FASCICOLO V - VI GENNAIO FEBBRAIO 1927
Notiziario
CONCORSO DELLA GALLERIA DEL PORTELLO
(GENOVA)

Per un tunnel fra piazza dal Portello e piazza della Zecca il Comune di Genova bandì un concorso fra gli artisti italiani.
Sono note le vicende di ordine edilizio di questa galleria. Essa è destinata a congiungere in modo veramente ampio la parte occidentale della città colla zona centrale traversando la naturale barriera di uno dei contrafforti che si avanzano verso mare e sostituendo efficacemente la monumentale via Garibaldi, già troppo congestionata. Ma le difficoltà gravi riguardano non l’inizio della galleria, ma bensì il suo sbocco dal lato orientale, ed intorno ad esse vestono ancora gravissime discussioni nei riguardi dei due grandi coefficienti della edilizia che sono la viabilità e la estetica.
Il progetto comunale infatti si propone di far sboccare il secondo tronco della galleria in piazza Corvetto per proseguire poi dal lato dei giardini dell’Acquasola verso la stazione di Brignole. A molti invece è sembrata inopportuna tale soluzione che male risponderebbe alle esigenze delle comunicazioni con piazza De Ferrari, e che turberebbe profondamente il carattere della bellissima piazza, e forse anche quello del giardini dell’Acquasola. Da qui una serie di controprogetti più o meno felici, per alcuni del quali l’ultimo tratto del tunnel dovrebbe esser deviato dietro al palazzo della Prefettura.
Senza entrare ora in tali dibattiti è doveroso segnalare la bella iniziativa del Comune di Genova, che sull’interessante tema del prospetto della galleria ha voluto chiamare a gara gli architetti con un pubblico concorso; quasi contemporaneo all’altro analogo bandito per la galleria di Monte Echia a Napoli, del quale demmo notizia in uno del numeri passati.
Il concorso ha avuto esito buono, se non proprio ottimo. Recentemente la commissione giudicatrice si è favorevolmente soffermata sul progetto dell’arch. Bruno Ferrati di Genova che è stato proclamato vincitore. Il secondo premio è stato attribuito all’arch. Zappa di Genova.
Il progetto Ferrati, molto in ambiente e molto pratico, esce da quella piatta volgarità che distingueva sino a poco tempo addietro la trattazione del soggetto. Ne riproduciamo qui la soluzione principale ed una non troppo felice variante, ambedue ravvivate da nicchie e da fontane a lato dell’arcone. Vogliamo sperare che nell’opera non si lesineranno i materiali nobili giacchè sarebbe doloroso vedere eseguite queste fronti in falso travertino e in stucco.
Il progetto Zappa è pure esso notevole. Si vede in esso che l’artista ha tenuto presente l’architettura cinquecentesca romana giacchè la parte superiore arieggia la michelangiolesca porta Pia. G.G.

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

CARLO ARU. - S. Pietro di Zuri. Reggio Emilia, Off. tip. reggiane, 1926.

Già altra volta ci siamo su questa Rivista occupati della bella chiesa di Zuri, che, per la costruzione del grande lago artificiale del Tirso, è stata recentemente demolita e ricostruita su di una prossima collina, a sopravvivenza del paese sepolto dalle acque. In una bella ed accurata monografia, eseguita a cura della Società delle Imprese idrauliche ed elettriche del Tirso a cui il detto rifacimento si deve, il Dott. Aru illustra il carattere storico-artistico della chiesa, e dà analitico resoconto delle opere eseguite e dei problemi di vario ordine che esse hanno incontrato.
Una provvida epigrafe inserita sulla facciata della chiesa ci dà la nozione sicura delle sue prime vicende: la data del 1291, il regno del giudice Mariano II d’Arborea, visconte. di Basso, l’opera di maestro Anselmo di Como. Così il suo concetto architettonico si riporta a quella corrente lombarda così diffusa in Sardegna, e che l’Autore opportunamente ricollega, non tanto ad avvenimenti politici, che troppo spesso son portati in campo dagli studiosi di cose d’Arte, quanto a quella enorme diffusione degli artefici isolati o delle maestranze lombarde, e specialmente comasche, che la Storia dell’Architettura ci documenta per tutte le regioni dell’Europa occidentale e per quasi tutti i periodi del Medio Evo.
Alla costruzione primitiva altre fasi di rifacimenti e di aggiunte seguirono, nel sec. XIV, nel 1504, nel 1830; sicchè, come quasi sempre avviene nei monumenti giunti fino a noi, la chiesa di S. Pietro di Zuri si è presentata come un palinsesto architettonico, rendendo più complesso lo studio, più ardua la ricomposizione.
Non è certo qui possibile seguire l’Aru nella sua chiara e precisa trattazione del significato dell’opera e dello sviluppo tecnico ed artistico dei lavori; ma ben può dirsi l’attuale monografia, illustrata da belle e nitide incisioni e da precisi rilievi, il modello di quello che dovrebbe essere la documentazione scientifica di ogni restauro di monumenti.
Potrà essere non privo d’interesse il segnalare un singolare quesito di restauro presentatosi all’Aru e che egli illustra come un “caso clinico” di quella difficile arte del restauratore.
Tutta la parte superiore della facciata di S. Pietro ha avuto, intorno alla fine del Cinquecento, a subire un raffazzonamento che vi ha introdotto una non bella finestra rettangolare. La tentazione a sostituirvi una finestra a rosone “in istile” era grande, ma l’Aru ha saputo resistervi; e ne ha avuto in premio di ritrovare, nell’anatomizzare il monumento, i resti informi di una finestra bifora che doveva essere collocata nel mezzo del prospetto al posto del presunto rosone. Ma anche la bifora appariva talmente incompleta, che arbitraria sarebbe riuscita ogni restituzione, e così la facciata è stata rielevata com’era, con la sua finestra rettangolare cinquecentesca, col segno di tutte le sue vicende; e le norme severe della minima aggiunta e della massima sincerità, ancora così lontane dall’essere bene accolte, hanno avuto piena, lodevolissima applicazione.
G. GIOVANNONI.

CH. DIEHL. Manuel d’Art byzantin, 2e edition revue et augmentée (To. Il) Paris, Picard. ed, 1925-1926 (frs. 60).

La seconda edizione di quest’opera costituisce, si può ben dire, un avvenimento, giacchè tutti conoscono la bontà di questo trattato che si deve al maggior conoscitore del mondo bizantino. La prima edizione, in un sol volume, apparve quindici anni addietro. Essa era da tempo esaurita e richiedeva degli aggiornamenti specie in rapporto dei molti studi fatti in questi ultimi anni. I lettori conoscono, per l’acuta recensione fattane dal Monneret de Villard in queste colonne, l’opera dello Strzygowski sull’Armenia, rivelatrice di strane e complesse forme architettoniche. Agli archeologi ed agli storici dell’Arte sono ben conosciuti il manuale del Dalton (sull’Arte bizantina), il trattato del Wulff (pure sull’arte bizantina) e le interessanti “Ricerche sulla iconografia dell’Evangelo” compiute dal Millet.
Questo per non citare altro che le opere massime. Non quindi la folla di contributi apparsi qua e là, p. es., sulla “Byzantinische Zeitschrift”. Si può dire anzi che l’A. non abbia fatto a tempo per tener conto di importantissimi studi o scoperte apparse mentre probabilmente l’opera era già stampata. Così la serie di affreschi rinvenuti a Dura sull’Eufrate che sono gli autentici precedenti orientali dell’arte bizantina, avendo già in germe le sue caratteristiche convenzioni (anche di queste fu data una notizia in una nota bibliografica del nostro periodico). Così pure le scoperte pittoriche del cemeterio dei “nuovi Giordani” a Roma esposte dallo Josi al Congresso di Parigi, avrebbero contribuito forse a variare i concetti di Ch. Diehl sul valore dei precedenti dell’arte romana. Attualmente si sarebbere aggiunte le magnifiche pitture del sec. III scoperte nell’ipogeo degli Aurelii sulla Via Labicana (Roma).
In quanto all’architettura l’importanza dell’apporto romano è taciuta del tutto di fronte agli Apporti Orientali. Pur dopo gli studi di Rivoira (che, diciamolo pure, hanno messo avanti una quantità di elementi non tutti trascurabili), pur dopo le argomentazioni del Wilpert (alcune veramente assennate) ed infine dopo i vecchi (ma sempre vivi e convincenti) contribuiti del Wichkoff, l’arte cristiana è specificata senz’altro “arte orientale” e i capitoli sulle forme architettoniche principiano con le allusioni di Eusebio agli edifici costantiniani di Gerusalemme, quelli sulle decorative con le testimonianze d’Asterio d’Amasea, quelli sulle composizioni monumentali con le descrizioni di S. Gregorio di Nyssa. E se per caso si allude a monumenti romani, come S. Costanza, o S. Maria Maggiore, o il battistero Laterano, preme di far subito rilevare che si tratta di palesi derivazioni orientali. Ora, intendiamoci bene. Sarebbe stolto discutere in questa sede lo spinoso problema dell’“Oriente a Roma”. Ma non può non osservarsi che gli studiosi orientalisti finiscono con l’essere partigiani, per lo meno.... quanto i romanisti. Essi non vogliono ammettere che una forma d’arte penetrata in una civiltà, pur conservando alcuni elementi originarii vi subisce tale rielaborazione da trasformarsi in tutt’altra cosa. Figuriamoci poi quando il crogiuolo sia quella civiltà romana dell’impero, in cui ribollono idee, forme, credenze così dell’Oriente come dell’Occidente sul robusto e revirescente tronco autoctono.
Ora gli storici del Cristianesimo vanno accertando la parte che ebbe la Chiesa di Roma nella formazione del dogma. Questa comunità ebbe senza dubbio origini orientali, ma si naturalizzò romana ed elaborò le sue idealogie in ambiente romano. Come dunque possiamo persuaderci che nessuna rappresentazione abbia corrisposto a questo fermento d’idee, che cioè l’iconografia sarebbe rimasta del tutto sterile se non avesse raccolto di peso gli apporti orientali? Senza dubbio gli orientalisti esagerano non meno (e forse più) dei romanisti. E la questione va impostata in altro senso: Quali cioè sono gli elementi orientali che contribuiscono alla formazione dell’arte romana. E, bisogna aggiungere, un nuovo quesito che si presenta spontaneo quando si noti la parentela dei monumenti elevati nell’Oriente in età romana: Quali sono gli elementi romani che hanno a loro volta contribuito alla formazione della successiva arte orientale.
Osiamo dire che se in Roma vi sono molte date da riesaminare, in Oriente non si scherza. Gli studi positivi del Ramsay, del Butler hanno tolto parecchi secoli da molte costruzioni siriache. Ciò non pertanto gli storici dell’arte continuano a citarle come prototipi. Anche il meraviglioso fregio di Mschatta è stato dal Lammens e dall’Hertzfeld, assolute competenze in materia, riferito al VII-VIII secolo, ma il D. dichiara di preferire la data del IV sec. proposta dallo Strygowski, ed infine conclude che, anche ammettendo l’attribuzione recenziore, “son importance demeure considerable”. Ma si, certo! Come indice delle correnti artistiche regionali. Non più come punto dl partenza. Così di molte costruzioni armene lo Strzygowski dà una cronologia ipotetica basandosi su tradizioni o su semplici accenni storici che possono alludere a costruzioni anteriori (è la stessa questione delle pretese basiliche longobarde dell’alta Italia che, stando ai documenti, avrebbero dovuto essere le originarie, mentre l’esame architettonico le dimostra totali ricostruzioni dell’età romanica).
Vi è quindi tutta una serie di riesami che .prima spettano all’archeologia, poi alla storia dell’Arte. Prima di essi, nessuno potrà dire d’aver conquistato la verità, nè tampoco potranno fondarsi delle teorie.
Queste poche osservazioni dell’umile sottoscritto nulla tolgono alla perspicuità dell’ opera di Ch. Dielh che, nel suo genere, può definirsi un capolavoro, tanta conoscenza di materiali vi è profusa, tanto studio di fònti e di critica, tanta acuta penetrazione degli ambienti così vivi di contrasti e di colore. Gli architetti, ai quali d’ordinario si rivolge questa rassegna, faranno bene ad avere con sè quest’opera. Giacchè vi è una così varia ed abbondante documentazione grafica da riuscite di gradissima utilità, trattandosi inoltre di quell’arte orientale che ha sempre qualche spunto originale da suggerire alla nostra insaziata fantasia.
CARLO CECCHELLI

COMMENTI E POLEMICHE

INTORNO AGLI SKYSCRAPERS.

Spesso nei fascicoli di questa Rivista, ed in particolare nei numeri dell’ultimo anno col bel progetto del Palanti pel così detto “Eternale”, abbiamo pubblicato disegni e notizie su grandi grattacieli ideati o costruiti; e pensiamo di non aver fatto cosa sgradita ai lettori. Queste grandi mole americane rappresentano infatti uno dei temi più interessanti e vivi nella moderna costruzione, sia nei riguardi tecnici, pei quali possono dirsi una mirabile conquista dello spazio ottenuta con una sapiente organizzazione della scienza e della meccanica pratica, sia in quelli architettonici, poichè sono forse questi gli unici edifici che abbiano saputo raggiungere decisamente uno stile; specialmente nei più recenti esempi, in cui la fabbrica, spogliatasi ormai della inadeguata ed inorganica veste di ordini e di cornici classiche, si presenta con semplici linee e trae dalle grandi masse i suoi effetti.
Ma ormai la questione dei grattacieli si avvia anche tra noi a quesiti contingenti, perchè la moda (artificiosa come tutte le mode) tende dalle città americane, che fanno quasi una gara di fabbriche sempre più alte, ad estendersi alle nostre vecchie città europee; non tanto perchè se ne senta il bisogno, ma perchè spesso da noi, un po’ provincialescamente, si guarda oltre oceano per avere la nota della “strenuous life”. E su questa possibilità d’importazione sarà forse opportuno esprimere fin d’ora qualche pensiero.
S’incontreranno vivacemente in tali quesiti i due eterni argomenti di discussione sulla nostra Architettura: cioè la necessità da un lato di trovare espressioni adatte ai moderni temi, ai tipi di costruzione, alle esigenze attuali, e dall’altro il rispetto al carattere dato dall’ambiente architettonico ed edilizio, pel quale nelle vecchie città il passato diventa energia presente nello stabilire rapporti e forme e misure. E, senza fin d’ora voler concludere con una formula assoluta d’intolleranza, credo che occorrerà pensarci bene prima di ammettere che tra le cupole romane od i palazzi di Firenze o di Venezia si allunghi la grande massa invadente degli edifici a 50 piani.
Ma l’osservazione prima e fondamentale che mi sembra opportuno riassumere per sfatare un pregiudizio diffuso è questa: Lo skyscraper non è un monumento e non va considerato coi criteri dell’architettura astratta, come una piramide od una cupola od un arco trionfale, ma rientra nella categoria dell’architettura pratica, modesta e spicciola nella realizzazione dei suoi scopi edilizi e finanziari, anche quando si svolge in masse imponenti. Ed il suo aspetto infatti dà appunto, logicamente, tale impressione. Forse a chi vede soltanto i disegni, in cui la sapiente grafica architettonica (fatta spesso per falsare anzichè per rendere onestamente il vero) attenua le finestre o le confonde con toni chiari della parete, l’edificio sembra trasformato in una grande e massiccia torre babilonense, ovvero in una selva di pilastri verticali che si perdono nelle nuvole; ma la realtà riporta a lor posto i valori dei pieni e dei vuoti, cancella ogni elemento deeorativo, e restituisce la massa al tipo di un “alveare” costituito da tante cellule geometriche tutte uguali tra di loro.
Orbene in questo campo dell’architettura pratica, la prima revisione deve essere quella delle ragioni concrete a cui l’opera risponde. Ed allora che ne risulta? Che tali ragioni rappresentano non un progresso, ma un regresso nella vita civile, un assurdo più ancora che un errore nei riguardi dell’igiene, della viabilltà cittadina, dell’economia edilizia. Gli skyscrapers rendono infatti pessime le condizioni di illuminazione degli edifici prossimi e di insolazione delle vie; negli ambienti interni, per la serrata utilizzazinoe dello spazio e la esclusione dei cortili, rendono nulla la ventilazione naturale; col concentrare forti nuclei di popolazione e di traffico congestionano sempre più il movimento delle strade e nei quartieri; costano infine enormemente, cioè almeno 5 o 6 volte al mc. in più della costruzione ordinaria, perchè sulle loro gambe d’acciaio si accumula il peso non necessario, della grande altezza, e pertanto recano un inutile sperpero di denaro....
L’adozione degli skyscrapers nel Nord-America, per un fatto edilizio non dissimile, pur in ben differenti proporzioni, a quello che vide sorgere le insulae nell’antica Roma, deriva, a veder bene, da quei grandi errori edilizi che son stati i piani regolatori, tanto inferiori agli europei, delle città americane. Se Chicago ha veduto sorgere, col Tacoma Building ed il tempio massonico, i primi skyscrapers, questi hanno preso poi cittadinanza specialmente in New York nei quartieri costituenti la City: quartieri stretti tra l’Hudson, l’East River ed il mare, mal serviti da vie tutte regolarmente uguali e quindi tutte insufficienti; sicchè ogni sviluppo è dovuto avvenire in altezza anzichè in superficie. Poi nelle altre città americane è avvenuta la imitazione, e l’elemento economico è intervenuto a sospingerlo, non tanto pel ripetersi di analoghe condizioni edilizie, quanto pel determinarsi di questo paradosso: La tolleranza dei regolamenti edilizi per le case altissime, espressione di un individualismo esagerato e dannoso, ha fatto crescere a dismisura il valore delle aree fabbricative, cioè il valore potenziale che è in diretto rapporto con la capacità di reddito ed ha così creato la convenienza artificiosa.
Possono dunque definirsi gli skyscrapers come una interessantissima ed ingegnosissima anomalia patologica della edilizia moderna, che certo dovrà essere sorpassata e posta tra gli errori inutili quando i mezzi di comunicazione avranno compiuto li loro ciclo di sviluppo e consentiranno un rapido decentramento dei nuclei cittadini verso la campagna. Ce n’è abbastanza, senza entrare nel dibattito tra la meraviglia che destano e la disarmonia che possono creare, per dichiararli ospiti “non desiderabili”.

Queste considerazioni dunque si oppongono al preconcetto, troppo frequentemente invalso, che tutto ciò che si produce nella moderna tecnica edilizia sia razionale ed opportuno e debba accettarsi come il portato di una civiltà dominante al cui progresso è vano opporsi; preconcetto che fa il contrapposto all’altro che vede tutto bello in quello che ha prodotto il passato....
La conclusione pratica è che in ogni caso, se mai, la moda e l’interesse dovessero condurre queste nuove espressioni edilizie - quasi cristallizzazioni geometriche di esigenze mal intese - nelle vecchie città europee, occorrerebbe tenerle nettamente distinte dall’ambiente edilizio ivi già costituito.
Un quartiere di sky-scrapers può essere assurdo praticamente, ma ha, come si è detto, il suo stile. Quando questo si inserisce nello stile di una città, nel suo sottile profilo frastagliato fatto di piccole unità e di grandi monumenti, la disarmonia è evidente ed insanabile.
Nel numero dl Aprile 1926 del Wasmusth’s Monathefte, è un interessante resoconto di un concorso bandito a Colonia per un enorme grattanuvole da costruirsi allo sbocco del ponte sul Reno in prossimità delle ardite guglie del duomo; ed il tema, arduo, non ha scoraggiato i concorrenti che sono circa 450! Ma i bozzetti prospettici dei progetti migliori mostrano il contrasto insanabile tra la linea frastagliata della vecchia città culminante nelle cuspidi sottili e la massa parallelepipeda, traforata con regolarità geometrica da finestre dei piani equidistanti, e provano così ancora una volta la necessità dello sdoppiamento tra ambiente nuovo ed ambiente vecchio.
Gli unici bozzetti che siano tollerabili, almeno nel disegno compiacente che rende le masse piene, sono quelli in cui con una specie di mimetismo irrazionale si simulano schemi che rientrano nelle nostre concezioni acquisite: una torre, un insieme di costruzioni addossate che sembrano accavallate su di una collina....
Pregiudizi? Certo. Ma quando si esca dagli elementi fisiologici del colore e del suono, di pregiudizi è fatto tutto il nostro senso estetico; e l’armonia nelle proporzioni ne è la norma principale, ed i rapporti col significato ne rappresentano la principale sua relazione con la vita reale.
Nessuno può dirci come questi pregiudizi si orienteranno, come si comporranno nell’avvenire. Intanto è elementare dovere far prevalere il concetto dell’ambiente, cioè le ragioni di un’architettura edilizia già costittuita a quelle dell’architettura individuale che forma l’esterno secondo lo schema interno, logico o no, dell’edificio. A ciascuno dei due concetti il proprio diverso campo. G.G.

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