LE ARTI A PARIGI NEL 1925
TERZO : I METALLI.
Per intenderci sul lavoro artistico dei metalli, nobili
e plebei, dall’oro al ferro, pochissime considerazioni basteranno.
Vige prima di tutto da infiniti secoli nella storia delle arti chiamate
minori una legge generalissima che impone agli artisti creatori ed agli
artieri esecutori di non perdere mai di vista il “senso” del
materiale che adoperano. È quella che ho chiamato legge dell’aderenza
alla materia impiegata. Non si può senza pena sicura di insuccesso
confondere l’una con l’altra le caratteristiche d’ogni
materia, adattare forme proprie del legno ai metalli o dell’argilla
al marmo o del vetro all’avorio e via dicendo. L’artista deve
creare vedendo già l’opera sua eseguita nella determinata
materia per cui la pensa. Gli antichi maestri furono magnifici di umiltà
e di obbedienza a questa legge, che essi costantemente intuirono ed ingegnosamente
applicarono.
Chi volesse di ciò una più lunga dimostrazione la cerchi
nel mio libro Le Arti a Monza nel MCMXXIII, dove il concetto fondamentale
è affermato, esemplificato e ribadito.
Per quanto riguarda le arti che trattano i metalli, da quella del fabbro
e del calderaio a quella dell’orafo, la legge generale naturalmente
predomina. Ma v’è anche di più; v’è la
necessità per l’artista di aderire al particolare modo con
cui il metallo deve essere trattato. Il fatto che sia fuso o laminato
o martellato o battuto o sbalzato o cesellato non può e non deve
essere indifferente per l’artista poichè ognuno di quei modi
o di quelle tecniche obbliga ad una speciale disciplina di creazione o
di lavoro, suggerisce particolari forme di stile.
Affinchè un musicista sia un ottimo compositore di sinfonie non
basta che egli sia padrone delle leggi dell’armonia e del contrappunto
ma occorre che egli conosca la tecnica di ogni strumento dell’orchestra
sì che possa cavare dai singoli e dall’insieme il massimo
degli effetti. Non occorre per questo che egli sia provetto violinista
e pianista e clarinista nel tempo stesso - il che sarebbe impossibile
ed inutile - ma occorre che egli sappia quali sono le possibilità
di ogni strumento tanto negli a solo quanto nei pieni d’orchestra,
tanto nelle sfumature quanto nella massima sonorità.
Similmente per l’artista creatore. Egli deve conoscere ogni scaltrezza
del mestiere sì da suggerire all’esecutore i modi ed i termini;
egli deve sapere quali e quanti effetti possono esser cavati dai vari
modi di trattar la materia affinchè l’opera d’arte
abbia potenza di vita ed armonia d’equilibrio.
Premessi questi principî, è naturale che si
verificassero a Parigi i maggiori progressi nell’arte ed i migliori
saggi del gusto nelle sezioni di quei popoli che hanno raggiunto un più
elevato grado nell’organizzazione delle loro scuole d’arte.
Di quelle scuole, cioè, nelle quali l’artista e l’artiere
sono direttamente e continuamente tenuti a contatto con la materia, con
la sordità di lei all’intenzione dell’arte.
Senza scuole bene organizzate e ben condotte non si fa nulla, non si progredisce.
Tutt’al più possono nascere temperamenti privilegiati i quali,
con intuizione geniale, possono giungere, indipendentemente dall’istruzione
ricevuta, a compiere opere d’arte perfette. Ma, innanzi tutto, questi
temperamenti son rari come è raro l’apparire del genio; e
poi essi producono, dopo di loro, soltanto imitatori servili e non superatori
e sviluppatori del loro stile, appunto per la potenza e prepotenza della
loro personalità altrettanto originale quanto isolata.
La riprova più convincente era fornita dalla sezione austriaca.
L’Austria, com’è noto, possiede la più perfetta
organizzazione didattica dell’arte. Questo fatto le permette di
imprimere in ogni manifestazione il suggello d’uno stile che è
unitario e nazionale, pur nella stragrande diversità di temperamento
e di razza dei suoi artisti.
Pochi creatori e quasi tutti architetti, con Josef Hoffmann alla testa,
dànno a quello stile l’impronta; molti esecutori, che son
poi creatori di minor lena, operano in quell’ambito e producono
saggi squisiti.
La sezione austriaca era ammirabile di unità e di varietà,
specialmente negli oggetti di metallo lavorato, dalle coppe alle teche,
dai lumi ai vasi, dai gioielli ai piatti. Non v’era nulla che fosse
d’esecuzione men che perfetta; non v’era nulla che, pur nel
capriccio della fantasia, sconfinasse in volgarità.
Ora, è certo che quegli oggetti, anche se apparentemente strambi
per l’impronta di bisantinismo tipica dell’Austria d’oggi,
appartengono alle generali correnti stilistiche delle arti attuali in
Europa. La chiarezza e la semplicità geometrica delle sagome dominano
indiscutibilmente la produzione austriaca; la parsimonia massima degli
adornamenti accompagna docilmente la semplificazione della forma.
La materia è resa preziosa, anche quando non è nè
oro nè argento, dal modo com’è trattata, dalla martellatura
evidente, dalla cura e dalla perizia con cui sono ottenuti i rilievi,
gli sbalzi, le superfici lisce e le scabre, le sagome perfette, le curve
armoniose.
Un naturale senso d’eleganza e di raffinatezza guida artefici così
padroni dei loro mezzi, così esperti d’ogni accorgimento.
Vi sono cose che possono urtare contro il nostro gusto italico, ostile
agli eccessi anche nella raffinatezza; ma non v’e nulla che sia
volgare o sciatto, nulla che non rientri nelle generali tendenze del gusto
d’oggi.
Guardiamo alla Germania attraverso la Svizzera che la segue. Qui la preziosità
un poco morbosa dell’Austria sparisce per dar luogo ad una gravità
più severa e più razionale. Il gusto germanico ha sempre
in sè qualcosa di barbarico e quindi di geometrico e crudo.
In ogni modo i prodotti della Svizzera, altra nazione che possiede scuole
magnificamente organizzate e condotte, si distinguevano fra gli altri
per una nettezza di sagome quasi elementare, accompagnata da un’esecuzione
perfetta. Parlo sempre di vasi, di coppe, di piatti, di teche in metallo
sbalzato e martellato, dal bronzo all’argento. Dell’oreficeria
vera e propria parlerò fra poco con melanconiche constatazioni.
Anche nella sezione svizzera l’ispirazione dagli architetti era
evidente. Ispirazione cioè immune dai capricci inutili, dalle fantasie
bizzarre che non hanno aderenza con la pratica della vita. L’architetto
degno di questo nome ha una sua logica struttiva anche quando disegna
un bricco od una coppa. Non si lascia travolgere da uno spirito decorativo
soverchiante perchè vuole prima di tutto guardare alla sagoma generale,
alle proporzioni fra le parti, alla ritmica preordinata nella sua creazione.
E ciò avviene massimamente in tempi come questi in cui la struttura
d’una casa come d’un mobile come d’una coppa, ha da
essere evidente e razionalmente concepita.
L’amoroso connubio che abbiamo notato nelle architetture e nel mobilio
della Danimarca e della Svezia fra classicismo e razionalismo, lo ritroviamo
anche nelle arti del metallo di quei paesi. Si direbbe che vi s’è
maturato un gusto cui si potrebbe attribuire l’appellativo di neo-ellenismo.
Vien fatto di ripensare a certi tripodi bronzei ritrovati a Pompei, a
certi specchi etruschi e a certe ciste della tarda età nei quali
l’esilità elegante della forma s’impreziosisce con
la minima quantità possibile d’ornamentazione: un rabesco
graffito, una testina di faunetto, una foglia, una pigna, un fiore, un
puttino, una farfalla.
Danesi e svedesi, nei saggi che hanno esposto a Parigi, procedono con
la stessa semplicità. Concepiscono prima di tutto l’oggetto
nella sua sagoma elementare e schematica, tendono all’esilità
elegante delle proporzioni, alla razionalità evidente delle forme;
poi rialzano il tono dell’oggetto con quel poco di grazia ornamentale
ch’è indispensabile ad ottenere un effetto di raffinatezza
estrema.
E' inutile sottolineare che anche quei prodotti scandinavi hanno la perfetta
esecuzione che viene ai loro artefici dalla saggia e metodica istruzione
ricevuta nelle scuole.
Ma mentre gli austriaci prendono da Bisanzio i modelli della loro ricca
fantasia, mentre i tedeschi e gli svizzeri attingono alle fonti barbariche
la rigidezza teoretica del loro stile, gli scandinavi si rivolgono a quelle
fonti classiche greche e romane che i loro antenati videro attraverso
PallIadio nel tardo Cinquecento ed attraverso Canova all’epoca di
Thorwaldsen. L’anima delle razze eternamente risorge e si rivela
nell’arte.
Le arti dei metalli non ebbero mai molto favore in Francia.
Lo aveva notato, ai tempi suoi, Benvenuto Cellini; lo notiamo, più
modestamente, anche noi.
A vedere la vasta sezione che, nell’esposizione parigina, era riservata
agli argentieri, ai calderai, ai fabbricanti in genere d’oggetti
d’arte in metallo, s’aveva la penosa impressione di qualche
cosa di vecchio, d’abitudinario, di mediocre; salvo in pochi esempi
di cui offro, a titolo di lode, la riproduzione fotografica, non appariva
neppur lontanamente l’alba dei tempi nuovi. Ed anche quegli esempi
lodevoli non sono certo all’altezza, per genialità e modernità
di spirito, dei modelli esposti dalle nazioni dianzi citate.
Si direbbe che lo spirito commerciale soffochi ogni arditezza e lasci
camminare gli artisti per le vie battute, care alla clientela vecchiotta
ed abitudinaria. Dov’è negli argentieri francesi lo spirito
rivoluzionario degli architetti loro conterranei? Dov’è in
essi l’eleganza sottile dei mobilieri? Non mostrano neppure la proba
semplicità degli inglesi, tutti intenti a ripetere le vecchie formule
che han posto l’argenteria della Gran Brettagna in quelle posizioni
d’avanguardia sulle quali da quarant’anni s’è
fermata, immobile quanto dignitosa.
Le cose vanno anche peggio nel Belgio, nella cui sezione non abbiamo saputo
trovare un solo pezzo degno di rilievo. Artisti e fabbricanti mancano,
nel Belgio come in Francia, della qualità prima per avanzare: l’ardire.
Essi sono un po’ sempre sotto l’incubo dei tedeschi dai quali
vogliono differenziarsi, senza che, per ora, vi sieno riusciti. E, d’altra
parte, essi trascinano ancora il decrepito bagaglio dello stile Liberty,
d’infausta epidemica memoria. Così, fra vecchio e nuovo,
stanno indecisi e perplessi, nè sentono finora il deciso richiamo
alla semplicità, alla razionalità struttiva, alle norme
del gusto moderno.
Senza attribuire tutta la colpa di questo fenomeno alla deficiente organizzazione
didattica, vogliamo notare che in Francia come nel Belgio come in Inghilterra
non esistono scuole d’arte che possano neppur lontanamente paragonarsi
a quelle dell’Austria, della Germania e dei paesi scandinavi.
Dell’Olanda, della Russia, della Cecoslovacchia, della Jugoslavia
e dei molti altri popoli espositori non parlo perchè trascurabili
sono le loro manifestazioni arti dei metalli, comprese le solite riproduzioni
dell’arte contadinesca, ormai abusata. E dell’italia non posso
parlare perchè non s’è trovato nessuno da presentare
a Parigi se ne togliamo Renato Brozzi, sensibilissimo sbalzatore di lamine
metalliche sugli orli dei piatti e sui coperchi delle tabacchiere, là
dove figura i suoi cari armenti, i suoi prediletti volatili, dall’aquila
alla colomba, ma incapace di creare l’architettura di nuove forme,
l’impronta d’un compiuto stile.
Nell’arte dei metalli la Francia si salva con i ferri
battuti di Edgar Brandt. Tutto ciò che v’era d’essenzialmente
elegante nel Settecento francese, tutto ciò che v’è
di sostanzialmente prezioso nelle mode parigine ricompare in quei ferri
battuti.
La grazia e l’eleganza dei motivi, la sapiente distribuzione dei
vuoti e dei pieni, la preziosità del rabesco, conquistano di primo
acchito. V’è qualche cosa di suadente nel modo di accoppiare
certe rigidezze di linee dritte con la flessuosità degli steli
che s’attorcono fra fiori, foglie e piume; nella sapienza del mescolare
lo sbalzo con la forgiatura; nella maniera di trasformare ogni ispirazione
della natura in forme di stile.
Ma è poi totalmente pura quest’arte sottile del Brandt? É
poi veramente sana quella sua tendenza? Se noi esaminiamo quei ferri battuti
troviamo facilmente qualche impurità di tecnica che i nostri antichi
e schietti fabbri avrebbero disdegnato. Si sente la presenza di saldature,
di bulonature che sono evidentemente di ripiego. Si sente che quelle cancellate,
quelle porte e quegli schermi sono composti con il metodo d’un orafo
che componga filigrane. E allora ci accorgiamo di tutte le concessioni
che l’artista ha dovuto fare alla graziosità della moda.
Quei ferri son troppo vicini ai merletti per essere pienamente espressivi
della ruvidezza della materia. Sono ornamenti squisiti per il salottino
della dama, per la bottega di mode, per la cancellata del giardinetto
segreto, tutto fiorellini e siepoline di bosso tonduto. Ma provate quell’arte
stessa nella cancellata d’una cappella o nell’inferriata d’un
palazzo, paragonatela a ciò che gli antichi facevano di divinamente
rude e di veramente ferreo; allora vi persuaderete che la stessa preziosità
di quell’arte ne limita il respiro e la vita.
Certo noi italiani non opponevamo a quell’arte in Parigi nulla di
migliore; nè le altre nazioni facevano di più. Noi mostravamo
i ferri battuti dal Mazzucotelli che è il nostro pioniere in quell’arte,
colui che ha avuto il gran vanto di tentare nuove vie con coraggio, valendosi
della sua perfetta conoscenza del mestiere; mostravamo i ferri battuti
del Rizzarda che rappresenta sul Mazzucotelli una maturazione ed un progresso;
ma entrambi risentono un po’ troppo del complicato gusto lombardo
e non hanno finora sentito il bisogno di semplificare, sfrondare, potare
le troppe rame secche dei loro alberi rigogliosi. Per chi, come loro,
conosce bene ogni accorgimento tecnico, è facile cadere nel virtuosismo,
nell’ostentazione della bravura e perdere di vista il ritmo dell’architettura
essenziale.
Vorremmo che la vigorìa veramente fabbrile dei nostri italiani
temperasse la grazia un po’ decadente del Brandt e che, d’altra
parte, il senso di sovrano equilibrio visibile nelle opere di questi,
dirigesse i nostri per le vie auguste della semplicità. Allora
si avrebbero i ferri battuti ideali per rappresentare il gusto dell’epoca
nostra.
Ho voluto parlare in ultimo dei gioielli poichè le
considerazioni sull’arte degli orafi possono riassumere e concludere
le osservazioni sui metalli.
Gli ultimi veri orefici furono quelli del Settecento. Il secolo XIX snaturò
e fece precipitare l’arte dei gioiellieri. La quale arte, quand’è
vera, non consiste affatto nello stupire con la grossezza e la limpidezza
delle gemme incastonate in cumuli chiassosi d’argento, di platino
o d’oro. Ma consiste piuttosto negli accordi delicati delle luci
e dei riflessi, nella maniera sapiente di trarre partito anche dai materiali
meno preziosi quando giochino per armonia o per contrasto, nel non permettere
mai che il valore bruto e venale delle pietre o dei metalli prenda il
sopravvento sul valore ideale ed eterno dell’arte.
L’arte dell’orafo dev’essere insomma supremamente ingegnosa
e divinamente raffinata; è la più sottile e la più
esperta, quella che è insieme architettura e scultura e pittura
nelle minime dimensioni. Non per nulla i nostri grandi del Quattro e del
Cinquecento furono educati quasi tutti nelle botteghe degli orafi.
Ora, tutto questo non fu compreso nell’Ottocento, nel secolo in
cui la fissazione veristica paralizzò ogni ricerca di stile. Oggi
si deve fare, con fatica grande, il cammino a ritroso.
Purtroppo la manìa rigattiera perniciosamente diffusa nel gusto
moderno continua ad imperare nei laboratori degli orefici, i quali non
sanno spesso far altro che scimmiottare gli stili del passato, non per
amore dei modelli antichi ma per pigrizia, per viltà, per lusinga
dei più banali gusti della clientela. Poichè le imitazioni
delle anticaglie erano provvidamente escluse dall’esposizione parigina
s’è visto di quanta povertà di fantasia e di stile
soffra l’oreficeria moderna.
Parigi, capitale della moda, offriva ai buoni borghesi i gioielli più
rutilanti e fastosi che si possano immaginare. Ma se la materia era ricca,
l’ arte era misera e quasi infantile. Alcuni orefici parigini si
son subito buttati al cosidetto avanguardismo futurista e cubista: con
gli smalti, con le pietre squadrate e sfaccettate, con le varie patine
dell’oro, con tutte le ricchezze a disposizione non sono riusciti
in fondo, che a comporre geometrie colorate d’un gusto fra snobistico
ed infantile. Altri orefici parigini, come il solenne Cartier, si son
messi a sfruttare l’estremo Oriente ed hanno scolpito le pietre
preziose quasi fossero cristalli od onici: si son visti grossi smeraldi
scolpiti in modo da raggiungere presso a poco l’effetto delle giade,
come chi volesse con l’oro imitare il bronzo. In tutti la preoccupazione
assillante di far qualcosa d’insolito e, nel tempo stesso, di secondare
il gusto corrente: sforzo veramente penoso che non ha nulla a che fare
con l’arte.
Se Vienna non fosse nello stato di crisi monetaria che tutti sanno avrebbe
probabilmente tenuto uno dei primi posti anche nella gioielleria. Ne facevan
fede i pochi saggi esposti, nei quali la preziosità della materia
era d’ordine secondario in confronto alla raffinatezza del gusto.
Taccio delle altre nazioni espositrici che non avevano nulla di singolare
da mettere in mostra.
Dovunque, nell’oreficeria, si notava un senso di disorientaniento,
un vano tentare per vie diverse, un non raggiungere mai effetti che avessero
una vera serietà e dignità d’arte.
Perciò apprezzavamo i gioielli del milanese Ravasco, il quale ha
capito qual sia la via giusta, anche se finora non sia giunto lontano.
Egli è partito dallo studio delle oreficerie del Cinquecento e
s’è messo ad interpretarle con intenti di modernità.
Dotato di sensibilità istintiva nell’accordare i colori,
persuaso dai suoi maestri antichi che non tanto vale la gemma quanto il
modo d’incastonarla e di metterla in luce, egli è riuscito
a comporre piccoli capolavori d’ingegnosità e di gusto, specialmente
in certe scatole o coppe o teche scavate nelle pietre dure, dall’agata
alla malachite e impreziosite dalle gemme orientali altrettanto quanto
dai coralli e dagli smalti.
Cosi egli torna alla tradizione celliniana del trarre suggerimento di
forme da una perla scaramazza o da uno smeraldo venato, fino a trasformarli
in corpi di chimere o in creste di draghi. Se egli fosse meno orefice
e più artista, egli avrebbe anche meglio progredito sulla retta
via nella quale s’è messo. Lo incatena e lo trattiene finora
un che di pavido e timoroso che lo fa rimanere troppo aderente ai modelli
antichi od alla moda corrente. Ma per poco ch’egli avanzi, ch’egli
si liberi da reminiscenze e da prudenze eccessive, ch’egli semplifichi
e chiarifichi la sua vena, potrà veramente vantarsi d’aver
contribuito al risorgere dell’arte d’oreficeria.
Del resto come volete che l’oreficeria, arte quant’altra mai
ornamentale, s’orienti in forme di stile quando siamo in un periodo
di ricerca e di ricostruzione, quando sulle forme architettoniche sfrondate
e rinnovate non ancora s’è trovato l’ornamento che
conviene? I gioielli egizi nascevano dalle foglie di loto dei capitelli
come quelli romani dall’acanto; i monili bisantini si distaccavano
dai musaici delle basiliche e dai trafori dei pulvini, come quelli del
Settecento dai capricci delle volute di marmo e di stucco. Dalle nude
e crude strutture del cemento armato quale ispirazione volete che traggano
finora gli orafi attuali?
ROBERTO PAPINI
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