arazzi che rappresentano episodi della vita di S. Ignazio di Lojola e S. Stanislao Kostka e un arazzo per altare che ha per soggetto la Circoncisione, i quali tutti sono ancora in possesso della Compagnia.
Il Dr. Göbel nella sua diligente rassegna fa cenno anche di altre fabbriche minori di Urbino (p. 414), Todi (p. 428), Bologna (p. 429), Verona (p. 445), Genova (p. 447), Correggio (p. 449), Perugia (p. 450), Siena (p. 451); ma dopo Firenze e Roma le fabbriche che hanno lasciato tracce più considerevoli sono quelle di Napoli, di Venezia e di Torino, e di esse egli tratta con maggior ampiezza.
Come fu detto sopra, l’arte dell’arazzo risorge a Napoli, quando essa scompare da Firenze. Il re delle due Sicilie Carlo VII (p. 430 e segg.), per mezzo de’ suoi rappresentanti, fece venire a Napoli i due fiorentini Domenico Del Rosso e Giovanni Francesco Pieri (1737), l’uno come direttore e l’altro come amministratore, e insieme con essi furono raccolti numerosi maestri arazzieri ed apprendisti. Il tintore Andrea Camici di Firenze non avendo dato buoni risultati, al suo posto furono chiamati Gennaro Celentano e Mariano Savarese. La sistemazione della fabbrica richiese tre anni di tempo e cominciò seriamente a produrre nel 1743. In quell’anno si pose mano alla serie dei quattro elementi destinata al palazzo di Caserta e che consisteva di quattro grandi arazzi parietali, l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco, con diverse portiere, sopra porte e tende per finestre. Il quarto dei grandi arazzi, quello del fuoco, fu terminato nel 1763 e porta la segnativa di Pietro Duranti. Questo artista, che aveva lavorato prima a Roma, e che si trasferì a Napoli nel 1757, diede alla fabbrica napoletana un impulso più vigoroso, e sotto la sua direzione, che si prolungò sino all’ultimo decennio del secolo, ebbero compimento gli arazzi più preziosi della scuola napoletana.
Una prima serie ebbe per soggetto le imprese di Don Chisciotte distribuite in quarantacinque episodi dipinti in gran parte da Michelangelo Fasano e trasportati in altrettanti arazzi sotto la guida maestra del Duranti. Contemporaneamente a questi furono eseguiti i così detti arazzi della stanza del Belvedere, i cui cartoni furono dipinti dal Vanni e dal Morghen.
La terza grande serie di arazzi del Duranti svolge la storia di Amore e Psiche, che fu tessuta negli anni 1783-1786: essa fu ispirata certamente dai celebri affreschi della Farnesina, ma non si conosce chi abbia preparato i cartoni relativi. Altri lavori erano in corso nel 1798, quando i torbidi prodotti dalla invasione francese, costrinsero la casa regnante a riparare in Sicilia; e così la fabbrica si disciolse.
La città di Venezia conserva ancor oggi un centinaio di arazzi, ma è difficile stabilire a quali fabbriche essi appartengono. In generale si può asserire (p. 438 e segg.), che il gusto dell’arazzo si diffuse nella nobiltà veneziana soltanto nel sec. XVI; ma gli arazzi erano per lo più fatti eseguire nelle Fiandre o dalle fabbriche di Ferrara e di Firenze. Vi è notizia non di meno di alcuni tessitori che lavoravano nel sec. XVI anche in Venezia: Francesco Fiammingo, Gaspardo Carnes, Lazzaro Canaam, Giovanni Giacomo Zinqueoic, Angelo di Battista Clemente del Friuli ecc.
Nel sec. XVII diversi arazzieri fiamminghi domandano licenza di trasportare la loro industria in Venezia; ma è dubbio se la domanda abbia avuto risposta affermativa, perchè un documento del 1634 riportato dal Müntz, dichiara che “in Venetia non si lavora ne d’arazzi ne di tappeti, ma ci sono tre botteghe di rapezzatori tutti gente di Venetia.... che sanno tanto poco che non li basterebbe l’animo di far di nuovo qualsivoglia cosa benchè felicissima”. Unica impresa di qualche importanza è quella del romano Antonio Dini, il quale formatosi a Roma nell’ospizio di S. Michele alla scuola di Pietro Ferloni, dopo aver tenuto una fabbrica d’arazzi a Torino per diciannove anni, passò dal 1760 in poi colle sue figlie a Venezia, dove tre anni più tardi aveva stabilito una manifattura d’arazzi insieme con due figliuole, sei garzoni e diversi aiutanti. Alla morte del Dini (1771) la fabbrica continuò nelle mani delle figlie divisa in due rami: “la fabbricazione degli Arazzi ad uso di Roma, e de tapeti ad uso de sacri Tempi”, e finì colla caduta della repubblica.
A Torino, più che nelle altre città principali d’Italia l’arte dell’arazzo fu limitata per lungo tempo alla conservazione e al ristaure delle opere tessute che erano state eseguite all’estero. Soltanto nel 1737, per iniziativa di Carlo Emanuele III, fu eretta una manifattura di Stato sotto la direzione di Vittorio Demignot che aveva lavorato prima in Roma e poi a Firenze. Alla dipendenza di Demignot stavano dodici arazzieri: alla morte di lui (1744) succedette il figlio Francesco. Nel 1798 lavoravano ancora otto arazzieri, quando sopraggiunse l’invasione francese, che soffocò l’attività della fabbrica: essa riprende vita nel 1823, ma per poco, perchè nel 1838 fu costretta a chiudere le porte e i suoi cartoni andaron in possesso dell’Accademia Albertina (pag. 452 e segg.)
Chi diede maggior impulso artistico all’arazzeria torinese fu il pittore di corte Claudio de Beaumont. Lavorarono con lui per i cartoni Matteo Franceschini, Lorenzo Pescheux, G. Domenico Molinari, Felice Manassero, Vittorio Blanchery, Antonio Scarzella, Vittorio Amedeo Cignaroli, e dopo di lui il veneziano G. B. Crosato e il napoletano Francesco Demura. Gli arazzi che uscirono dalla loro scuola sono in possesso dello Stato e quasi tutti di buona conservazione.
La prima grande serie di sette arazzi ha per soggetto la storia di Alessandro Magno; altri sette eseguiti fra il 1744 e il 1750 svolgono la storia di Giulio Cesare; nel 1756 si pose mano ad una terza serie di dieci arazzi colle vicende di Ciro il Giovane; nel 1760 s’intraprese l’esecuzione di una quarta che rappresenta i fatti di Annibale. Dal 1762 al 1790 si diede la preferenza a composizioni di paesaggio, e su questo soggetto con i cartoni del Cignaroli fu tessuta una serie di diciassette arazzi, mentre sui cartoni di Carlo Bianchi altri ne furono eseguiti, dove predominano motivi statuari od architettonici. Ma non per questo vennero abbandonati del tutto i soggetti storici e mitologici, perché quasi contemporaneamente, dal 1770 in poi, furono condotti a termine altri otto arazzi che rappresentano la storia di Enea e Didone, per i quali i cartoni furono dipinti da Demura, Demignot, Crosato e Antonio Bruno.
Colla storia dell’arazzeria torinese si chiude la rassegna delle fabbriche italiane, di cui ho dato qui un brevissimo cenno. Segue la rassegna delle fabbriche spagnuole e portoghesi, sulle quali predominano quelle di Madrid. Vengono infine gli indici copiosissimi ed accurati delle fabbriche, dei soggetti trattati, degli arazzieri, dei pittori che hanno preparati i cartoni, dei personaggi storici, delle collezioni pubbliche e private nelle quali gli arazzi sono conservati, degli autori che ne hanno trattato, delle marche di fabbrica e delle sigle degli artisti che s’incontrano negli arazzi stessi.
L’opera, come ognun vede, offre un mezzo facile per orientarsi nella storia complessa degli arazzi che è stata parte così grande dell’arte medioevale e del rinascimento e che ha dato vita per tanti secoli ad un’industria veramente aristocratica; e perciò - non v’ha dubbio - essa sarà accolta con favore da tutti gli studiosi dell’arte. Ma con favore speciale essa sarà accolta dagli studiosi di architettura, perchè gli arazzi, come il mosaico parietale e come i grandi affreschi, non hanno un ufficio puramente decorativo, ma devono essere considerati come elemento vitale delle grandi architetture.
BARTOLOMEO NOGARA.

COMMENTI E POLEMICHE

PEL PARCO DELLA VITTORIA E PER LA BELLEZZA DI PERUGIA

In Perugia, città cara ad ogni italiano che ami l’Arte, si presenta un caso veramente singolare di contrasto tra l’interesse pubblico ed il privato, tra la bellezza e la bruttezza.
Una nobilissima iniziativa del Podestà di Perugia ha promosso un concorso per la sistemazione della vasta piazza d’armi che si estende fuori della barriera della Croce nel piano sottostante alla città. Ed il progetto vincitore, dovuto all’egregio arch. Angelini, può dirsi veramente degno del tema. Posto nel fondo il nuovo stadio, lasciate da un lato libere le visuali verso la chiesa di Santa Giuliana, l’Angelini sistema la zona con una adatta unione dell’architettura con la vegetazione, disponendo piazzali e scalee e fontane secondo la bella tradizione delle nostre ville cinquecentesche e seicentesche.
Il maggiore elemento di tale sistemazione è il piazzale della Vittoria, da cui una scalea monumentale è portata a discendere sulla via XX Settembre, racchiudendo tra le sue braccia un terrazzo, vero belvedere magnifico da cui lo sguardo dovrebbe spaziare nel panorama circostante.
Ed il panorama è quanto mai bello e suggestivo. Lo chiude il lungo colle di Porta S. Pietro, con l’agile campanile di S. Pietro, con la forte massa di S. Domenico, col giardino del Frontone, ridente propaggine di Perugia in cui l’elemento naturale ed il monumentale mirabilmente si uniscono. È il quadro, è lo scenario a cui la nuova opera è direttamente connessa, è una visuale che al visitatore che giunge a Perugia dà la prima impressione, il primo saluto.
Orbene proprio ora si iniziano i lavori di una vasta costruzione la quale, continuando la massa orrenda di un enorme edificio già sorto presso la barriera S. Croce, si estenderebbe avanti la scalea, sbarrando ogni veduta!
Ed il Comune non s’oppone e non protesta, come se non vedesse il sabotaggio della opera da lui voluta e non intendesse la sproporzione tra l’insignificante vantaggio, non certo estetico ma edilizlo, che la nuova fabbrica recherebbe col procurare alcuni appartamenti, ed il danno enorme prodotto alle ragioni stesse della vita cittadina.
Si è opposto invece, in base alla Legge sulle bellezze naturali, il Consiglio superiore per le Belle Arti; e poche volte le norme che tutelano il paesaggio possono avere applicazione più chiara e diretta di questa: in cui la veduta panoramica non fa capo ad una apertura accidentalmente creata, ma ha ormai fissato il suo asse, il suo centro architettonico, è legata ad una vasta sistemazione edilizia, utile e bella. Alla creazione del Parco della Vittoria non può corrispondere una sconfitta della logica, dell’arte, dell’interesse cittadino.
G. GIOVANNONI.

SINDACATO NAZIONALE ARCHITETTI

PAGINE DI VITA SINDACALE

CONVOCAZIONE DEL DIRETTORIO NAZIONALE.

Entro la seconda decade di novembre sarà convocato a Roma il Direttorio Nazionale del Sindacato Architetti, per discutere i seguenti temi:
Tariffa professionale.
Giunte Sindacali.
Attività dei Sindacati Regionali.
Scuole di Architettura.
Al convegno saranno invitati anche i Segretari Regionali. Faccio pertanto vivo appello ai camerati, perchè sui temi indicati raccolgano tutto il materiale e le proposte opportune.

SCUOLE DI ARCHITETTURA

Il delicato ed importante problema delle Scuole di Architettura è in questo momento, in una fase di acuto interesse.
È noto che S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione sta studiando una riforma degli studi e degli ordinamenti universitari, ed appare quindi logico che anche le scuole di architettura, che attendono, ad eccezione di quella di Roma, il loro definitivo ordinamento come Istituti di Istruzione Superiore, saranno oggetto di particolare attenzione da parte di S. E. il Ministro.
Quale sia in proposito il Suo pensiero non è dato ancora conoscere; ma la classe degli architetti che alle Scuole Superiori giustamente attribuisce un’importanza basilare per lo sviluppo e l’avvenire dell’architettura italiana, deve attendere serena e fiduciosa.
S. E. il Ministro ha preso atto della relazione che un’apposita Commissione aveva compilato per incarico del Ministro del tempo, e che in gran parte coincideva con i voti espressi dal Congresso dei Sindacati Architetti; ricevette in seguito il Segretario Nazionale e altri studiosi coi quali conferì in proposito lasciando comprendere quanto gli stia a cuore l’interesse degli studi superiori compreso quello dell’Architettura che in un paese come l’Italia ha funzioni politiche di primo ordine.
Ai camerati che si agitano in ansietà dubitosa si raccomanda la calma e la fiducia nella serena saggezza del Ministro, che, ne siamo certi, vorrà trovare il modo, in occasione di prossime riforme, di dare definitivo ed equo assetto anche agli studi superiori artistici e tecnici, secondo le giuste aspirazioni del nostro Sindacato.
Il Segretario Nazionale
A. CALZA-BINI

IL SINDACATO PROVINCIALE DEGLI ARCHITETTI DI TORINO
E L’ESPOSIZIONE DI TORINO 1928

È da segnalare a titolo di lode l’azione svolta dal Sindacato Torinese per l’organizzazione dell’importante Esposizione del 1928, che sta per chiudersi dopo aver destato vivo interesse pel valore intrinseco delle cose esposte, e per la veste architettonica offerta ai padiglioni. Di quest’ultimo pregio della mostra, il nostro Sindacato Torinese ha gran parte di merito per la partecipazione di suoi numerosi membri ai progetti dei padiglioni e per l’entusiasmo con cui l’esecuzione delle opere fu seguita e curata.
Nella nostra Rivista già illustrammo parte dei progetti, in occasione dell’inaugurazione della Mostra, e nei prossimi fascicoli torneremo sul tema.
Sopratutto è da additare all’ammirazione dei colleghi e all’esempio degli altri Sindacati Nazionali, l’organizzazione in seno all’Esposizione, della Casa degli Architetti, uno speciale padiglione ideato e costruito dai componenti il Sindacato.
Detta Casa, che al piano terreno ospita un quartiere modello moderno ed al primo piano una mostra di lavori d’architettura, verrà pure illustrata in un prossimo articolo. Intanto ci è grato mettere in valore, all’infuori delle qualità artistiche dell’opera, il risultato pratico della realizzazione, da addebitarsi, in primo luogo al fraterno ed amichevole spirito di cooperazione che rese possibile l’iniziativa, promosso e cementato dalle buone e sane qualità direttive del Segretario provinciale Arch. Armando Melis, ed in secondo luogo alle qualità concrete ed attuatrici di tale spirito collaboratore. Mediante sapienti contatti con le aziende private industriali di Torino, i nostri colleghi poterono infatti ottenere che il pregevole e costoso padiglione potesse venire costruito ed arredato dalle stesse Ditte, all’infuori di ogni pubblica partecipazione o sollecitazione, a loro spese, anzi con lungimiranti contributi economici all’opera dei progettisti. Simile modo di intendere la collaborazione tra industria ed arte dovrebbe prevalere ovunque in Italia. Comprendano gli artisti che soltanto al contatto della realtà pratica la loro opera potrà assumere sinceri valori moderni ed attuali. Comprendano gli industriali che sarà loro vantaggio vivificare la produzione associandosi artisti di valore che possano dare ai loro prodotti, con la stessa spesa, forma bella ed allettante.
Quando l’arte, ora dissociata dalla vita, avrà saputo invece innestarsi ad essa; quando la pittura e la scultura, scendendo dai regni astratti dell’accademica opera d’esposizione, avranno saputo piegarsi verso il più fecondo e sano regno delle applicazioni pratiche, (l’affresco, la decorazione, la scultura architettonica, il mobilio, l’arredamento, ecc.); quando sopratutto l’architettura avrà saputo lasciare l’abitudine del bel disegno, come fine a sè stesso, per darsi alle attività concrete e si sarà ricondotta a quella che è la sua vera funzione sociale ora dispersa, e cioè di ganglio nervoso principale d’unione fra la tecnica e l’arte, fra la vita e l’espressione della forma, vero centro di raccolta, di sintesi e di scambio fra tutte le attività umane; allora assisteremo alle rinascite di cui presentiamo gli inizi ma che si ostinano ancora a non manifestarsi in pieno.
Ci sembra che l’opera del Sindacato degli Architetti di Torino, costituisca un buon precedente in questo senso, che tutti gli altri Sindacati regionali debbono cercate di seguire.
P. M.

I CONCORSI

NOTIZIE SUL BANDO DI CONCORSO PER IL FARO A CRISTOFORO COLOMBO NELLA REPUBBLICA DOMINICANA.

Nel fascicolo di settembre di questa Rivista fu già annunciato che per iniziativa dell’Unione Panamericana ed in seguito a decisione della Quinta Conferenza Panamericana, detto faro monumentale dovrà sorgere sulla costa di S. Domingo, di fronte alla città omonima. Sono state anche date le notizie principali relative ai premi, ai termini di scadenza, ecc., ecc.
È stato pubblicato, a cura del Comitato nazionale ordinatore, e sotto la guida dell’Arch. A. Kelsey, incaricato dalla Federazione dell’organizzazione del Concorso Mondiale indetto, un volume redatto in tre lingue, francese, inglese e spagnola, contenente, oltre il testo del Bando, la planimetria della località, le altre norme tecniche necessarie, e l’indicazione delle modalità procedurali per la partecipazione al Concorso, anche un numerosissimo corredo di notizie sul carattere della regione ove dovrà sorgere il faro, sull’architettura locale, sui concetti informativi dell’opera, ecc.
Tale volume è stato diffuso in tutti i paesi d’Europa e può aversi in visione presso i principali Consolati della Repubblica di S. Domingo. Esso verrà inviato anche ai concorrenti che ne facciano regolare domanda al Consigliere tecnico dell’Unione Panamericana, Arch. Albert Kelsey, Consejero Tecnico, Direccion Union Panamericana, Washington.
Il Bando prevede che il partecipante al Concorso debba essere un Architetto; solo gli architetti dunque, o le Associazioni fra Architetti, potranno concorrere indipendentemente. Gli ingegneri e gli scultori che vogliono partecipare alla gara, sono avvertiti che essi debbono associarsi con un architetto.
Domandando all’Arch. Kelsey un esemplare del programma e regolamento del Concorso, l’architetto concorrente deve dichiarare formalmente il suo nome e il suo indirizzo, con la sua età, e dare referenze sulla sua istruzione ed esperienza. Egli deve anche dare il nome e le referenze dei suoi associati, architetti, ingegneri o scultori; di più deve dichiarare preliminarmente se, nel caso in cui egli fosse premiato, intenda continuare l’opera solo od in associazione.
Il Sindacato Architetti richiama l’attenzione di tutti gli artisti italiani sulla grandissima importanza della gara internazionale alla quale essi debbono partecipare nel più gran numero, per ottenere possibilmente una vittoria nazionale.
Molto interesse ha anche la scelta del giurato europeo; il Sindacato di Roma ha preso l’iniziativa di designare disciplinatamente il Segretario Nazionale del Sindacato Architetti, Alberto Calza-Bini ed a tal uopo ha inviato una circolare a tutti i Segretari Regionali.
Va ricordato in proposito che il sistema della assegnazione della Giuria impone la scelta di 10 nomi, per parte di ciascun concorrente; tra i quali colui che avrà avuto il massimo numero dei voti sarà chiamato quale membro unico rappresentante dell’Europa.
Da qui la necessità che i concorrenti italiani votino compatti il nome del Segretario Nazionale, segnandolo ben chiaro in capo-lista (in quantochè tal nome è quello che si intende prescelto dal concorrente tra i dieci) e aggiungendo i nomi di rappresentanti delle altre regioni d’Italia, secondo le indicazioni date dalla Circolare del Sindacato di Roma. I nomi degli altri membri proposti oltre Alberto Calza-Bini sono: Giovannoni - Piacentini - Moretti G. - Arata -Marangoni - Berlam - Corradini - Brizzi - Fichera - Capitò.

BANDO DI CONCORSO PER IL PROGETTO DELLO STADIO
DELLA VITTORIA IN BARI.

Il Comitato per lo Stadio della Vittoria bandisce un Concorso Nazionale per il progetto dello Stadio della Vittoria, al quale potranno partecipare gli ingegneri, gli architetti e gli artisti di cittadinanza italiana e laureati o diplomati in Italia ed iscritti ai Sindacati Fascisti.
Lo stadio dovrà corrispondere a tutte le esigenze della tecnica, specialmente in rapporto ai moderni progressi dello Sport e dovrà contenere tutti i reparti ed ambienti necessari, in modo da renderlo adatto anche a spettacoli di eccezionale importanza.
Si lascia al criterio del concorrente la scelta delle dimensioni dei vari reparti e la loro ubicazione nell’area all’uopo destinata, come pure la forma e la dimensioni delle tribune e la loro ubicazione, nonchè la distribuzione di tutti i servizi e locali relativi, tenendo conto anche del bisogni futuri, in relazione allo sviluppo demografico della città.
A richiesta dei concorrenti verrà fornita una planimetria nella scala di 1:1000, col tracciato delle vie esistenti e di quelle da costruirsi e con l’indicazione precisa dell’area su cui dovrà sorgere lo Stadio della Vittoria.
Prima del giudizio della Commissione i progetti saranno esposti al pubblico per un periodo di giorni 15 e così dopo il verdetto saranno esposti con l’indicazione della graduatoria.

CRITICA DI UN BANDO DI CONCORSO NAZIONALE PER IL PIANO REGOLATORE DI UNA CITTÀ GIARDINO A MARASSI PRESSO GENOVA.

L’Istituto per le Case popolari di Genova ha preso la lodevole iniziativa di bandire un Concorso di piano regolatore di città giardino popolare in località Marassi; senonchè la buona intenzione non è stata sorretta dalla chiara visione della importanza del Concorso e della opportunità che in regime corporativo fascista non si possa prescindere da parte di enti pubblici, da alcune tassative norme nel preparare e bandire Concorsi.
La vastità del piano da progettare, la imprecisa indicazione del numero e dei tipi di fabbricati che si richiedono, il fatto che al Concorso possono partecipare tutti e non soltanto i tecnici ed artisti autorizzati, e, peggio ancora, la esiguità dei premi in rapporto alla importanza del progetto e la facoltà che l’Istituto si riserva, di eseguire in tutto o in parte ciascuno dei progetti premiati, facendo anche un miscuglio delle varie soluzioni proposte, costituiscono una così grande deficienza del bando, che il Sindacato Architetti vuole augurarsi che il benemerito Istituto per le Case popolari di Genova voglia procedere alla rinnovazione del Bando, con norme più chiare e ragionevoli.
In tal senso il Segretario Nazionale si è già rivolto al Commissario dell’Istituto per le Case popolari di Genova.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna al notiziario