L’ARCHITETTURA E LE ARTI DECORATIVE
ALLA XVI BIENNALE VENEZIANA
Accanto alla pittura, alla scoltura e all’incisione ben di rado
si vede figurare nelle esposizioni l’architettura. O quando ciò
avvenga è in forma talmente tecnica, e quindi poco accessibile
al pubblico, che le mostre dedicate alla architettura passano inosservate
e incomprese. Pure la presenza dell’architettura non solo sarebbe
sempre desiderabile nelle rassegne generali delle arti, come omaggio
doveroso verso quella che tutte le riassume, ma anche come guida tangibile
e operante d’armonia.
È stato per questo che nel programma della XVI Biennale veneziana
venne incluso un articolo destinato ad aprire la porta all’architettura,
sino ad allora esclusa dalla massima competizione artistica dei nostri
tempi. Dice infatti l’art. 3: (L’esposizione) “conterrà
pitture, sculture, disegni e stampe. Ai fini dell’arredamento
trarrà concorso dall’architettura e si gioverà del
contributo delle arti minori”. Ammissione limitata, è vero,
per varie ragioni: primo perchè lo spazio non consentiva di accogliere
su piede di assoluta parità tutte le arti, secondo perchè
non conveniva estendere a Venezia gli scopi informatori e caratteristici
di Monza. Ma ammissione, tuttavia, che consentiva di tentare il primo
esperimento desiderato di connubio tra tutte le arti, eludendo il pericolo
di quel tecnicismo a base di piante e di geometrici dimostratosi inadatto
a fiancheggiare quadri e statue.
Come si sia cercato di attuare il programma, è in linea generale,
noto. Si sono creati due ordini di ambienti: l’uno risolto con
criteri di pura architettura di carattere quasi da esterno nei locali
massimi dell’edificio, l’altro affidato a criteri di arredamento
interno in sale minori. Ambedue gli ordini d’ambienti collegati
in modo da creare delle unità bene individuabili, che formassero
zone di riposo nel seguito delle sale d’esposizione, pur senza
interrompere la funzione espositrice del palazzo.
È nata così “La rotonda” tutta bianca e luminosa
di Gio. Ponti, che vi accoglie nell’entrare, “Il salone
delle Feste” di Marcello Piacentini, a larghe alternanze di pilastri
e pareti curve che inquadra robustamente la mostra di scenografia, e
“La terrazza” di Brenno del Giudice che sbocca con il respiro
di snelle archeggiature prospettivate, sul fresco del canale di Sant’Elena.
Mentre più in là, nel cuore stesso dell’esposizione,
l’argentea rettilineità della saletta di Gustavo Pulitzer
allietata dal rosa di affreschi e di cuscini serici, si alterna al candido
incurvarsi degli stucchi di Duilio Torres, alle sagomature del grezzo
intonaro voluto da Piero Chiesa per le sue vetrate, e alla intimità
della sala che mobili e stoffe di Sartoris e Chessa fanno un ambiente
ideale per il bianco e nero.
Le riproduzioni e i chiari nomi degli architetti dicono meglio d’ogni
parola, come compiti tanto diversi siano stati risolti e corrisposti.
Meglio certo non si poteva interpretare l’intenzione di chi aveva
pensato il programma e ne aveva distribuito lo sviluppo. Nè meglio
potevano essere dagli architetti scelti i collaboratori cui affidare
particolari singoli di decorazione e d’arredo: dall’affresco
della signora Matilde Piacentini Festa al mosaico di Guido Cadorin,
dalle statue di Ercole Drei alle specchiere di Go. Ponti, dai tondi
a mosaico di Zecchin ai dipinti di Augusto Cernigoi, dai peltri di Gio.
Ponti ai vetri di Napoleone Martinuzzi soffiati nella fornace muranese
di Paolo Venini. In tutto insomma è risultata tale una armonia
e coerenza d’indirizzo verso quella evidenza costruttiva, quella
nuda essenzialità di superfici e di masse, caratteristiche dei
moderni intendimenti architettonici, da dimostrare quali mirabili applicazioni
possano esser conseguite in avvenire con sviluppi maggiori, dalla fusione
tentata tra l’architettura e le altre arti nella XVI Biennale
veneziana.
Sia permesso a questo proposito rilevare, che pur senza l’intervento
particolare di un qualche architetto, anche nelle sale consuete della
mostra vennero seguiti criterii analoghi così di disposizione
architettonica nell’ordine dei dipinti, come di ricerca di risorse
prospettiche nel gioco delle aperture di comunicazione, così
nel creare punti di riferimento con nicchie e vetrine, come nell’allietare
l’ambiente con l’intervento di qualche mobile o oggetto
d’arte. E non vanno quindi dimenticate le vetrate di Alberto Quentin
su disegno di Gianni Vagnetti e Giulio Rosso, i vetri incisi di Guido
Balsamo Stella che recano impresso il segno di una preziosità
sempre più eletta, i merletti ove Giulio Rosso rinnova grazie
alla perfezione tecnica di Jesurum, una tradizione che pareva immobile
e definitiva, i cuscini di Amelia Chierini, i mobili di Luisa Lovarini,
del Bega, dello Spicciani, del Da Ponte.
Ma non era intenzione di questa breve nota scendere all’esame
dettagliato di quanto l’architettura e le arti decorative abbiano
prodotto per e nella XVI Biennale, bensì di indicare brevemente
i concetti ai quali tale partecipazione è stata ispirata, come
affermazione del principio che una mostra delle arti figurative non
è necessario escluda, perchè incompatibili, le arti astratte
della squadra e del compasso. Ed il successo ottenuto sotto questo aspetto
dalla Biennale, dimostrando la bontà e la possibilità
di tali concetti, apre definitivamente la via a tentare sviluppi di
essi assai maggiori. Non potrebbe così man mano esser l’architettura
ricondotta al suo vero posto di regolatrice e maestra d’ogni arte?
Ed insegnare nello stesso tempo al pubblico il posto e l’importanza
nella casa, dell’opera d’arte? E infine nobilitare le Esposizioni
in modo che esse siano non solo luoghi di mostra per le opere d’arte,
ma opere d’arte complete per sè stesse?
ANTONIO MARAINI