FASCICOLO I - SETTEMBRE 1928
VALERIO MARIANI : Lo stile "pittoresco" nella Fontana di Trevi, con 17 illustrazioni

LO STILE “PITTORESCO”
NELLA FONTANA DI TREVI

Siamo d’accordo nel riconoscere che manca ancora una monografia esauriente ed acuta sulla maggiore fontana di Roma che sembra racchiudere in se stessa tutto il significato dell’arte barocca e costituisce indubbiamente la conclusione più splendida dello stile pittoresco in architettura.
Non si creda però che con un semplice articolo quale questo si propone di essere si tenti in qualche modo di colmare la mancanza d’uno studio completo: se mai ci si lusinga di riuscire a creare uno spunto per qualcosa di più organico che contenga finalmente anche uno spoglio esauriente di documenti e sopratutto un esame stilistico quale la grande opera di arte merita. Per ora, senza aver la pretesa di dire cose assolutamente nuove, ci accingiamo a raccogliere qui alcune notazioni sullo stile tutto particolare che si afferma nella Fontana di Trevi, nato, possiamo dire, all’ingrosso, nella seconda metà del cinquecento, ma splendidamente realizzato soltanto nel secolo XVII e nel secolo XVIII.
Che la Fontana di Trevi, appunto per le sue vicende architettoniche che ne variarono la struttura nello spazio di parecchi anni prima che fosse completata nel suo insieme, sorga da una concezione di “sintesi” la quale intenda di riunire scultura e architettura e con ciò di offrire uno spettacolo architettonico-scenografico del maggiore effetto, è stato affermato, nè c’è per questo bisogno di prove successive: si tratterà invece di dimostrare come questa sintesi avvenga e con quali sottili e delicati effetti dovuti alle maestria dell’architetto ma anche (in grandissima parte) alla abilità di scalpellini quasi ignoti i quali, continuando una tradizione essenzialmente romana e (per esser più precisi) berniniana si dettero a scolpire l’insieme della scogliera con particolari d’un verismo “paesistico” quale non si realizza in alcuna altra opera d’arte con tanta grandiosità.
Come accade quando ci si occupa d’un argomento tentando di raccogliere le maggiori documentazioni per trattarlo esaurientemente, allo studio stilistico della fontana s’è venuto aggiungendo il contributo di alcuni disegni della biblioteca di storia dell’arte a Berlino(1) i quali lumeggiano le singole fasi della costruzione con una efficacia tutta particolare chiarendoci anche il procedere della concezione barocca, quasi inconsciamente, verso quell’affermazione di stile pittoresco che poi fu il suo aspetto definitivo.
La composizione dell’insieme della fontana nasce dal concetto architettonico che ha le sue origini nel “bugnato” rustico e che, dal ’400 in poi ebbe la maggiore applicazione nei palazzi italiani; ma mentre il bugnato del rinascimento serviva a dare l’impressione della maggiore solidità nella parte inferiore dell’edificio, il quale tanto più acquistava varietà ed eleganza quanto più era curato nella parte superiore, la concezione del “bugnato” barocco applicato sopratutto dal Bernini nei suoi progetti e nelle sue costruzioni realizzate, spinge l’involontario naturalismo di questo elemento sempre più verso una cosciente imitazione di rocce naturali: ed ecco che lo stile “rustico” o, come disse Leon Battista Alberti “ronchioso” diviene elemento essenziale, non soltanto applicato nell’architettura per spezzare, variandole, le superfici regolari della costruzione, ma, immedesimandosi con la roccia assume il valore di basamento scenografico e pittoresco da cui le linee dell’architettura nascono, come improvvisate, più pure forse, perchè contrastanti con la rozzezza naturale della roccia stessa.
Questa concezione nasce senza dubbio dal gusto “pittoresco” del ’600 il quale non è se non uno sviluppo logico di quel sentimento della natura che dal Rinascimento in poi viene assumendo tanta importanza nell’arte italiana.
Leon Battista Alberti suggeriva d’applicare il bugnato “ronchioso” soltanto nelle fontane aggiungendovi, per maggiore varietà e grazia, vere conchiglie, madreperle, nicchi naturali: tutto ciò produceva uno stile verista che ben s’addiceva all’architettura del Rinascimento: e mentre il Brunellesco si arrestava ad una forma di bugnato puramente architettonico che trova la sua più grandiosa applicazione in Palazzo Pitti, l’Alberti s’indugiava a ricercare la suggestione delle materie pittoresche, accanto agli elementi architettonici.
Quando il cinquecento portò la sua impronta di maggiore pienezza a questa ricerca di architettura paesistica nelle grandi costruzioni di giardini, fontane, piccole ville campestri (in cui la natura stessa accampa pienamente i suoi diritti suggerendo con il variare dei piani e con il diverso aspetto del paesaggio le linee per l’architettura e gli spunti per le fontane) infiniti motivi pittoreschi si introdussero anche nell’architettura cittadina e sembrò che gli elementi naturali e veristi allontanati dall’architettura per opera dei grandi spiriti architettonici “puri” dal Rinascimento in qua, ritornassero a prendere, se non il posto che avevano nell’architettura gotica, certo un importanza non secondaria.
Non sarà perciò cosa strana, nel cinquecento, incontrarci con portali grandiosamente sbozzati nella roccia con figure a metà, eseguite in pieno rilievo e per il resto perdute in un effetto tipicamente “rustico”, come sarà cosa comune sorprendere elementi architettonici quasi unicamente basati sopra effetti veristi e pittorici(2).
Al seicento dobbiamo l’affermazione più libera e piena di questa concezione “pittoresca” e Bernini ne è il più alto rappresentante forse appunto perchè, nella sua natura meridionale, egli maturava le sue concezioni architettoniche in tutto il loro effetto scultoreo e pittoresco: anima complessa e fervidissima, egli doveva lasciar sgorgare la sua creazione solo nel momento della vera “ispirazione” e tutte le sue opere portano questa profonda impronta di genialità.
Nel Palazzo del Parlamento, sopratutto prima che moderne modificazioni nella parte inferiore togliessero al caratteristico basamento il suo aspetto primitivo, Bernini applicò in maniera cosciente e sottile l’effetto del bugnato roccioso in modo da creare davvero il “prototipo” di questo nuovissimo stilte: e secondo questo principio vennero da lui ideate anche le fontane che avevano importanza architettonica.
La fontana maggiore di Piazza Navona sorge sul basamento roccioso e si impernia tutta nella perfetta rispondenza di elementi plastici e pittoreschi di fronte alla rigidità architettonica dell’obelisco piantato nel centro.
Questa fontana (di cui Bernini eseguì diversi modelli in plastica(3)) servì poi di spunto a gran parte degli artisti barocchi per la creazione e lo sviluppo di idee pittoresche essenzialmente berniniane. Forse non si è abbastanza osservato quanta parte nell’effetto generale abbiano in questa fontana gli elementi pittoreschi che si potrebbero chiamare addirittura veristici. Ciascun fiume è presso la sua pianta simbolica e basta gettare uno sguardo, in una giornata favorevole, alle modellature del fico d’India seminascosto nella roccia o alle larghe foglie di un “cedro” colossale e seguire i colpi di scalpello che modellano la palma rigogliosa di travertino, per accorgerci come tutti questi elementi siano stati considerati da Bernini essenziali all’effetto della fontana (fig. 1).
Lo stesso concetto pittoresco si ritrova, mirabilmente attuato nella fontana detta “degli scogli” sulla piazza maggiore di Lanuvio (Civita Lavinia) (fig. 2), fino a poco tempo fa assegnata al Bernini e recentemente a Carlo Fontana (1675)(4). Tuttavia l’opera è cosi interamente berniniana che si oserebbe dubitare della più recente attribuzione. Il confronto con il basamento della fontana di piazza Navona si direbbe, infatti, decisivo.
Quando la Fontana di Trevi, dopo tanto variare di progetti e modificazioni di idee assunse il suo aspetto definitivo, per la parte inferiore che costituisce la culla donde nasce l’architettura, si immaginò un insieme roccioso naturalisticamente scolpito dal quale si elevarono le membrature dell’edificio. Al centro, attraverso un arco trionfale, sboccarono al primo piano, come sulla ribalta di un palcoscenico, i gruppi di figure, limitati tuttavia alla parte centrale e dominati dalla monumentale statua dell’Oceano scolpita dal Bracci.
Anche a prima vista la fontana di Trevi appare dunque composta di tre elementi fondamentali, riuniti in sintesi davvero mirabile: la scogliera: eredità berniniana, derivata dalle concezioni architettoniche e plastiche del grande maestro; l’architettura scenografica della fronte del palazzo, studiata in modo da sembrare più monumentale di quel che in realtà non sia (con la diminuzione progressiva delle finestre e un sapientissimo calcolo di chiaroscuro): la parte statuaria, movimentata, che commenta efficacemente la scogliera pittoresca popolandone le anfrattuosità.
Nella parte architettonica, il centro è rappresentato da un arco trionfale romano interpretato, con poche varianti, in modo da costituire il nodo di tutta la struttura della fronte: non si è abbastanza osservato questo particolare, eppure basta isolare l’arcata centrale dalle due ali laterali dell’edificio, trascurandone le sculture, per avere innanzi agli occhi la perfetta riproduzione di un arco imperiale in cui persino la disposizione dei bassorilievi e la linea del fastigio sull’iscrizione ripete in modo sorprendente la costruzione classica. Questo elemento (come altri efficaci accenni) costituisce quella vena di classicismo che si manifesta nella Fontana di Trevi accanto all’ultimo sboccio delle forme pittoresche barocche: noi assistiamo cioè ad un principio di neo-classicismo, proprio nell’opera che offre il più fantasioso insieme di elementi pittoreschi.
Attraverso la storia dei progetti per la Fontana di Trevi è facile intravedere una progressiva organicità di attuazione e sorprendere l’ampliarsi del sogno architettonico iniziato con qualche incertezza non intieramente dipendente da questioni materiali (5).
È del 1453 il prospetto che Nicolò V° pose nella piccola piazza di S. Maria in Trivio: esso con tre bocche quadrangolari versava l’acqua Vergine nuovamente recuperata dalla genialità di Leon Battista Alberti (fig. 3). Questo prospetto durò per molto tempo restaurato e di poco ampliato finchè al tempo d’Urbano VIII la mostra fu trasportata nell’attuale Piazza di Trevi e si pensò a far progettare dal Bernini una nuova sistemazione degna della grandiosità seicentesca: si cercò perfino di utilizzare i marmi di Capo di Bove (Cecilia Metella) ma la sistemazione non fu attuata.
In una stampa del 1665 l’acqua di Trevi sgorga in una ampia tazza ma nulla di architettonico appare nuovamente costruito.
Ai primi del ’700 e precisamente nel 1703 per l’occasione del rifacimento di tutta la condottura che per un terremoto era stata danneggiata, come narra il Valesio nel suo diario manoscritto, Clemente XI pensa di creare una nuova Fontana immaginando persino di far trasportare la colonna Antonina nel centro della vasca, al di sopra di una massa rocciosa, schiettamente berniniana come l’obelisco di Piazza Navona: questo progetto d’altronde assai goffo e irrealizzabile, ci appare in un disegno ben noto conservato nell’archivio Bracci (fig. 4).
A questo punto s’innesta la serie di progetti ai quali numerosi artisti prendono parte e che dal 1728 giungono fino al 1747 con poche e rare interruzioni. Nel luglio del 1728 si può determinare l’inizio di un concreto progetto per costruire la nuova fontana: fu Mons. Sardini che persuase il Papa a far costruire un prospetto monumentale alla fontana rimasta fino allora senza una concreta sistemazione: il nome del Benaglia, napoletano, appare per la prima volta in questi anni e a lui credo si debbano i primi progetti schiettamente barocchi dei quali resta viva traccia nei disegni di Berlino. Fu questo artista, come dice il Valesio “uomo ardito ma di poco o niun sapere nella sua arte” e dalla serie dei modelli per la fontana di Trevi davvero possiamo confermare le parole del diarista. Solo il primo di questi disegni (fig. 5) in cui la data scritta sulla fronte, appare del MDCC . . . . ma che potrebbe esser datato appunto in questo periodo, rivela una certa fantasia e una spigliatezza Berniniana che ci permette, di distaccarlo dall’opera del Benaglia e di immaginarlo disegnato da un altro artista chiamato prima di lui a tracciare il nuovo prospetto per la Fontana di Trevi: dal “lago” della fontana s’innalza infatti, una piccola scogliera a piramide su cui tritoni e divinità marine si raggruppano attorno alla figura dell’Oceano campeggiante sull’alto della scogliera: come fondale al gruppo, un portico, anch’esso di struttura berniniana, tipicamente alternato a coppie di colonne doriche, si apre innanzi ad un arioso fondo creato dallo squarcio della facciata del palazzo che ci fa immaginare quasi la creazione di una prospettiva nel cortile dell’edificio stesso.
Da questo spigliato e originale disegno, per quanto alcune parti di esso si mostrino ingenue, possiamo farci un’idea del concetto scenografico che dominò fino da questo primo periodo la sistemazione della fontana di Trevi.
Ed eccoci ai quattro disegni spettanti al progetto del Benaglia, di uno dei quali il Valesio ci lasciò la spiritosa descrizione, già pubblicata dal Luzî (6). La prima idea assai diversa da quella manifestata dai tre prospetti seguenti, fu di aprire un grande arcone nel centro del palazzo e di servirsene come un palcoscenico, o, meglio, come una di quelle prospettive da cortile così comuni al gusto barocco e delle quali tanti esempi rimangono.
Alcune parti di essa dovevano essere in scultura, altre in pittura e nell’insieme, dall’arcone scenografico doveva godersi una scena assai simile a quelle che si prospettavano nelle ville principesche, a sfondo di ninfei e di fontane.
Seguendo da un lato il disegno del Benaglia, dall’altro la prosa del Valesio noi possiamo ricostruire con esattezza questa barocca e pesante composizione che, per fortuna, i contemporanei non vollero realizzata: una scogliera con tre bocche d’acqua serviva di basamento alle figure principali: la Vergine, la religione, una Roma armata, perfino un liocorno, sporto a mezzo dall’acqua e, dietro la quinta di due quercie un frammento di campagna romana che, se appare di un gusto assai discutibile e di un effetto superficiale, tuttavia, quante cose ci insegna su quella tipica passione del “rovinismo” barocco!
Ecco un frammento di acquedotto, arricchito di piante e di fronde incolte, e lontano altre rovine proprio come dettava il concetto arcadico che d’un paesaggio facilmente faceva una artificiosa creazione retorico-pastorale (fig. 6).
Narra il Valesio, nella sua prosa squisitamente ironica, che si rivolge sopratutto, contro gli ideatori d’una composizione retorica: “nel luogo più elevato è posta a sedere la B. Vergine del Rosario e questa ne la ha voluta S. B., sotto a queste alla sinistra dei risguardanti vi è la Vergine Trivia, nata dalla testa del prelato, come Pallade da quella di Giove; questa con una mano accenna la Vergine SS.ma e con la sinistra l’acqua che esce da alcuni scogli; alla destra vi è una Roma armata, in piedi ed accanto ad essa, senza alcun proposito, una scrofa con alcuni porchetti e dalla banda della Vergine Trivia un alicorno”.
Contrastante con il “rovinismo” del disegno esaminato è la concezione puramente architettonica dei tre disegni legati da una simile composizione costruttiva (figg. 7-8-9): la parte centrale dell’edificio è in tutti e tre i disegni rappresentata da una forma borrominiana con predominio di rientranze e di curve basato su tre vasche che sostengono delle sculture sormontate dalla figura centrale.
Non sappiamo dire con esattezza se questi tre progetti fossero anteriori o venissero dopo il curioso disegno scenografico con lo sfondo pittoresco e la scogliera già sviluppata: troppi elementi ci mancano e anche ciò che sulla fontana di Trevi e sui disegni che ad essa si riferiscono è stato pubblicato, non ci offre documentazioni così precise da poterne tessere una storia infallibile.
Comunque sia il Benaglia non riuscì ad essere prescelto per il prospetto della Fontana di Trevi: a lui rimase soltanto, a quanto pare, l’esecuzione del fastigio superiore con le due figure sostenenti lo stemma papale: egli andò perdendo terreno mano a mano, sotto l’incalzare dei nuovi, più grandiosi e più originali prospetti. Nel 1730 morto Benedetto XIII ed eletto Clemente XII, molti architetti presentano i nuovi disegni e il martedì 16 settembre 1732 il Pontefice approvò il disegno definitivo di Nicola Salvi (7).
D’ora in poi potendo seguire punto per punto l’esecuzione del progetto del Salvi, è chiaro che, se pure ci furono delle modificazioni quasi sostanziali, nella Fontana di Trevi dominò sempre la figura del Salvi tra scultori e architetti che lo circondarono: egli che aveva dimostrato nei progetti precedentemente eseguiti per altre fabbriche e sopratutto in un geniale disegno per una “macchina” per fuochi artificiali eseguita nella Piazza di Spagna (fig. 10), un ingegno misurato e non privo di fantasia, nella Fontana di Trevi trovò le più geniali soluzioni appunto nel contemperamento del concetto barocco con le strutture più riposate e composte dell’architettura.
La parte che più c’interessa, nella realizzazione del Salvi, è costituita dalla scogliera: essa ci offre tutti gli elementi che noi consideriamo come tipici della concezione “pittoresca” dell’Architettura barocca: in questo elemento non è difficile rintracciare la più schietta eredità berniniana interpretata tuttavia con spirito settecentesco, arcadico e in molti punti addirittura “piranesiano”. Gli scultori che noi incontriamo in questo periodo sono Bartolomeo Pincellotti, Agostino Corsini, Bernardino Ludovisi, Francesco Queirolo, Giovan Battista Maini. A quest’ultimo spettano le statue dei Tritoni che si riversano fuori delle rocce e sembrano commentare con le loro schiene ricurve il moto dell’acqua scrosciante verso la vasca principale: questi Tritoni furono terminati nel 1738 e accanto al Maini, il Poddi e il Pincellotti ebbero una parte notevole: esiste un conto vistato da Nicola Salvi al 29 maggio del 1744 in cui è descritto il “carro” e cioè la grande conchiglia posta sotto la figura dell’Oceano scolpita, come è noto, da Pietro Bracci. Vale la pena di soffermarci alle frasi che descrivono l’enorme conchiglia, anche se il documento sia stato altre volte pubblicato e per primo dal Luzî che ci ha lasciato, nel suo importante e dimenticato articolo sulla fontana di Trevi il più prezioso insieme dei documenti sulla fontana stessa.
La descrizione, estremamente pittoresca, porta il titolo di “Misura del carro” e dice: “per la fattura e intaglio del conchiglione, che forma carro alla figura dell’Oceano, lavorato a guisa di Ostricha intarterita da ogni parte imitando il vero; e la medesima è consistente in una Ostricha doppia, cioè nel da Capo scherza slabrando il suo fine di contorno Iregolare con sua grossezza intarterita, come si dovesse aprire; dà piedi a detta restringe, e forma due gran Corni intarteriti; sopra uno di essi posa il piede la figura, e snodando per il di sotto scherzosa forma due orecchioni intarteriti per di dentro, e sopra terminando spumose, e rivolgendo verso l’Ostricha di sotto, con la medesima grossezza forma due grandi Occhi, che in mezzo alli medesimi dalli Tarteri de Corni ne nasce una bocca dove scaturirà l’acqua; poi segue la grossezza delle parti laterali di detti Occhi e con grandi scannelli, parimenti intarteriti, formano un’altra Ostricha, dove dovrà correre la gran bocca d’acqua et in mezzo ad essa, da i Tartari molti rilievati, formano due tazze per fare cadute, e bullori dell’acqua; e tutta la suddetta Macchina è lavorata con cavi fondi, e voti da ogni parte”.
L’originale descrizione, con la sua minuziosa tecnica, ci ricorda immediatamente quei conti e spese per mascherate o spettacoli teatrali barocchi: anche i termini tutti particolari di carro e macchina ci riportano subito a qualcosa di scenografico, come appunto lo stile di tutta la fontana ci appare strettamente legato alla scenografia.
In alcune ore del giorno, ma più di notte, quando la grande “macchina” di travertino è battuta dalla fredda luce lunare che ne fa risaltare l’aspetto fantastico, chi ha potuto respingere la sensazione di trovarsi di fronte ad un vero e proprio spettacolo?
La conchiglia è lavorata, come dice la descrizione, a guisa di “ostrica intartarita” da ogni parte imitando il vero ed è evidente che questo elemento è considerato da scultori e intagliatori in pietra con una attenzione degna d’una vera e propria scultura.
Al Poddi e al Pincellotti dovettero spettare gran parte di queste “imitazioni” di conchiglie, di rocce, di vegetazione e possiamo senza pericolo di andar lontani dal vero affermare addirittura che tutto il “pittoresco” della fontana spettò a questi umili scultori che portavano nella loro arte la tradizione del seicento berniniano.
Per tutto ciò gli elementi che in un primo tempo sembrarono secondari nella fontana di Trevi, divennero, se non principali, indubbiamente importantissimi: le rocce non si limitarono al basamento dell’edificio o delle statue ma si lanciarono verso le membrature architettoniche, se ne impadronirono: anzi, in parte le sostituirono. Non credo si incontri in altri esempi architettonici un connubio più stretto tra roccia e architettura; i due pilastri che limitano la fronte dell’edificio non poggiano sulle rocce ma sembrano ricavati dalla roccia stessa: quello di sinistra è interrotto bruscamente da un grosso blocco roccioso, in quello di destra assistiamo all’effetto d’un vero “terremoto artificiale” (fig. 11). Chiunque abbia ceduto alla suggestione d’un esame particolare della fontana di Trevi in questa parte scenografica, avrà infatti osservato che lo spigolo di destra, a forma di pilastro, a un certo punto si spezza: la base si frange e noi dobbiamo rintracciarla tra le anfrattuosità della roccia, presso le piante scolpite nel vivo travertino. A due passi da questo sconvolgimento dell’architettura sboccia un fico selvatico amorosamente scolpito nella pietra (fig. 12), e più in là uno stemma cardinalizio (fig.13), gettato con noncuranza in mezzo a queste rovine, sembra ancora sconvolto dal vento impetuoso che muove ogni elemento della scogliera facendo sembrare più grandiosa e fragorosa la caduta delle acque.
L’aspetto definitivo della fontana di Trevi fu dunque frutto del naturale sviluppo d’una concezione paesistica propria del seicento, rappresentata da pittori ed architetti in modo pieno e chiarissimo.
Bernini per l’architettura delle fontane e Salvator Rosa nella pittura di paesaggio si trovano ben vicini nell’esprimere l’ideale paesistico del loro secolo. E per quanto nella fontana di Trevi gli elementi architettonici si vadano rendendo classici e tranquilli, il predominio della scogliera è veramente tipico di questa visione che potremmo dire romantica.
Come non ricordare, di fronte allo sconvolto paesaggio della fontana di Trevi, la meravigliosa lettera di Salvator Rosa che reca l’impressione viva e tumultuosa della Cascata di Terni? È forse la stessa impressione che si tradusse nel capolavoro pittorico degli Uffizi (fig.14): e nella prosa di lui come nella pittura, lo stesso ideale “pittoresco” della fontana di Trevi, trova la sua espressione.
Natura anch’egli sconvolta, Salvator Rosa ama quel paesaggio scosceso e dinamico dove tutto è ravvivato dalla caduta delle acque: lo ama “atteso che è d’un misto così stravagante d’orrido e di domestico, di piano e di scosceso, che non si può desiderare di vantaggio per lo compiacimento dell’occhio......” La cascata gli sembra ‘‘cosa da far spiritare ogni cervello incontentabile per la sua orrida bellezza, per vedere un fiume che precipita da un monte di mezzo miglio di precipizio ed innalza la sua schiuma per altrettanto (8)”. E quando più tardi egli parla d’un altro paesaggio meno grandioso ma altrettanto selvatico ricorda “il selvaticume di quel paese tanto geniale alla nostra natura”. Anche volendo considerare la differenza che passa, a distanza di anni, dalla concezione paesistica di Salvator Rosa a quella del settecento, non si può fare a meno di riconoscere che questi appassionati ricercatori dell’orrido nel paesaggio sono tutti indubbiamente legati da un unico ideale.
Pannini (fig. 16) e Piranesi (fig. 17) aggiunsero in vario modo, a questa forma di romanticismo, la nota più intensa e significativa: la “poesia delle rovine” e questa passione resterà al fondo di tutta l’arte romantica europea.
Incredibile e non ancora studiata è la grande influenza che in letteratura ebbe questo concetto pittorico-architettonico. In ciò si giungerà alla creazione di veri paesaggi artificiosamente rovinati e la letteratura inglese (9) che fu la prima a dimostrare il suo entusiasmo per questa concezione tutta particolare della natura, arriverà perfino ad indicare la creazione di giardini, di fontane, di veri paesaggi in cui tutto è “composto” secondo il concetto pittoresco d’un Salvator Rosa o d’un Piranesi.
Questo l’ambiente di aspirazioni e di desiderii in cui sorse la grandiosa fontana di Trevi, ultima espressione del “pittoresco” nell’arte barocca.
Bernini, Salvator Rosa, Pannini, Piranesi: ecco i grandi ispiratori e fratelli spirituali dell’architetto che concepì la definitiva soluzione della fontana: nella ricerca degli effetti romantici delle rovine abbandonate e inselvatichite presso le rocce scenografiche, gli intagliatori di pietre seguirono le loro idee trasformando il primo piano della grande fontana romana in un vero e proprio paesaggio dove la nostra anima, assetata di sconvolte bellezze, può trovare, con inaudita evidenza, il proprio ideale trasformato in pietra ma non per questo morto.
VALERIO MARIANI

(1) Vive grazie vanno qui al prof. Enrst Steinmann illustre studioso e cortesissimo amico per averci procurato le fotografie dei bei disegni riferentesi alla Fontana di Trevi conservati nella biblioteca di Storia dell’Arte di Berlino. Uno di questi fogli non si lilustra in questo articolo perchè ci è apparso un disegno posteriore e di carattere accademico, forse di scuola, creato per esercitazioni, quando già la fontana era stata da tempo costruita. Gli altri hanno importanza davvero grandissima e, per quanto fossero noti, hanno pieno diritto ad essere divulgati per il vivo commento che creano alla storia della Fontana di Trevi.
(2) Stupendo esempio di questa applicazione di “bugnato” animato da figure umane di cariatidi, ci è offerto dalla “grotta” del “Jardin des Pins” a “Fontainebleu”, certo opera d’architetto italiano.
(3) Vedi BRINKMAN, Barok-Bozzetti. Vol. II, tavola 44, e seg.
(4) Vedi MASSIMO GUIDI, Notizie intorno all’arch. C. Fontana in Roma, 1925, pag. 458.
(5) Per tutta la storia documentaria della Fontana di Trevi è di ottimo sussidio il bellissimo articolo del LUZI, La Fontana di Trevi, e Nicola Salvi in Annali della Società degli Ingegneri ed Architetti, Roma, n. 3, pag. 137.
(6) Vedi LUZI, id. pag. 138 e segg.
(7) Vedi anche C. GRADARA, Pietro Bracci scultore, ecc. Utile sopratutto per la storia dei disegni appartenenti all’archivio Bracci, tav. XXVI-XXX, anno 1910 pag. 99. E ancora A. MUÑOZ, Roma barocca, Bestetti e Tumminelli, 1919. Per quel che riguarda i rapporti tra Bernini e i primi progetti della Fontana vedi il fondamentale articolo di E. VOSS, Die Berninische Fontäne in Jahrbuch für K. Preussishe inst., ecc. anno 1910, pag. 99 e FRASCHETTI, Il Bernini, la sua vita, ecc., Cap. XIV, pag. 128, ecc.
(8) Vedi Lettere di Salvator Rosa, Ediz. Sonzogno pag. 285. Vedi anche: LUCILLA MARIANI, Salvator Rosa a Roma (“Roma” anno IV n. 7) e: la seconda dimora di S. R. a Roma (anno VI n. 2).
(9) Per tutto lo sviluppo del “pittoresco” nel 700 vedi la recensione elegantissima di Mario Praz in La Cultura, 1928, pag. 279.
Tipico, a questo riguardo, li giardino di Mr. Tyers, per la sua villeggiatura di Denbies con viali ora comodi ora scabrosi e scoscesi rappresentanti simbolicamente i sentieri della vita umana e il capolavoro grottesco in questo campo, L’Eilophusikon del 1781, mirabile invenzione del De Loutherbourg: un panorama in carta pesta animato da giuochi di luce. A questo punto il paesaggio teatrale e quello “in natura” si sovrappongono e, bisogna pur dirlo, si guastano a vicenda.

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