FASCICOLO VII - MARZO 1926
LUIGI SERRA: Riflessi bizantini nell'Architettura romanica delle Marche, con 20 illustrazioni
L’architettura si afferma nelle Marche durante il periodo romanico. Pur trascurando le ripetizioni svigorite ed i saggi comunque poco rappresentativi, si hanno parecchie manifestazioni notevoli, e per la loro personalità e per le diverse tendenze che esprimono: nella planimetria, negli elementi costruttivi, nello spirito, nell’aspetto. Si costituiscono anche spontaneamente taluni gruppi determinati da chiare affinità e accanto ad essi stanno isolati alcuni tipi cospicui.
Tra i gruppi uno che maggiormente interessa, per lo spiccato suo carattere, è quello rappresentato da quattro chiese - S. Vittore di Chiusi presso Genga, S. Croce a Sassoferrato, le Moje nel territorio di Majolati e S. Claudio al Chienti sotto Pausula - le quali presentano singolare pianta ad esedre.
Il saggio più nobile costruttivamente, più schiettamente romanico e scevro da contaminazioni è S. Vittore di Chiusi, meglio delle Chiuse.
Esso sorge in uno scenario mirabilmente pittoresco: di là da un piccolo ponte romano gettato sulle acque del Sentino e vigilato da una smozzicata torte gotica, di contro alle montagne che formano la gola detta di Frasassi. Il nome gli dovette venire dalla chiusa montana, benchè sia stata anche accennata la sua appartenenza alla Diocesi di Chiusi.
È stato asserito che la chiesa fosse nella sua prima origine un tempio pagano; ma è ipotesi che non ha alcun evidente sussidio di prove nè nel monumento, nè in antiche memorie. Essa può esser sembrata legittima rilevando che in quella zona sorgevano templi e terme romane, come garantiscono parecchie iscrizioni ed altri elementi discoperti (1).
La costruzione è a piccoli blocchi di varia pietra, in filari accuratamente disposti nell’interno, non omogenei generalmente all’esterno, a causa con tutta probabilità delle numerose riprese murarie che sono state necessarie in progresso di tempo. Essa ha forma quadrangolare e misura all’interno, dalla soglia al centro dell’abside mediana m. 14.50, in larghezza m. 13.60.
Quattro grandiose colonne erette su basi rettangolari e sormontate da capitelli smussati con abaco formano il quadrato centrale e tripartiscono lo spazio, in modo da determinare, con i pilastri addossati in corrispondenza di esse alle mura d’ambito in organico sistema di sostegni, nove campate, otto delle quali coperte di vôlte a crociera appena accennate, embrionali, la centrale di una cupolina emisferica all’interno su quattro nicchie angolari di raccordo che determinano 1’ottagono, accusato chiaramente all’esterno, illuminata da quattro monofore. Di fronte all’ingresso, nel fondo, si eleva su due gradini il presbiterio con sedile e si incurvano tre absidi, ciascuna con una finestra; il catino di esse è limitato da una cornice sorretta da mensole. Nel mezzo delle mura laterali si schiude d’ambo le parti un’abside, quella di sinistra con cornice su mensole e feritoia, quella di destra soltanto con cornice. Nella parete in cui si apre l’ingresso si ha a destra un vano quadrato, aggiunto verosimilmente, che serve da sagrestia; dalla parte opposta una scala a chiocciola inscritta entro una torre circolare che sale alla copertura. Questa, liberata sulla fine dello scorso anno del tetto che le era stato arbitrariamente sovrapposto, presenta il rivestimento in lastre di pietra, come il Battistero di Galliano (1007), S. Giacomo a Como (sec. XI-XII) ecc.
La cupola ottagona emerge su essa decorata da arcatine su lesene con al piede dei lati obliqui, che son più stretti di quelli sulle assi, un gradino triangolare.
Una torre quadrangolare, posteriore alla fabbrica ma non al sec. XV, impostata sul vano della sagrestia turba la grazia dell’insieme. La decorazione esterna delle pareti e delle absidi è ad archetti e lesene.
Alla chiesa era annesso un edificio conventuale, ora trasformato in casa colonica, costruito o ricostruito secondo i modi gotici.
Pochi elementi menomano la genuinità romanza della fabbrica, soprattutto dopo i restauri compiuti in questi ultimi due anni per cura della Sovrintendenza all’Arte Medioevale e Moderna delle Marche, intesi ad eliminare le poche e non sostanziali superfetazioni.
All’interno non v’è da rilevare altro se non che il pavimento attuale è più alto di circa quaranta centimetri rispetto a quello originario, che era in pietra come attestano gli assaggi fatti. Semplici ragioni di economia hanno impedito finora di scoprirlo. All'esterno, oltre il tetto già eliminato, son da considerarsi parti posteriori il muro che sorge a sinistra dell’ingresso addossato alla torre scalare e che si può abbattere senza notevoli difficoltà, la torre quadrata che per i suoi caratteri costruttivi non appare di molto posteriore al monumento e, quindi, per ragioni storiche è dubbio sia opportuno farla scomparire, benchè le ragioni estetiche stiano nettamente contro essa; la finestra aperta nell’abside principale, ad arco trilobo, che accusa uno slargamento della primitiva feritoia avvenuto, secondo quanto suggeriscono le forme, nel sec. XIV.
La significazione essenziale del monumento sta nella leggiadria e nella singolarità della pianta improntata di grazia ritmica dal succedersi insistente delle esedre che ne costituiscono il perspicuo lineamento espressivo, oltre che nella snella eleganza della cupola la quale accentua lo slancio che anima tutta la costruzione, nella salda e ben costrutta compagine muraria.
Arduo è datare con buon fondamento S. Vittore. Come sovente accade non vi sono memorie storiche appoggiate a fonti sicure e non rimane che da interrogare il monumento. V’ha soltanto una nota di C. Ramelli (2) il quale assicura che sulla colonna a destra di chi entra si leggeva graffito sopra una pietra: Temp p. Io. hes V..., indicazione ch’egli completa con l’aggiunta di un 1111, rilevando che il Papa citato doveva essere Giovanni IX, vissuto fino all’anno 899 e riportando per conseguenza la chiesa alla fine del sec. IX, per modo che essa dovrebbe esser considerata come uno dei primi saggi dello stile romanico in Italia pienamente espresso.
Di siffatta iscrizione non v’ha, però, traccia alcuna: può darsi, come è stato supposto, che la pietra che la custodiva sia stata asportata durante qualche restauro.
Ma anche se essa esistesse non rappresenterebbe un documento decisivo, perchè potrebbe essere - caso frequentissimo - elemento proveniente da altra fabbrica; comunque essa verrebbe contraddetta dai caratteri costruttivi e stilistici del monumento che non si possono riferire agli albori del periodo romanico senza compromettere le cognizioni fondamentali che si hanno intorno alla manifestazione architettonica di esso. Come datazione probabile si può proporre la prima metà del sec. XII, o, al massimo, la fine del secolo XI.
Non è possibile retrocedere verso il mille seguendo documenti del Monastero, riprodotti nel citato volume del Colucci insieme a varie memorie sulla chiesa. Essi devono riferirsi a un edificio anteriore.
La purità costruttiva, la semplice nuda struttura architettonica parlano di un momento di freschezza e di purezza dello stile, dall’altro lato l’elaborazione costruttiva rasserenata in una soluzione elegante, i timidi accenni di volte a crociera suggeriscono la fase romanica già francata e avviata verso il pieno compimento dei suoi ideali.
Da S. Vìttore derivano la Chiesa delle Moje e quella di S. Croce a Sassoferrato, tutte e tre nella cerchia della provincia di Ancona. Che si tratti di derivazione risulta chiaro dal considerevole compenetrarsi in queste due chiese alla struttura romanica di forme gotiche.
Meno spiccati gli elementi ogivali si presentano nella Chiesa di S. Maria delle Moje, per la quale la più antica memoria risale al 1248; onde giovandosi di questi due dati si potrebbe indicare come datazione probabile la prima metà del sec. XIII.
L’analogia planimetrica con S. Vittore risulta evidente. Costruita in pietra calcarea a conci squadrati ha anch’essa forma quadrangolare, di circa m. 14.40 di larghezza e lunghezza, pavimento a lastre di pietra, nove campate, determinate da quattro sostegni centrali, tre absidi nel fondo, una per ciascun lato, scala a chiocciola a sinistra dell’ingresso, ambiente quadrangolare a destra di esso. È più del necessario per affermare l’affinità. Ma si riscontrano altresì notevoli differenze che attestano come appunto questa affinità si debba a filiazione avvenuta in un periodo nel quale s’era maturato un altro indirizzo artistico. In luogo delle colonne qui sorgono pilastri cruciformi rafforzati negli angoli da semi pilastri; gli archi sono a pieno centro, ma la copertura tende all’ogiva sulla mediana, è a crociera sulle collaterali, non v’ha presbiterio e la massa esterna, deturpata dalla costruzione della canonica sopra il prospetto e con la torre cilindrica sostituita da una torre cubica, presenta aspetto basilicale.
Come espressione artistica è inferiore a S. Vittore, sia perchè frammischia il sistema cruciforme a quello basilicale e la pianta romanica risolve con forme gotiche; sia perché è priva di quella sua schietta eleganza strutturale (si noti la rozza composizione delle volte), della grazia della sua movenza slanciata ed elegante, del disinteressamento per ogni complemento decorativo. Senza tener conto che ha perduto in certa misura quel fascino misterioso della vetustà in seguito ad un recente restauro che ha ripristinate parecchie parti, sia pure seguendo le precise indicazioni date dal monumento.
Questo profumo del tempo è ancor più dissipato in S. Croce dei Conti a Sassoferrato a cagione di un restauro compiuto nel 1914, che ha dato al paramento interno ed alle volte il carattere di finto travertino, per intonarlo al materiale della costruzione originaria, ha aperto un ambiente al termine della parete sinistra e due ai lati dell’ingresso.
Precedentemente una seconda abside era stata incavata nella parete destra portando a sei il numero totale di esse e turbando gravemente il loro ritmo pacato a suadente, rotto poi dall’apertura praticata di fronte nella opposta parete. Altra cosa che nuoce a S. Croce è l’essere inglobata nella fabbrica conventuale, così che all’esterno non si coglie traccia alcuna della sua forma.
Gli elementi gotici sono in essa più sviluppati. Il quadrato centrale è formato da quattro doppi pilastri eretti su alti basamenti a ciascuno dei quali sono addossati due semicolonne di granito provenienti verosimilmente dalle rovine di Sentinum. Ad essi corrispondono nelle pareti laterali pilastri ed in quelle anteriori e posteriori pilastri rinforzati da semicolonne di granito; in ciascun angolo della parete d’ingresso sono incastrate colonne di diametro minore, quella a destra costituita da tre fusti diversi sovrapposti, a scanalature elissoidali l’inferiore, a foglie lanceolate il mediano, liscio - come quello della colonna di sinistra - il superiore.
Le arcate sono a pieno centro. Le volte su otto campate si inflettono leggermente a crociera e appaiono poco più progredite di quelle di S. Vittore, salvo che nell’accentuarsi dello spigolo al nascimento, ma di assai più bella forma nella loro tendenza bizantina verso la calotta; la mediana è più elevata e rinforzata da due costoloni incrociati poggianti su piccole basi.
Le dimensioni della chiesa corrispondono a quelle delle due precedenti potendosi fissare in circa m. 15 x 15.
Un aspetto interessante è dato dalla ricca decorazione dei capitelli delle colonne e dei pilastri. Motivi svariati si succedono: ora a due e tre ordini di foglie sovrastati o no da fasce ad intrecciature; ora a due ordini di archeggiature intrecciate con rose inscritte, sormontati da motivi vegetali e geometrici; talvolta a foglie terminanti lunghi nastri scanalati; tal’altra con motivi bestiari; più raramente con figurazioni umane, come quella della Crocifissione nel secondo pilastro a sinistra. Ma se la varietà è notevole, è tutt’altro che rilevante la perizia e il sentimento artistico dell’intagliatore che imita stentatamente esemplari di chiese emiliane e lombarde, come quelli che si vedono nell’atrio di S. Ambrogio di Milano, nella chiesa di Polenta e Bertinoro (Forlì), in S. Michele di Pavia, ecc.
Lo stesso può dirsi per quel che riguarda la decorazione del portale d’ingresso, con rozzi infantili motivi bestiari nei capitelli, a girari in cerchi di due misure con entro grappoli, foglie, rose nell’archivolto esterno.
Per la datazione di scarso aiuto può essere un opuscolo pubblicato anonimo nel 1914, in occasione del compimento dei restauri (3). Vi è mentovata una lapide sepolcrale con l'anno 1170; ma essa deve provenire da altra chiesa, poichè le forme chiaramente gotiche in S. Croce parlano del sec. XIII, anzi della seconda metà di esso, e la volta mediana anche del secolo XIV. Senza di esse i capitelli si potrebbero datare, alla prima impressione, sulla fine del sec. XII: il loro arcaismo è una conferma che sono prodotti di imitazione tarda, nel tempo, nello spirito e nel magistero.
Pur mantenendo affinità planimetriche sostanziali con queste tre chiese in modo da formar gruppo con esse, S. Claudio al Chienti (Comune di Pausula, provincia di Macerata) si presenta con ben maggiore personalità. Essa è costruita in laterizio e consta di due chiese sovrapposte legate sulla facciata da due torri angolari cilindriche, nella parte postica da triplice abside decorate al sommo e a metà, come le mura, mediante archetti e lesene nei consueti modi romanici.
La chiesa inferiore (restaurata di recente dalla locale Sovrintendenza) ha il quadrato centrale su pilastri quadrati cui rispondono nelle pareti lesene, gli archi son voltati a tutto sesto, le nove campate son tutte ugualmente coperte a crociera. Alla chiesa superiore si accedeva originariamente per mezzo delle scale a chiocciola praticate nelle torri, poichè la scalea esterna è visibilmente posteriore. Essa ha coperture a crociera sulla collaterale destra, le altre in legname, sì che si può supporre che il lavoro non sia stato condotto a termine.
La chiesa misura m. 17,27 di lunghezza e m. 15 di larghezza.
A questo insigne monumento ha dedicato un ampio acuto studio Giuseppe Rossi (4). E poichè tale indagine è esauriente nell’analizzare e vagliare i documenti e le memorie storiche, gli elementi costruttivi e le soluzioni architettoniche, non è opportuno tenere di esso lungo discorso, come meriterebbe, parafrasando e sintetizzando una esemplare pubblicazione. È soltanto nella datazione che l’opera del Rossi non può più essere accettata; ma di ciò non è da fargli colpa soverchia. Una indagine storica riflette le condizioni della cultura del tempo, e forse trent’anni or sono nessuno avrebbe datato diversamente S. Claudio.
Il Rossi, dunque, riconosce che il portale della chiesa superiore, il voltone che precede l’ingresso della chiesa inferiore e le due porticine ad esso laterali, i finestroni della torre di destra risalgono al sec. XIII, ma ascrive la fabbrica al VI sec. Ora i rapporti con le già illustrate chiese similari ed il carattere degli elementi costruttivi e decorativi dimostrano che tutta la costruzione è sorta nel periodo romanico. E si può convenire col Toesca (5), che la assegna al secolo XII; secondo noi, verso la fine di esso.
Le piante ad esedre non furono rare nell’architettura romana. Si possono ricordare, tra l’altro, un Ninfeo sull’Appia, un Padiglione a Villa Adriana di Tivoli, un edificio presso Palestrina (6), S. Donato di Zara, tre esempi tratti dal Mongeri (7), ecc.
Ma questo motivo di austera grandiosità venne ripreso dall’architettura bizantina e inteso nel suo spirito musicale, trasformato, cioè, in cadenza ritmata, insistente, piena di grazia e di eleganza.
S. Vìttore di Chiusi, che è la più genuina espressione di questo gruppo, e dopo di essa tutte le altre, presenta all’interno la cadenza lenta e suasiva della musicalità bizantina ed anche all’esterno col risalto delle absidi e più del cupolino costituisce una massa caratteristica delle chiese bizantine. Si confronti, ad esempio, con quella della chiesa di S. Sozon a Geraki (8).
L'origine specifica poi di tal pianta è da ricercarsi nelle numerose chiese cruciformi, come quelle di Iviron, quando se ne sopprima idealmente il nartece e l'esonartece, di Chilandari, di Vatopedi, tutte e tre sul Monte Athos, di S. Teodoro ad Atene, di S. Giovanni a Mésemvire e in quelle triabsidate, come la Coubelitissa a Castoria (9).
Questo tipo determina imitazioni anche in altri luoghi. La chiesa di S. Cataldo a Palermo se si confronta a S. Vittore di Chiusi rivelerà, sì, differenze (mancano ad esempio le absidi nelle pareti laterali), ma che non offuscheranno la analogia sostanziale della visione costruttiva, nei suoi lineamenti come nel gioco prospettico. Lo stesso può dirsi per S. Andrea di Trani. E numerosi sono gli esemplari di chiese russe che si potrebbero citare: per esempio, quella del Salvatore (1198) a Néréditsa presso Novogorod, quadrangolare con tre absidi per ciascun lato e cupolina su quattro pilastri quadrati (10).
La derivazione bizantina di S. Vittore è asserita altresì dalla cupolina emergente poligonale con movenza tutta orientale, come nella citata chiesa di Geraki, in quelle di S. Panteleimon a Salonicco, della Dea Moni a Nauplia, di S. Teodoro ad Atene, della Parigoritissa ad Arta, della Peribleptos a Mistra, di Merbaca in Argolide, ecc. (11).
Per le nicchie angolari che determinano il poligono, su cui è voltata la cupola soccorre il richiamo all'arco quadrifronte di Latachia (12) più che a S. Vitale di Ravenna, che è pertanto evocata dalle torri cilindriche di S. Claudio che non sono il solo esempio romanico di imitazione delle torri ravennati perchè se ne vedono, ad esempio, nella chiesa della Madonna della Neve a Castell'Alfero e nelle Marche stesse a Cerreto d'Esi.
Nè questi sono i soli riflessi con i quali l'arte bizantina ha illuminate le manifestazioni artistiche marchigiane durante il periodo romanico.
LUIGI SERRA.


(1) G. BENEDETTONI, Pierosara, in Colucci, Antichità Picene, Fermo, II, 1788, p. 235-238. Le colonne, i pilastri, le arcate sono in travertino, il resto è in pietra calcarea.
(2) Indicazioni degli oggetti d'arte in Fabriano, ib. Crocetti, 1852, p. 14.
(3) Breve guida storico artistica della Chiesa e del Monastero di S. Croce presso Sassoferrato, Roma, Lucci.
(4) San Claudio al Chienti, in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria delle Marche, 1896, pp. 23-130.
(5) Storia dell'arte italiana, Un. Tip. Ed. Tor., p. 575.
(6) G. GIOVANNONI, La tecnica della costruzione presso i Romani, Società Ed. d'arte illustr. Roma, Tav. XI.
(7) RIVOIRA, Architettura romana, Milano, Hoepli, 1921, p. 235-237.
(8) E' riprodotta in Gabriele Millet, L'école grèque dans l'architecture byzantine, Paris, Leroux, 1916, p. 181.
(9) Tutte sono riprodotte in MILLET op. cit.
(10) LOUS REAU, L'art russe, Paris, Laurens, 1921, I, la riproduce nella tav. 16, pp. 128-129.
(11) Queste ed altre son riprodotte in DIEHL, Manuel d'art byzantin, Paris, Picard, 1910; in MILLET, op. cit.; in RIVOIRA, Architettura mussulmana, Milano, Hoepli, 1914.
(12) RIVOIRA, Le origini dell'architettura lombarda, Milano, Hoepli, 1908, pp. 81-82.
Per la chiesa delle Moje si può anche vedere G. BEVILACQUA in Nuova Rivista Misena, a. II, 1889, 231-234.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna all'articolo