FASCICOLO III-IV NOVEMBRE-DICEMBRE 1927
CARLO CECCHELLI: Profili di giovani architetti: A. Limongelli, con 22 illustrazioni
Credo di poter affermare con tutta sincerità che, per ciò che si riferisce alla infiltrazione degli stili architettonici stranieri, una buona parte di colpa se la debbano accollare i critici d’arte, questa genìa di padreterni che si esalta a tutto ciò che è esotico e che spesso (fatte le debite eccezioni) si chiude in una maschera d’indifferenza davanti alle opere della nostra sana tradizione.
Un giorno, non so quel critico si rivolse all’artista che presento e lo invitò a casa sua per fargli vedere certe novità di libri d’architettura straniera. Limongelli rispose: - Grazie, preferisco andare al Colosseo.
La risposta è l’uomo. Giacchè Limongelli ha preferito sempre di vedere coi proprî occhi gli esempi della nostra grande architettura e non di studiarli attraverso alle pagine dei libri o delle riviste straniere, dove le applicazioni continue che se ne fanno costituiscono per noi, senza che ce ne accorgiamo, altrettanti cavalli di ritorno.
Io mi ricordo di avere esaminato con molto interesse il taccuino di un architetto modernissimo (e tedesco per giunta). Ebbene: egli vi aveva disegnato con esasperante accademismo molte architetture dell’Italia antica, segnandovi le misure ed aggiungendovi alquante righe di considerazioni estetiche. Pensai allora che troppi nostri artisti facevano inconsciamente l’inverso, mentre per arrivare al nuovo bisogna che l’antico, esaminato con sottigliezza di analisi e con passione, ci scuopra le leggi dell’armonia e della convenienza.
Quest’analisi dell’antico non è certamente da tutti. Gli spiriti deboli cadono nel limbo delle imitazioni, cioè nella oziosa produzione stilistica. Gli acuti, vale a dire quelli che hanno impulsi creativi, interpretano ed elaborano in maniera tutta originale. Così gli architetti del Rinascimento che idolatrano l’arte romana e che vogliono farne l’applicazione ai nuovi temi della Chiesa e del palazzo, debbono necessariamente astrarsi dagli insegnamenti ricevuti; ed ecco che se ne sviluppano creazioni assolutamente nuove, ritmi nuovi in cui non appaiono i prototipi se non forse in certi particolari delle piante e in certi segmenti decorativi. Usciti dal medio-evo questi uomini guardano con altri occhi. E una prova se ne potrebbe trarre dall’arco trionfale di Alfonso d’Aragona sulla fronte del maschio angioino in Napoli. Che di più esaurito del tema dell’arco trionfale? Ma l’artista doveva applicarlo alla fronte di un castello. Ed ecco che ne scaturisce un settore alto di bassirilievi, quale nessun Romano si sarebbe mai sognato di concepire.
E il solenne motivo di arche all’esterno del tempio Malatestiano? Può sul serio affermarsi che l’esempio del mausoleo di Teodorico sia stato riprodotto tal quale, o che abbia soltanto servito da spunto felicissimo?
Se veniamo ai barocchi, dobbiamo riconoscere che anch’essi fioriscono sul tronco dell’arte classica. Tuttavia preferiscono le masse in movimento di quell’architettura romana che gli accademici di ieri solevan chiamare “della decadenza”. Gl’insegnamenti dell’età traianea ed adrianea hanno parlato al loro spirito più della compassata architettura dorica e ionica. E quando Bernini mette colonnati dorici al portico della piazza di S. Pietro, li applica tuttavia nel giro di una ovale e li ravviva in alto con movimentati cornicioni e con dinamiche statue.
Se gli stranieri son giunti a risultati apprezzabili, e non di rado a manifestazioni squisite, lo debbono in primo luogo allo studio diretto della nostra vecchia architettura e poi allo studio, pur esso diretto della loro arte tradizionale (l’architettura di masse tedesca è schiettamente urgermanisch) e delle manifestazioni splendide dei popoli dell’Oriente antico.
Invece noi raccogliamo le loro briciole e ci disputiamo le risciacquature. I “maschietti” si buttano a corpo morto su queste ricette facili per fare il nuovo e per essere autorizzati a proclamarsi infastiditi di tutto il vecchiume.
Ma Limongelli reagisce e torna al Colosseo.... con occhi suoi, del XX secolo.

Nessuno s’era accorto di Limongelli, quando il suo nome emerse in quel concorso tanto grande e di esito così infelice che fu bandito per il Monumento al Fante.
Fra gli artisti prescelti si poteva a colpo d’occhio intuire che la solidità di Limongelli, (si ricordi quel suo heroon circolare) avrebbe in un secondo tempo, guadagnato la maggioranza dei giudici. Ma il secondo concorso andò a monte e Limongelli che (come quasi tutti i veri artisti) non ha le grazie della Fortuna, perdette l’occasione di dare alla sua Patria una creazione robusta. Intanto l’artista era entrato all’istituto delle Case Popolari ed ivi creò bei progetti di fabbricati specie per il Quartiere Flaminio. In quei grandi cornicioni terminali si direbbe di rivedere i coronamenti dei templi classici. Sopratutto l’artista possiede un sentimento che chiamerei: dorico.
Il “dorico” Limongelli profila sulla nudità della parete una liscia membratura architettonica ed applica lo scudo di un’arma come se fosse un mascherone decorativo. In questo arcaismo l’artista nulla concede ai gusti del tempo, ma segue la sua natura che non vuol perdersi nelle finezze, ma concepisce sub specie aeternitatis.
Uscito dall’Istituto predetto, Limongelli entrò nella sezione “Architettura” annessa all’ufficio Piano Regolatore del Governatorato di Roma. Era questa sezione in un periodo quanto mai fervido. Il rinnovamento imposto dalla rigenerata anima nazionale faceva si che i problemi relativi alla Capitale e che Mussolini scultoreamente definì “della necessità e della grandezza”, venissero senz’altro investiti. Forse possono attribuirsi a questo periodo i difetti della improvvisazione, ma indubbiamente vi furono passione sincera e largo respiro. Dimodochè, se molte cose dovranno col tempo essere modificate e molti progetti rimarranno sulla carta (anche per le divergenti vedute delle amministrazioni che si succedono) pur tuttavia molte altre cose resteranno e passeranno al vaglio dell’attuazione pratica.

In un certo momento, la possibilità di vedere un altro aspetto del mondo seduce il nostro artista che, chiesto un lungo permesso, corre in Egitto. Le magnificenze di quell’architettura orientale di masse hanno su di lui un fascino singolare. Egli sente attraverso le architetture il mistero delle millenarie civiltà. E disegna con pienezza di spirito la Sfinge, le Piramidi, i templi delle roccie lungo il Nilo.
“Ho disegnato quattro volte la Sfinge, - mi diceva - non riuscivo a cogliere la vera espressione. Poi ci sono arrivato. E ho fatto cosa che mi spaventa. Ti dico che mi spaventa. Ho dovuto rivoltarla contro il muro. Di certo quel colosso ha un’anima”.
La malìa dell’Oriente non impedisce peraltro a Limongelli di ripensare con nostalgia profonda all’equilibrio dell’arte romana. Perciò fugge dai giardini d’Armida e torna in Italia. Ed eccolo di nuovo a tu per tu con il Colosseo, con gli archi e le colonne, con gli alti ruderi di palazzi, di terme e di sepolcri nel sereno incanto del cielo di Roma.
Sono di questa fase più recente alcuni studi per un tipo di grattacielo italiano. Il tema del grattacielo parrebbe il più repellente alla tradizione. Limongelli vi dimostra il contrario. E trae dalle torri delle mura romane e dal fantastico motivo del Septizonium lo spunto iniziale per quest’architettura delle masse proiettate in alto. Potrei diffondermi in altre produzioni di Alessandro Limongelli, ma il lettore di questa Rassegna già le conosce poichè furono illustrate in diverse occasioni. Ed altro spero che venga riprodotto in avvenire, giacchè Limongelli è abbastanza giovane per creare il suo capolavoro.
Qui mi basti di aver presentato Limongelli come una tendenza. Tendenza ad affrancarsi dalle pagine delle varie Bauformen e a rivedere la sostanza tradizionale dell’architettura nostra.
È quello che tentano pochi altri giovani di valore che saranno presentati (o ripresentati) nelle pagine di questo periodico.
CARLO CECCHELLI.

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