FASCICOLO II - OTTOBRE 1928
ANTONIO MARAINI : L'architettura e le arti decorative alla XVI Biennale Veneziana, con 25 illustrazioni

L’ARCHITETTURA E LE ARTI DECORATIVE
ALLA XVI BIENNALE VENEZIANA

Accanto alla pittura, alla scoltura e all’incisione ben di rado si vede figurare nelle esposizioni l’architettura. O quando ciò avvenga è in forma talmente tecnica, e quindi poco accessibile al pubblico, che le mostre dedicate alla architettura passano inosservate e incomprese. Pure la presenza dell’architettura non solo sarebbe sempre desiderabile nelle rassegne generali delle arti, come omaggio doveroso verso quella che tutte le riassume, ma anche come guida tangibile e operante d’armonia.
È stato per questo che nel programma della XVI Biennale veneziana venne incluso un articolo destinato ad aprire la porta all’architettura, sino ad allora esclusa dalla massima competizione artistica dei nostri tempi. Dice infatti l’art. 3: (L’esposizione) “conterrà pitture, sculture, disegni e stampe. Ai fini dell’arredamento trarrà concorso dall’architettura e si gioverà del contributo delle arti minori”. Ammissione limitata, è vero, per varie ragioni: primo perchè lo spazio non consentiva di accogliere su piede di assoluta parità tutte le arti, secondo perchè non conveniva estendere a Venezia gli scopi informatori e caratteristici di Monza. Ma ammissione, tuttavia, che consentiva di tentare il primo esperimento desiderato di connubio tra tutte le arti, eludendo il pericolo di quel tecnicismo a base di piante e di geometrici dimostratosi inadatto a fiancheggiare quadri e statue.
Come si sia cercato di attuare il programma, è in linea generale, noto. Si sono creati due ordini di ambienti: l’uno risolto con criteri di pura architettura di carattere quasi da esterno nei locali massimi dell’edificio, l’altro affidato a criteri di arredamento interno in sale minori. Ambedue gli ordini d’ambienti collegati in modo da creare delle unità bene individuabili, che formassero zone di riposo nel seguito delle sale d’esposizione, pur senza interrompere la funzione espositrice del palazzo.
È nata così “La rotonda” tutta bianca e luminosa di Gio. Ponti, che vi accoglie nell’entrare, “Il salone delle Feste” di Marcello Piacentini, a larghe alternanze di pilastri e pareti curve che inquadra robustamente la mostra di scenografia, e “La terrazza” di Brenno del Giudice che sbocca con il respiro di snelle archeggiature prospettivate, sul fresco del canale di Sant’Elena. Mentre più in là, nel cuore stesso dell’esposizione, l’argentea rettilineità della saletta di Gustavo Pulitzer allietata dal rosa di affreschi e di cuscini serici, si alterna al candido incurvarsi degli stucchi di Duilio Torres, alle sagomature del grezzo intonaro voluto da Piero Chiesa per le sue vetrate, e alla intimità della sala che mobili e stoffe di Sartoris e Chessa fanno un ambiente ideale per il bianco e nero.
Le riproduzioni e i chiari nomi degli architetti dicono meglio d’ogni parola, come compiti tanto diversi siano stati risolti e corrisposti. Meglio certo non si poteva interpretare l’intenzione di chi aveva pensato il programma e ne aveva distribuito lo sviluppo. Nè meglio potevano essere dagli architetti scelti i collaboratori cui affidare particolari singoli di decorazione e d’arredo: dall’affresco della signora Matilde Piacentini Festa al mosaico di Guido Cadorin, dalle statue di Ercole Drei alle specchiere di Go. Ponti, dai tondi a mosaico di Zecchin ai dipinti di Augusto Cernigoi, dai peltri di Gio. Ponti ai vetri di Napoleone Martinuzzi soffiati nella fornace muranese di Paolo Venini. In tutto insomma è risultata tale una armonia e coerenza d’indirizzo verso quella evidenza costruttiva, quella nuda essenzialità di superfici e di masse, caratteristiche dei moderni intendimenti architettonici, da dimostrare quali mirabili applicazioni possano esser conseguite in avvenire con sviluppi maggiori, dalla fusione tentata tra l’architettura e le altre arti nella XVI Biennale veneziana.
Sia permesso a questo proposito rilevare, che pur senza l’intervento particolare di un qualche architetto, anche nelle sale consuete della mostra vennero seguiti criterii analoghi così di disposizione architettonica nell’ordine dei dipinti, come di ricerca di risorse prospettiche nel gioco delle aperture di comunicazione, così nel creare punti di riferimento con nicchie e vetrine, come nell’allietare l’ambiente con l’intervento di qualche mobile o oggetto d’arte. E non vanno quindi dimenticate le vetrate di Alberto Quentin su disegno di Gianni Vagnetti e Giulio Rosso, i vetri incisi di Guido Balsamo Stella che recano impresso il segno di una preziosità sempre più eletta, i merletti ove Giulio Rosso rinnova grazie alla perfezione tecnica di Jesurum, una tradizione che pareva immobile e definitiva, i cuscini di Amelia Chierini, i mobili di Luisa Lovarini, del Bega, dello Spicciani, del Da Ponte.
Ma non era intenzione di questa breve nota scendere all’esame dettagliato di quanto l’architettura e le arti decorative abbiano prodotto per e nella XVI Biennale, bensì di indicare brevemente i concetti ai quali tale partecipazione è stata ispirata, come affermazione del principio che una mostra delle arti figurative non è necessario escluda, perchè incompatibili, le arti astratte della squadra e del compasso. Ed il successo ottenuto sotto questo aspetto dalla Biennale, dimostrando la bontà e la possibilità di tali concetti, apre definitivamente la via a tentare sviluppi di essi assai maggiori. Non potrebbe così man mano esser l’architettura ricondotta al suo vero posto di regolatrice e maestra d’ogni arte? Ed insegnare nello stesso tempo al pubblico il posto e l’importanza nella casa, dell’opera d’arte? E infine nobilitare le Esposizioni in modo che esse siano non solo luoghi di mostra per le opere d’arte, ma opere d’arte complete per sè stesse?
ANTONIO MARAINI

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