FASCICOLO I - SETTEMBRE 1926
ROBERTO PAPINI: Le Arti a Parigi nel 1925. III: I Metalli, con 78 illustrazioni
LE ARTI A PARIGI NEL 1925

TERZO : I METALLI.

Per intenderci sul lavoro artistico dei metalli, nobili e plebei, dall’oro al ferro, pochissime considerazioni basteranno.
Vige prima di tutto da infiniti secoli nella storia delle arti chiamate minori una legge generalissima che impone agli artisti creatori ed agli artieri esecutori di non perdere mai di vista il “senso” del materiale che adoperano. È quella che ho chiamato legge dell’aderenza alla materia impiegata. Non si può senza pena sicura di insuccesso confondere l’una con l’altra le caratteristiche d’ogni materia, adattare forme proprie del legno ai metalli o dell’argilla al marmo o del vetro all’avorio e via dicendo. L’artista deve creare vedendo già l’opera sua eseguita nella determinata materia per cui la pensa. Gli antichi maestri furono magnifici di umiltà e di obbedienza a questa legge, che essi costantemente intuirono ed ingegnosamente applicarono.
Chi volesse di ciò una più lunga dimostrazione la cerchi nel mio libro Le Arti a Monza nel MCMXXIII, dove il concetto fondamentale è affermato, esemplificato e ribadito.
Per quanto riguarda le arti che trattano i metalli, da quella del fabbro e del calderaio a quella dell’orafo, la legge generale naturalmente predomina. Ma v’è anche di più; v’è la necessità per l’artista di aderire al particolare modo con cui il metallo deve essere trattato. Il fatto che sia fuso o laminato o martellato o battuto o sbalzato o cesellato non può e non deve essere indifferente per l’artista poichè ognuno di quei modi o di quelle tecniche obbliga ad una speciale disciplina di creazione o di lavoro, suggerisce particolari forme di stile.
Affinchè un musicista sia un ottimo compositore di sinfonie non basta che egli sia padrone delle leggi dell’armonia e del contrappunto ma occorre che egli conosca la tecnica di ogni strumento dell’orchestra sì che possa cavare dai singoli e dall’insieme il massimo degli effetti. Non occorre per questo che egli sia provetto violinista e pianista e clarinista nel tempo stesso - il che sarebbe impossibile ed inutile - ma occorre che egli sappia quali sono le possibilità di ogni strumento tanto negli a solo quanto nei pieni d’orchestra, tanto nelle sfumature quanto nella massima sonorità.
Similmente per l’artista creatore. Egli deve conoscere ogni scaltrezza del mestiere sì da suggerire all’esecutore i modi ed i termini; egli deve sapere quali e quanti effetti possono esser cavati dai vari modi di trattar la materia affinchè l’opera d’arte abbia potenza di vita ed armonia d’equilibrio.

Premessi questi principî, è naturale che si verificassero a Parigi i maggiori progressi nell’arte ed i migliori saggi del gusto nelle sezioni di quei popoli che hanno raggiunto un più elevato grado nell’organizzazione delle loro scuole d’arte. Di quelle scuole, cioè, nelle quali l’artista e l’artiere sono direttamente e continuamente tenuti a contatto con la materia, con la sordità di lei all’intenzione dell’arte.
Senza scuole bene organizzate e ben condotte non si fa nulla, non si progredisce. Tutt’al più possono nascere temperamenti privilegiati i quali, con intuizione geniale, possono giungere, indipendentemente dall’istruzione ricevuta, a compiere opere d’arte perfette. Ma, innanzi tutto, questi temperamenti son rari come è raro l’apparire del genio; e poi essi producono, dopo di loro, soltanto imitatori servili e non superatori e sviluppatori del loro stile, appunto per la potenza e prepotenza della loro personalità altrettanto originale quanto isolata.
La riprova più convincente era fornita dalla sezione austriaca. L’Austria, com’è noto, possiede la più perfetta organizzazione didattica dell’arte. Questo fatto le permette di imprimere in ogni manifestazione il suggello d’uno stile che è unitario e nazionale, pur nella stragrande diversità di temperamento e di razza dei suoi artisti.
Pochi creatori e quasi tutti architetti, con Josef Hoffmann alla testa, dànno a quello stile l’impronta; molti esecutori, che son poi creatori di minor lena, operano in quell’ambito e producono saggi squisiti.
La sezione austriaca era ammirabile di unità e di varietà, specialmente negli oggetti di metallo lavorato, dalle coppe alle teche, dai lumi ai vasi, dai gioielli ai piatti. Non v’era nulla che fosse d’esecuzione men che perfetta; non v’era nulla che, pur nel capriccio della fantasia, sconfinasse in volgarità.
Ora, è certo che quegli oggetti, anche se apparentemente strambi per l’impronta di bisantinismo tipica dell’Austria d’oggi, appartengono alle generali correnti stilistiche delle arti attuali in Europa. La chiarezza e la semplicità geometrica delle sagome dominano indiscutibilmente la produzione austriaca; la parsimonia massima degli adornamenti accompagna docilmente la semplificazione della forma.
La materia è resa preziosa, anche quando non è nè oro nè argento, dal modo com’è trattata, dalla martellatura evidente, dalla cura e dalla perizia con cui sono ottenuti i rilievi, gli sbalzi, le superfici lisce e le scabre, le sagome perfette, le curve armoniose.
Un naturale senso d’eleganza e di raffinatezza guida artefici così padroni dei loro mezzi, così esperti d’ogni accorgimento. Vi sono cose che possono urtare contro il nostro gusto italico, ostile agli eccessi anche nella raffinatezza; ma non v’e nulla che sia volgare o sciatto, nulla che non rientri nelle generali tendenze del gusto d’oggi.
Guardiamo alla Germania attraverso la Svizzera che la segue. Qui la preziosità un poco morbosa dell’Austria sparisce per dar luogo ad una gravità più severa e più razionale. Il gusto germanico ha sempre in sè qualcosa di barbarico e quindi di geometrico e crudo.
In ogni modo i prodotti della Svizzera, altra nazione che possiede scuole magnificamente organizzate e condotte, si distinguevano fra gli altri per una nettezza di sagome quasi elementare, accompagnata da un’esecuzione perfetta. Parlo sempre di vasi, di coppe, di piatti, di teche in metallo sbalzato e martellato, dal bronzo all’argento. Dell’oreficeria vera e propria parlerò fra poco con melanconiche constatazioni.
Anche nella sezione svizzera l’ispirazione dagli architetti era evidente. Ispirazione cioè immune dai capricci inutili, dalle fantasie bizzarre che non hanno aderenza con la pratica della vita. L’architetto degno di questo nome ha una sua logica struttiva anche quando disegna un bricco od una coppa. Non si lascia travolgere da uno spirito decorativo soverchiante perchè vuole prima di tutto guardare alla sagoma generale, alle proporzioni fra le parti, alla ritmica preordinata nella sua creazione. E ciò avviene massimamente in tempi come questi in cui la struttura d’una casa come d’un mobile come d’una coppa, ha da essere evidente e razionalmente concepita.
L’amoroso connubio che abbiamo notato nelle architetture e nel mobilio della Danimarca e della Svezia fra classicismo e razionalismo, lo ritroviamo anche nelle arti del metallo di quei paesi. Si direbbe che vi s’è maturato un gusto cui si potrebbe attribuire l’appellativo di neo-ellenismo.
Vien fatto di ripensare a certi tripodi bronzei ritrovati a Pompei, a certi specchi etruschi e a certe ciste della tarda età nei quali l’esilità elegante della forma s’impreziosisce con la minima quantità possibile d’ornamentazione: un rabesco graffito, una testina di faunetto, una foglia, una pigna, un fiore, un puttino, una farfalla.
Danesi e svedesi, nei saggi che hanno esposto a Parigi, procedono con la stessa semplicità. Concepiscono prima di tutto l’oggetto nella sua sagoma elementare e schematica, tendono all’esilità elegante delle proporzioni, alla razionalità evidente delle forme; poi rialzano il tono dell’oggetto con quel poco di grazia ornamentale ch’è indispensabile ad ottenere un effetto di raffinatezza estrema.
E' inutile sottolineare che anche quei prodotti scandinavi hanno la perfetta esecuzione che viene ai loro artefici dalla saggia e metodica istruzione ricevuta nelle scuole.
Ma mentre gli austriaci prendono da Bisanzio i modelli della loro ricca fantasia, mentre i tedeschi e gli svizzeri attingono alle fonti barbariche la rigidezza teoretica del loro stile, gli scandinavi si rivolgono a quelle fonti classiche greche e romane che i loro antenati videro attraverso PallIadio nel tardo Cinquecento ed attraverso Canova all’epoca di Thorwaldsen. L’anima delle razze eternamente risorge e si rivela nell’arte.

Le arti dei metalli non ebbero mai molto favore in Francia. Lo aveva notato, ai tempi suoi, Benvenuto Cellini; lo notiamo, più modestamente, anche noi.
A vedere la vasta sezione che, nell’esposizione parigina, era riservata agli argentieri, ai calderai, ai fabbricanti in genere d’oggetti d’arte in metallo, s’aveva la penosa impressione di qualche cosa di vecchio, d’abitudinario, di mediocre; salvo in pochi esempi di cui offro, a titolo di lode, la riproduzione fotografica, non appariva neppur lontanamente l’alba dei tempi nuovi. Ed anche quegli esempi lodevoli non sono certo all’altezza, per genialità e modernità di spirito, dei modelli esposti dalle nazioni dianzi citate.
Si direbbe che lo spirito commerciale soffochi ogni arditezza e lasci camminare gli artisti per le vie battute, care alla clientela vecchiotta ed abitudinaria. Dov’è negli argentieri francesi lo spirito rivoluzionario degli architetti loro conterranei? Dov’è in essi l’eleganza sottile dei mobilieri? Non mostrano neppure la proba semplicità degli inglesi, tutti intenti a ripetere le vecchie formule che han posto l’argenteria della Gran Brettagna in quelle posizioni d’avanguardia sulle quali da quarant’anni s’è fermata, immobile quanto dignitosa.
Le cose vanno anche peggio nel Belgio, nella cui sezione non abbiamo saputo trovare un solo pezzo degno di rilievo. Artisti e fabbricanti mancano, nel Belgio come in Francia, della qualità prima per avanzare: l’ardire. Essi sono un po’ sempre sotto l’incubo dei tedeschi dai quali vogliono differenziarsi, senza che, per ora, vi sieno riusciti. E, d’altra parte, essi trascinano ancora il decrepito bagaglio dello stile Liberty, d’infausta epidemica memoria. Così, fra vecchio e nuovo, stanno indecisi e perplessi, nè sentono finora il deciso richiamo alla semplicità, alla razionalità struttiva, alle norme del gusto moderno.
Senza attribuire tutta la colpa di questo fenomeno alla deficiente organizzazione didattica, vogliamo notare che in Francia come nel Belgio come in Inghilterra non esistono scuole d’arte che possano neppur lontanamente paragonarsi a quelle dell’Austria, della Germania e dei paesi scandinavi.
Dell’Olanda, della Russia, della Cecoslovacchia, della Jugoslavia e dei molti altri popoli espositori non parlo perchè trascurabili sono le loro manifestazioni arti dei metalli, comprese le solite riproduzioni dell’arte contadinesca, ormai abusata. E dell’italia non posso parlare perchè non s’è trovato nessuno da presentare a Parigi se ne togliamo Renato Brozzi, sensibilissimo sbalzatore di lamine metalliche sugli orli dei piatti e sui coperchi delle tabacchiere, là dove figura i suoi cari armenti, i suoi prediletti volatili, dall’aquila alla colomba, ma incapace di creare l’architettura di nuove forme, l’impronta d’un compiuto stile.

Nell’arte dei metalli la Francia si salva con i ferri battuti di Edgar Brandt. Tutto ciò che v’era d’essenzialmente elegante nel Settecento francese, tutto ciò che v’è di sostanzialmente prezioso nelle mode parigine ricompare in quei ferri battuti.
La grazia e l’eleganza dei motivi, la sapiente distribuzione dei vuoti e dei pieni, la preziosità del rabesco, conquistano di primo acchito. V’è qualche cosa di suadente nel modo di accoppiare certe rigidezze di linee dritte con la flessuosità degli steli che s’attorcono fra fiori, foglie e piume; nella sapienza del mescolare lo sbalzo con la forgiatura; nella maniera di trasformare ogni ispirazione della natura in forme di stile.
Ma è poi totalmente pura quest’arte sottile del Brandt? É poi veramente sana quella sua tendenza? Se noi esaminiamo quei ferri battuti troviamo facilmente qualche impurità di tecnica che i nostri antichi e schietti fabbri avrebbero disdegnato. Si sente la presenza di saldature, di bulonature che sono evidentemente di ripiego. Si sente che quelle cancellate, quelle porte e quegli schermi sono composti con il metodo d’un orafo che componga filigrane. E allora ci accorgiamo di tutte le concessioni che l’artista ha dovuto fare alla graziosità della moda. Quei ferri son troppo vicini ai merletti per essere pienamente espressivi della ruvidezza della materia. Sono ornamenti squisiti per il salottino della dama, per la bottega di mode, per la cancellata del giardinetto segreto, tutto fiorellini e siepoline di bosso tonduto. Ma provate quell’arte stessa nella cancellata d’una cappella o nell’inferriata d’un palazzo, paragonatela a ciò che gli antichi facevano di divinamente rude e di veramente ferreo; allora vi persuaderete che la stessa preziosità di quell’arte ne limita il respiro e la vita.
Certo noi italiani non opponevamo a quell’arte in Parigi nulla di migliore; nè le altre nazioni facevano di più. Noi mostravamo i ferri battuti dal Mazzucotelli che è il nostro pioniere in quell’arte, colui che ha avuto il gran vanto di tentare nuove vie con coraggio, valendosi della sua perfetta conoscenza del mestiere; mostravamo i ferri battuti del Rizzarda che rappresenta sul Mazzucotelli una maturazione ed un progresso; ma entrambi risentono un po’ troppo del complicato gusto lombardo e non hanno finora sentito il bisogno di semplificare, sfrondare, potare le troppe rame secche dei loro alberi rigogliosi. Per chi, come loro, conosce bene ogni accorgimento tecnico, è facile cadere nel virtuosismo, nell’ostentazione della bravura e perdere di vista il ritmo dell’architettura essenziale.
Vorremmo che la vigorìa veramente fabbrile dei nostri italiani temperasse la grazia un po’ decadente del Brandt e che, d’altra parte, il senso di sovrano equilibrio visibile nelle opere di questi, dirigesse i nostri per le vie auguste della semplicità. Allora si avrebbero i ferri battuti ideali per rappresentare il gusto dell’epoca nostra.

Ho voluto parlare in ultimo dei gioielli poichè le considerazioni sull’arte degli orafi possono riassumere e concludere le osservazioni sui metalli.
Gli ultimi veri orefici furono quelli del Settecento. Il secolo XIX snaturò e fece precipitare l’arte dei gioiellieri. La quale arte, quand’è vera, non consiste affatto nello stupire con la grossezza e la limpidezza delle gemme incastonate in cumuli chiassosi d’argento, di platino o d’oro. Ma consiste piuttosto negli accordi delicati delle luci e dei riflessi, nella maniera sapiente di trarre partito anche dai materiali meno preziosi quando giochino per armonia o per contrasto, nel non permettere mai che il valore bruto e venale delle pietre o dei metalli prenda il sopravvento sul valore ideale ed eterno dell’arte.
L’arte dell’orafo dev’essere insomma supremamente ingegnosa e divinamente raffinata; è la più sottile e la più esperta, quella che è insieme architettura e scultura e pittura nelle minime dimensioni. Non per nulla i nostri grandi del Quattro e del Cinquecento furono educati quasi tutti nelle botteghe degli orafi.
Ora, tutto questo non fu compreso nell’Ottocento, nel secolo in cui la fissazione veristica paralizzò ogni ricerca di stile. Oggi si deve fare, con fatica grande, il cammino a ritroso.
Purtroppo la manìa rigattiera perniciosamente diffusa nel gusto moderno continua ad imperare nei laboratori degli orefici, i quali non sanno spesso far altro che scimmiottare gli stili del passato, non per amore dei modelli antichi ma per pigrizia, per viltà, per lusinga dei più banali gusti della clientela. Poichè le imitazioni delle anticaglie erano provvidamente escluse dall’esposizione parigina s’è visto di quanta povertà di fantasia e di stile soffra l’oreficeria moderna.
Parigi, capitale della moda, offriva ai buoni borghesi i gioielli più rutilanti e fastosi che si possano immaginare. Ma se la materia era ricca, l’ arte era misera e quasi infantile. Alcuni orefici parigini si son subito buttati al cosidetto avanguardismo futurista e cubista: con gli smalti, con le pietre squadrate e sfaccettate, con le varie patine dell’oro, con tutte le ricchezze a disposizione non sono riusciti in fondo, che a comporre geometrie colorate d’un gusto fra snobistico ed infantile. Altri orefici parigini, come il solenne Cartier, si son messi a sfruttare l’estremo Oriente ed hanno scolpito le pietre preziose quasi fossero cristalli od onici: si son visti grossi smeraldi scolpiti in modo da raggiungere presso a poco l’effetto delle giade, come chi volesse con l’oro imitare il bronzo. In tutti la preoccupazione assillante di far qualcosa d’insolito e, nel tempo stesso, di secondare il gusto corrente: sforzo veramente penoso che non ha nulla a che fare con l’arte.
Se Vienna non fosse nello stato di crisi monetaria che tutti sanno avrebbe probabilmente tenuto uno dei primi posti anche nella gioielleria. Ne facevan fede i pochi saggi esposti, nei quali la preziosità della materia era d’ordine secondario in confronto alla raffinatezza del gusto. Taccio delle altre nazioni espositrici che non avevano nulla di singolare da mettere in mostra.
Dovunque, nell’oreficeria, si notava un senso di disorientaniento, un vano tentare per vie diverse, un non raggiungere mai effetti che avessero una vera serietà e dignità d’arte.
Perciò apprezzavamo i gioielli del milanese Ravasco, il quale ha capito qual sia la via giusta, anche se finora non sia giunto lontano. Egli è partito dallo studio delle oreficerie del Cinquecento e s’è messo ad interpretarle con intenti di modernità. Dotato di sensibilità istintiva nell’accordare i colori, persuaso dai suoi maestri antichi che non tanto vale la gemma quanto il modo d’incastonarla e di metterla in luce, egli è riuscito a comporre piccoli capolavori d’ingegnosità e di gusto, specialmente in certe scatole o coppe o teche scavate nelle pietre dure, dall’agata alla malachite e impreziosite dalle gemme orientali altrettanto quanto dai coralli e dagli smalti.
Cosi egli torna alla tradizione celliniana del trarre suggerimento di forme da una perla scaramazza o da uno smeraldo venato, fino a trasformarli in corpi di chimere o in creste di draghi. Se egli fosse meno orefice e più artista, egli avrebbe anche meglio progredito sulla retta via nella quale s’è messo. Lo incatena e lo trattiene finora un che di pavido e timoroso che lo fa rimanere troppo aderente ai modelli antichi od alla moda corrente. Ma per poco ch’egli avanzi, ch’egli si liberi da reminiscenze e da prudenze eccessive, ch’egli semplifichi e chiarifichi la sua vena, potrà veramente vantarsi d’aver contribuito al risorgere dell’arte d’oreficeria.
Del resto come volete che l’oreficeria, arte quant’altra mai ornamentale, s’orienti in forme di stile quando siamo in un periodo di ricerca e di ricostruzione, quando sulle forme architettoniche sfrondate e rinnovate non ancora s’è trovato l’ornamento che conviene? I gioielli egizi nascevano dalle foglie di loto dei capitelli come quelli romani dall’acanto; i monili bisantini si distaccavano dai musaici delle basiliche e dai trafori dei pulvini, come quelli del Settecento dai capricci delle volute di marmo e di stucco. Dalle nude e crude strutture del cemento armato quale ispirazione volete che traggano finora gli orafi attuali?

ROBERTO PAPINI

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