FASCICOLO I-II SETTEMBRE-OTTOBRE 1927
ROBERTO PAPINI: L'Architettura Europea e il concorso di Ginevra, con 68 illustrazioni
Se il concorso bandito dalla Società delle Nazioni per il suo palazzo futuro a Ginevra s'è risolto, in fondo, in una delusione, la colpa non è tutta dell'architettura contemporanea. I1 primo responsabile è proprio il bando del concorso.
Ho già dato altrove la statistica dell'imponente mole di lavoro compiuta dai concorrenti: 377 progetti, 6000 e più tavole d'architettura, 1000 e più architetti partecipanti di 42 nazioni, oltre 20 milioni di lire di spesa totale. E tutto questo per un resultato che scontenta gli artisti e il pubblico e mette in imbarazzo la Società delle Nazioni.
Ciò si poteva e si doveva evitare. Bastava infatti che si prevedesse il concorso in due gradi: in un primo grado si richiedesse un progetto di massima che gli architetti avrebbero compiuto con meno di tormento e la giuria avrebbe giudicato con meno di fatica e più di certezza; in un secondo grado si chiamassero solo i migliori concorrenti a sviluppare e a precisare la loro prima concezione. Invece il bando del concorso era minuziosissimo e pedantissimo, costringeva i concorrenti ad un lavoro improbo di pazienza per distribuire in pianta e in elevazione gli innumerevoli locali richiesti, finiva per soffocare la concezione artistica nelle strettezze della necessità bruta e della spesa. Si presentava inoltre ai concorrenti una preoccupazione assillante, data dalla composizione della giuria, nella quale accanto ad architetti notissimi per tendenze ultramoderniste erano architetti altrettanto noti per predilezioni ultrapassatiste. Come regolarsi? La certezza d'un concorso di secondo grado e la possibilità di parteciparvi avrebbero dato maggior coraggio e maggior libertà d'espressione ai concorrenti, non costringendoli a quelle soluzioni di compromesso che son capaci di contentare vecchi e nuovi, e che sono le peggiori in linea di sincerità e d'arte.
La colpa è dunque prima di tutto del bando di concorso. Chi poi conosce lo stato presente dell'architettura mondiale sa che una crisi grave è in pieno sviluppo. Crisi salutare sotto ogni aspetto, crisi profonda e benefica perchè da almeno cento anni non si vedeva un più vasto e più cosciente sforzo di rinnovamento. Ma appunto perchè lo stadio di elaborazione è in atto, l'architettura mondiale, che non ha ancora eliminato tutto il morto del passato e non ha ancora assimilato tutto il vivo del presente, s'è trovata nel momento peggiore per tentare la risoluzione d'un problema monumentale qual'era quello proposto dalla Società delle Nazioni; e che il palazzo richiesto dovesse esser monumentale era non solo chiaramente ordinato dal bando ma consigliato da evidenti ragioni di luogo, di destinazione e di decoro.
Sotto questo rapporto, il concorso è riuscito a dare un'idea quanto più è possibile fedele e dimostrativa dello stato presente dell'architettura. Vi si delineano infatti tre tendenze principali. La prima è quella che non si dovrebbe neppure chiamare tendenza tanto è stracca e moribonda; è composta dai relitti dei principi accademici ottocenteschi secondo i quali l'architettura è un rivestimento qualsiasi della costruzione, un pomposo apparato composto di reminiscenze stilistiche d'ogni epoca e d'ogni paese, una pura esercitazione fantastica che non obbedisce ad alcuna logica rispondenza fra interno ed esterno, fra pratica ed estetica. La seconda, proclamata come razionalista, è in piena antitesi con la prima: tutto è subordinato alla logica delle strutture e delle destinazioni, qualunque richiamo agli stili del passato è bandito come infetto, qualunque concessione al decorativo ed all'ornamentale è considerata come una debolezza indegna dell'arte, ridotta perciò a pura ricerca di ritmica, a pretta esercitazione di geometria dei solidi. La terza è la tendenza intermedia: dei tempi moderni si accettano la purificazione dal superfluo, gli spunti ritmici nuovi dati dai metodi attuali di costruzione, l'obbedienza alle necessità della funzione, senza però rinunciare all'ispirazione che gli stili classici possono ancora dare, purchè non sieno copiati ma rivissuti, non considerati cioè come forme immutabili e governate da canoni fissi, ma interpretati secondo il loro spirito suscettibile di nuovi ed inattesi sviluppi.
È utile dire che la prima e la seconda tendenza hanno un vizio d'origine che le condanna a priori: la prima perchè il principio ottocentesco dell'eclettismo a cui s informa tuttora non è un principio artistico ma soltanto culturale e accademico; la seconda perchè, infatuata di razionalismo, s'irrigidisce in un'intransigenza che si risolve essa pure in una posizione programmatica da accademia e resta viva soltanto in quanto è ricerca di nuove proporzioni, affermazione di nuovi principî. La preponderanza che quelle tendenze hanno nel concorso ginevrino rispetto alla terza si spiega facilmente col fatto che esse richiedono il minimo sforzo, la prima perchè prende a prestito e non rende, la seconda perchè si ferma troppo presto e si contenta di poco. La terza invece richiede il massimo sforzo e il più acuto tormento poichè nè si tratta di esercitazioni accademiche nè di semplici calcoli ingegnereschi, ma di elaborazione, d'esercizio d'una fantasia disciplinata, di ricerca di nuove proporzioni insieme con nuovi ornamenti, in una parola di vera e propria architettura.
Ciò premesso, si vedrà che la Giuria nel premiare quei ventisette progetti che qui si riproducono nelle sole fotografie che ci è stato possibile raccogliere, è riuscita a dare un'idea sufficientemente rappresentativa delle tre tendenze di cui dianzi scrivevo. Chi ha visto la mostra di Ginevra può assicurare che gravi ingiustizie non sono state commesse e che la scelta è stata buona, malgrado il vizio d'origine nella composizione della Giuria e le inevitabili deviazioni politiche del giudizio. Dei progetti non premiati, come del resto di quelli premiati, molti avevano buone idee, soluzioni parziali felici, genialità di trovate, ma nessuno veramente eccelleva per tali qualità da imporsi al riconoscimento d'una superiorità assoluta. Se si fosse potuto fare un concorso di secondo grado, idee, soluzioni e trovate dei singoli avrebbero potuto essere accettate e fuse in un unico concepimento.
Comunque il concorso sia riuscito, è utile, per la sua stessa imponenza, tentare un esame non solo delle varie tendenze, ma meglio ancora dei singoli gruppi nazionali e dei loro caratteri. Un simile esame è possibile a chi abbia studiato attentamente la mostra dei progetti, poichè molti di essi, anche non premiati e quindi anonimi, erano facilmente attribuibili alle varie nazionalità dei loro autori non soltanto per l'evidenza di certi caratteri stilistici, ma anche per il modo com'erano disegnati e presentati.
Certo i due gruppi maggiori per numero erano quelli della Francia e della Germania, grazie all'alto grado di organizzazione e di spirito di cameratismo nella concordia degli sforzi che queste due nazioni hanno raggiunto con l'efficace e saggio aiuto dei rispettivi governi e delle associazioni professionali.
Si poteva però chiaramente notare come Francia e Germania sieno su due piani assai diversi rispetto al progresso dell'architettura. C'è chi ha notato come gli architetti francesi abbiano la tendenza a ripetere quella specie di stile che è caratteristico dei Grands Magasins e come i tedeschi si orientino piuttosto verso lo stile delle fabbriche industriali. Ciò è in gran parte vero e rappresenta l'espressione più genuina di quello spirito di razza che è insopprimibile.
I progetti francesi migliori mancano generalmente di una visione organica ed unitaria perchè la concezione della massa, dato che ci sia, è frastagliata, spezzata dalla ricerca del particolare e dall'eccesso dell'ornamento. Data questa mancanza d'una visione totale derivano curiose e soprendenti incongruenze: una cupola a calotta accanto ad una cupola a gradoni nel progetto Lefèvre. Solenni colonnati accanto a banalità da case popolari nel progetto Neuot, reminiscenze del Cinquecento veneto accanto a volgarità da albergo balneare nel progetto Patouillard-Demoriane, imponenti stilobati scolpiti d'ispirazione ellenistica accanto a bou-windows da villinetto di provincia nel progetto Guidetti, casellari di finestre accanto a falsa pompa da padiglione d'esposizione nel progetto Boileau; elementi cioè discordanti fra loro, visti ognuno per sè e giustapposti piuttosto che connessi. Se poi si vanno ad esaminare i particolari ornamentali si è stupiti di trovarli banali e pletorici, appiccicati alla massa muraria e non fusi con essa. Vediamo in tutti una preoccupazione della preziosità, della grazia, della moda che tolgono loro qualunque aderenza seria all'architettura e dànno un tono frivolo a tutto l'insieme.
In realtà l'architettura francese, salvo quella di Tony Garnier, dei Perret e di pochissimi altri, è ancora irretita nelle formule ottocentesche e non ha sentito tutto ciò che c'è di nuovo e di sano nei tempi moderni. Manca quindi di semplicità e di larghezza, di logica e di sobrietà. Si preoccupa di piacere alla generalità piuttosto che osare di far cose ardite. E tutti sanno che con questo metodo si vegeta e non si vive.
Quanto ai tedeschi bisogna dire che nel concorso di Ginevra si sono mostrati inferiori alla loro fama. Non che nei loro progetti, premiati o non premiati, faccian difetto quell'ardire e quella concezione unitaria che mancano ai francesi. Vi sono anzi vigorose affermazioni che debbono essere attentamente considerate. Ma l'architettura tedesca soffre di una crisi di degenerazione che può esserle nefasta.
Quando si parla d'architettura moderna non è possibile dimenticare la parte preponderante che hanno avuto l'Austria e la Germania nel sorgere e nell'affermarsi della nuova estetica. I tedeschi, da Otto Wagner in poi, hanno capito prima di tutti la necessità della reazione all'Ottocento, del ritorno alla logica struttiva, dell'abbandono d'ogni principio d'eclettismo accademico, della rinuncia all'ornamento inutile; la necessità, vale a dire, di fare architettura di masse e di strutture, non di apparati e di fronzoli.
Ma per giungere a tali risultati gli architetti tedeschi hanno voluto e dovuto ragionare, sorvegliare con la logica le proprie ispirazioni e frenarle e costringerle in schemi che sono apparsi spesso rigidi e duri, un po' per la natura stessa della razza e un po' per lo sforzo tenace di voler rinnovare l'architettura dalle basi e renderle la necessaria aderenza alla costruzione, che è quanto dire la capacità di vita e di sviluppo. I risultati raggiunti erano tali da potersi dire superata la prima fase preparatoria ed iniziata quella più conclusiva in cui le forme si maturano, le proporzioni si assestano, gli ornamenti si determinano. Bastava fermarsi, riflettere, sviluppare.
Quando però il tedesco ha cominciato a ragionare chi lo ferma più? Ormai il meccanismo logico era messo in movimento, come il famoso torchio al tempo dell'inflazione della carta moneta; era irresistibile lasciarlo andare fino alle ultime conseguenze, a rischio di stritolare l'arte negli ingranaggi. Con tenacia teutonica, con intransigenza di ragionamento, l'architettura tedesca è oggi ridotta allo scheletro e ha perduto per molti architetti qualunque carattere di monumentalità, sacrificato alla teorica preconcetta.
Si vedono assurdi di questo genere: che mentre le fabbriche industriali, le stazioni ferroviarie, i silos, i ponti, le rimesse per aerei assumono un aspetto sempre più grandioso e monumentale, appunto perchè nato spontaneamente dalla logica costruttiva in edifici per dimensione e destinazione imponenti, si vogliono costringere i palazzi a perdere ogni monumentalità per avvicinarli alla nudità scheletrica e schematica delle fabbriche, quasi che con quelle potessero avere qualcosa in comune, differentissimi come sono per la loro origine e funzione. Scherzi che succedono a chi ragiona troppo e, creata una teoria, intende di piegare a quella ogni cosa, commettendo proprio un errore di quella logica in nome della quale pretende ragionare.
È avvenuto così che la Germania, concorrente più temibile d'ogni altra nazione appunto perchè più avanzata e matura nel progresso dell'architettura, s'è posta da sè stessa in una condizione d'inferiorità e ha voluto di proposito rinunciare ai suoi mezzi migliori per correr dietro alle fisime del razionalismo ad oltranza, laddove invece occorrevano le sue più sperimentate qualità.
Non si dirà infatti che sia rappresentativo della Germania dei grandi architetti da Otto Wagner a Wilhelm Kreis quel progetto Fahrenkamp e Deneke che è concepito disorganicamente e disegnato con troppa disinvoltura. Nè si ritroverà certo la grandiosità di linee che Paul Bonatz ha trovato nella stazione ferroviaria di Stoccarda quando si consideri il suo campagnolo progetto per il Palazzo della Società delle Nazioni, degno d'un ospedale di provincia. Nè si potrà riconoscere un qualche tentativo serio nel progetto Fischer Essen e Speidel, così scombinato che sembra il risultato di aggiunzioni successive ad una fabbrica magari di calzature, ampliata col tempo.
La grande architettura germanica sarebbe veramente ridotta male dalle costruzioni della nuova accademia razionalista se non sapesse trovare altro accento di monumentalità che in quel progetto degli architetti Zu Putlitz, Klophaus e Schoch di Amburgo in cui un nucleo quadrilatero è fasciato da un porticato pomposo ed inutile e, peggio che inutile, dannoso alla luce degli ambienti retrostanti. Preferiamo pensare che i migliori architetti tedeschi non abbiano concorso; anche fra i progetti non premiati facilmente riconoscibili per tedeschi non sappiamo trovare se non qualche soluzione parziale felice, qualche spunto di grandiosità, sùbito abbandonato quasi fosse una vergogna, un pericolo od un peccato.

Se può stupire che l'architettura germanica non abbia saputo fare di più e di meglio quando non si conosca la crisi di involuzione che sta passando sotto l'infuenza di teorie preconcette e intransigenti, non fa meraviglia che l'architettura olandese si sia dimostrata impari ad un tema decisamente monumentale. Chiunque la conosca, nella sua tradizione e nei suoi ultimi sviluppi, sa che essa è essenzialmente un'architettura di case. Proprio nel campo dell'abitazione popolare o borghese essa ha raggiunto risultati certamente attraenti e forme d'una notevole novità di concezione tanto che sono state largamente divulgate ed imitate. Oggi gli olandesi hanno un loro stile architettonico, forse il più determinato e compiuto che sia in Europa. Ma la stessa limitazione al materiale laterizio e cementizio esistente in Olanda, la parzialità dei temi trattati e lo spirito di razza poco sensibile per tradizione alla monumentalità, costringono l'architettura olandese in limiti entro i quali è impossibile comprendere la vastità e complessità del tema ginevrino.
Così accade che l'architetto Wijdeveld di Amsterdam abbia concepito un complesso di edifici di tipo assolutamente industriale e l'arch. Van Linge di Groninga abbia inteso il suo compito come può intenderlo un costruttore di case popolari e gli architetti Luthmann e Wouda dell'Aja abbiano trovato, è vero, una certa grandiosità di masse nell'edificio dell'aula, piantato felicemente sul lago, ma poi non v'hanno saputo accordare il rimanente delle fabbriche, d'una meschinità e povertà di concezione tali da annullare l'effetto totale senza rimedio.
Certo non migliori risultati raggiungono gli architetti scandinavi, anzi alquanto peggiori perchè o s'intonano ad un semplicismo eccessivamente disinvolto come nel progetto Eriksson che non ha certo costato troppa fatica al suo autore, o s'orientano verso il solito costruttivismo germanico-olandese come nel progetto Rosen di Copenaghen (nel quale del resto al modernismo esterno corrispondono moduli decrepiti di colonne corinzie all'interno) oppure, come nella maggior parte dei casi, si uniformano ad un classicismo accademico ed archeologico che sembra rifritto da ragazzi d'un Istituto di Belle Arti, tanto è scolastico, timido e meschino. Nè si capisce veramente come possano essere stati premiati progetti come quello William-Olsson e quello Birch-Lindgren, entrambi di Stoccolma, poichè neppure in una premiazione di scuola d'architettura avrebbero trovato fortuna. Accanto a quelli il progetto Ahlberg, che pure sa d'archeologia anatolica troppo da vicino e rivela una francescana povertà d'idee, può sembrare un saggio di genialità e d'ardire.
Del progetto belga dovuto agli architetti Hendrickx e De Ligne non val la pena di parlare poichè hanno preso il palazzo della Società delle Nazioni per un grosso albergo fatto a economia. Del progetto invece dell'architetto ungherese Vago mette conto di rilevare la chiarezza della concezione, l'armonioso movimento delle masse, la felice disposizione delle piante, sebbene l'eccessiva ricerca della varietà delle sagome, del particolare prezioso e dell'intimità conventuale abbia impedito la grandiosità della visione e ridotto il complesso in veste di troppa umiltà.
Dopo le quali considerazioni alquanto melanconiche per lo stato dell'architettura contemporanea quando si trovi di fronte ad un tema monumentale, ci possiamo rallegrare lo spirito con un'occhiata a due progetti svizzeri, uno dei quali ha fatto gran chiasso. Due soli, giacchè il terzo svizzero premiato, quello Laverrière e Thèvenaz, non ha alcuna importanza.
Il progetto Meyer e Wittwer di Basilea è veramente divertente: accanto a cabine su palafitte, degne d'uno stabilimento di bagni, accanto a una sala delle assemblee che ha per cupola la cassa armonica di un liuto smisurato ecco che gli architetti piantano due grattacieli stretti ed alti come paraventi e lì vicino allineano baraccamenti qualsiasi, riuscendo a dare un'impressione di provvisorio e di disorganico che potrebbe essere offensiva per la Società delle Nazioni, se il tono di buon umore con cui il progetto è concepito e disegnato non togliesse ogni sospetto di prave intenzioni.
L'altro progetto invece, quello degli architetti Le Corbusier e Jeanneret avrebbe l'intenzione di sembrare serio, vantato com'è dal suo autore quale il più maturo risultato dell'ultimo verbo architettonico. Ma basta un esame anche superficiale del modo onde è concepito, esame che gli architetti lettori di questa rivista faranno molto facilmente, per persuadersi dell'involontario umorismo a cui giunge il banditore dell'architettura razionalista da macchine e da piroscafi quando si pone ad applicare i suoi principî e disobbedisce per primo alle norme della razionalità. Tutto ciò è veramente divertente per la disinvolta mancanza di serietà e per la beata e calorosa ammirazione che suscita negli spiriti ingenui e semplici, attratti dal pubblico spettacolo dei fuochi artificiali del paradosso e storditi dalla grancassa tempestata sulla porta del baraccone.

Fra tante e così svariate affermazioni di gusti e di teorie che figura fa l'Italia e che parte le è riservata nell'avvenire? L'ho sostenuto su questa rivista scrivendo d'un'altra rassegna dell'architettura internazionale, quella di Parigi nel 1925; lo ripeto oggi con sempre maggior convinzione: la funzione dell'Italia nel momento architettonico attuale è una funzione equilibratrice e quindi intermedia fra le varie correnti in contrasto. Gli architetti italiani debbono essere senza pietà tanto per le concezioni superficiali e accademiche e scenografiche che ancora perdurano come postumi della malattia ottocentesca quanto per le troppo sempliciste applicazioni delle teorie preconcette care ai loro colleghi del settentrione. Studiare cioè attentamente tutto quanto c'è di nuovo nei metodi costruttivi moderni capaci di suggerire proporzioni insolite, ritmi inusitati; obbedire prima di tutto alla funzione dell'edificio partendo dalla necessità e dalla logica costruttiva in pianta ed in elevazione; bandire le facili improvvisazioni e i troppi seducenti effetti esteriori che si risolvono in retorica; elaborare lo spirito e non le forme della tradizione nostra gloriosa, la quale non è un comodo suggerimento d'apparati, ma è pur sempre una fonte inesauribile d'ispirazione e un punto di partenza per liberi sviluppi. È, come ho detto, la via più difficile da seguire perchè richiede lo sforzo di tutte le qualità contemporaneamente, fantasia e disciplina, raziocinio e intuizione, studio e ispirazione, ma è la più sicura e la più saggia, quella che in tutti i tempi l'architettura italiana ha seguìto.
Perciò dei tre progetti italiani premiati a Ginevra non esitiamo a disapprovare quello degli architetti Boni e Boari la cui concezione accademica è anche troppo trasparente. Non fa meraviglia che l'architetto Boari vi abbia posto la sua firma poichè non pretendiamo che egli improvvisamente rinneghi tutto il suo passato, durante il quale egli ha pur nobilmente difeso il buon nome dell'architettura italiana nell'America latina, guadagnandosi il giusto diritto al nostro rispetto. Stupisce invece l'architetto Boni il quale, non avendo un passato che l'obblighi alla coerenza, avrebbe dovuto accorgersi dell'imponente movimento architettonico attuale nel mondo e dare qualche segno di comprenderlo e tentare qualche cosa che non sia vecchio, invece di adattarsi ed adagiarsi nelle decrepite formule ottocentesche.
Ben altrimenti operano gli architetti Broggi e Piacentini i quali rappresentano appunto in modo tipico la corrente più sana e più viva dell'architettura italiana odierna. I1 progetto degli architetti Broggi, Vaccaro e Franzi dimostra appunto come la tradizione possa essere rivissuta, fonte d'ispirazione e punto di partenza per giungere ad effetti monumentali con linee e masse sfrondate, semplificate, ridotte all'essenziale nei corpi laterali e nel tergo dell'edificio, solenni nei loro squadri lapidei e nei ritmi schietti di chiaroscuro. Laddove infatti il progetto non riesce altrettanto efficace è nel portico semicircolare della facciata in cui i motivi della tradizione sono meno elaborati e raggiungono effetti di apparato enfatico, disformi dalla retta e contenuta semplicità del rimanente. Riprova, questa, che la via prescelta è giusta ma faticosa ed irta di pericoli, come affermavo in principio di queste note.
Se poi si osserva il progetto degli architetti Piacentini, Rapisardi e Mazzoni, posposto non si sa perchè a quello Boni e Boari nella graduatoria dei premi, si nota che esso ha con quello Broggi una consonanza stilistica che deriva appunto ad entrambi dal punto di partenza tradizionale modernamente inteso. È anzi quello del Piacentini più franco e più avanzato nell'elaborazione di certe forme, nell'ardire del fascione che incornicia la fronte porticata verso il lago; e avrebbe sull'altro qualche vantaggio stilistico se la palese fretta dell'improvvisazione e l'elaborazione non sufficientemente meditata avessero permesso al Piacentini di coordinare meglio i vari corpi di fabbrica fra loro e di dare al progetto quell'unità di concepimento e di stile che non è stata raggiunta.
In ogni modo questi due progetti, anche se non sono immuni da critiche, rappresentano per noi italiani, e certo non soltanto per noi, quanto di più serio e vivo si fa oggi in Italia nel campo dell'architettura poichè la tradizione non è ripudiata come in Germania nè malamente sfruttata come in Francia, ma ripresa nel suo spirito come fonte d'ispirazione, come modo d'espressione dell'indole della nostra razza, la più architettonica ed equilibrata del mondo.
Non posso certo dire che l'ideale di rinnovamento dell'architettura sia per essere raggiunto in Italia; troppo cammino è ancora da fare e troppi pesi morti siam costretti a trascinare perchè si possa dire d'esser giunti ad uno stadio di maturità. Ma è lecito affermare, come conclusione, che val meglio qualcosa d'immaturo raggiunto con fatica, con travaglio e con fede, prima tappa lungo la buona via, di quanto valga qualcosa d'attraente e di superficiale ottenuto con troppa facilità e conquistato con troppa disinvoltura.
ROBERTO PAPINI

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