L'ARCHITETTURA
ALLA TERZA BIENNALE ROMANA
La prima biennale romana ebbe il merito d’ospitare una larga
rappresentanza dell’architettura. Tendenze nuove e vecchiume
vi si confondevano con una promiscuità che è propria
dei tentativi iniziali. La seconda biennale volle esser tutta, intransigentemente,
pittura e scultura. Forse se ne trovò male. Fatto sta che la
terza ha nuovamente accolto la sezione architettura; e la graduale
unificazione delle tendenze artistiche di questi ultimi tempi, nonchè
la maggiore educazione architettonica hanno fatto escludere tutto ciò
che rappresentava la cianfrusaglia banale ripetuta sino alta sazietà.
Nelle due grandi sale della «serra» si sono allineate non
molte opere ma quasi tutte buone.
Parecchie di esse furono già riprodotte in questa rivista e perciò
non riteniamo opportuno di ripeterle (tranne l’interno dell’arco
di trionfo di Limongelli, perchè trattasi di una variante inedita).
Altre sono invece completamente nuove o almeno, come dicono gli attori,
nuove per queste scene, e perciò, con vero piacere, le ospitiamo.
Commenti sarebbe inopportuno ed inutile farne. Vale più una
riproduzione che cento arabeschi letterari dei soliti critici.
A titolo di cronaca rileviamo soltanto che nella mostra si distinguevano
tra le opere isolate, due gruppi omogenei: quello dell’Istituto
delle case popolari e l’altro dell’Ufficio Architettura
e dell’Ufficio Piano regolatore del Comune di Roma.
Come i lettori ben sanno l’Istituto delle case popolari reputa
che casa bella non voglia dir sempre casa costosa. Perciò tutti
i suoi sforzi son volti a conciliare la maggiore economia con le esigenze
della costruzione solida e ben distribuita, che è particolarmente
reclamata dall’ambiente romano.
Anche nel Comune di Roma (e, dobbiamo pur dillo, sotto l’attuale
amministrazione straordinaria) si nota una grande sensibilità
per l’arte. I suoi uffici tecnici raccolgono energie giovanili
e assai ben quotate.
Ciononostante non si disprezza l’opera esterna, e, a dimostrazione
di questo, vi sono i numerosi concorsi che il Comune ha spesso affidato
a sodalizi artistici perchè fossero banditi con le norme più
corrette, Analogamente si è pure comportato l’Istituto
per le Case Popolari.
A esposizione chiusa dobbiamo confessare che il pubblico ha mostrato
di interessarsi ancor più delle altre volte alla sezione dell’architettura.
E questa è la riprova che le esposizioni di architettura si debbono
fare pur usando certe limitazioni.
Molti tecnici torceranno la bocca a queste mie affermazioni. Le prospettive
- essi rilevano - sono molto spesso una falsificazione della realtà.
Più affine al vero è il bozzetto in istucco, ma gli manca
l’ambiente, ed un’opera d’arte architettonica è
sempre, checchè si dica, strettamente legata all’ambiente.
Che cosa quindi noi andiamo ad esporre? Una pittura, o un rilievo come
tanti altri. Prendete la Scuola d’Atene di Raffaello e cavatevi
i personaggi: Ecco una prospettiva dell’interno di un edificio.
Costruibile? E chi lo sa? Bisognerebbe vedere all’atto pratico
giacchè tracciare un segno è più... disinvolto
che mettere pietra su pietra. D’altra parte come certi grandi
scrittori hanno una brutta calligrafia, così certi grandi architetti
disegnano male. Mi dicono di uno che non sa affatto disegnare, ma che
quando deve fare un progetto gira in carrozzella per la città
(è una città della grande arte), si ferma davanti a certi
palazzi o chiese e ne addita alcuni particolari al suo aiutante dicendogli:
Nel progetto metterai una finestra di quel tipo e una porta come questa.
E per la cornice, prendi il modello da quest’altra. Non diversamente
Bramante ordinava al suo fidatissimo Menincantonio di rilevare certe
trabeazioni del Pantheon per uso del nuovo S. Pietro.
Morale: Il progetto che si mostra al gran pubblico è assai spesso
disegnato da un modesto collaboratore. E il pubblico, nella sua incredibile
ingenuità, che cosa ammira in sostanza? Il bel disegnino a penna
o a lapis, il vivace acquerello, il plastico ben trattato. Questa non
è tanto architettura quanto pittura, o scultura.
Tutto ciò è vero. Ed appunto in considerazione di tali
difficoltà che fa mestieri imporre le limitazioni di cui parlavo.
Anzitutto una mostra di architettura dovrebb’essere concepita,
secondo me, come un aggregato di mostre personali, o di gruppi che abbiano
direttive comuni, ovvero di opere raccolte da un ente pubblico o privato
che svolga una particolare attività edilizia. Il pubblico si
deve orientare, e perciò si raccapezzerebbe assai poco (meno
assai che in pittura e in scultura) nel vedere accanto alla chiesa
del Raincy (diamo esempi stranieri... per non urtare suscettibilità
nostrane) dei fratelli Perret, la stazione di Pennsylvania degli Architetti
Mc. Kim, Mead and White. Anche nel caso di mostre particolari d’enti,
bisognerebbe ricercare una certa omogeneità.
La mostra personale è sempre una rivelazione, giacchè
all’artista è permesso di mettere in evidenza tutte le
variazioni del suo spirito. A un certo punto sparisce, dinanzi all’osservatore
ciò che è mero graficismo (dovuto spesso ad aiuti) per
rimanere come costante, come unica denominatrice la personalità
dell’artista che quelle opere ha generato.
Il gruppo con direttive comuni suscita sempre un alto interesse poichè
il pubblico vi sorprende la formazione di una corrente che, se accetta
alle masse, potrà aver domani impensati sviluppi e forse improntare
di sè tutta l’arte nazionale. E' una vera fortuna quando
il gruppo corrisponda ad una unità geografica, per esempio ad
una regione, giacchè si può vedere quanto abbia in esso
influito l’ambiente, quanto le tendenze etniche.
Il caso dell’ente pubblico o privato serve a rivelare l’indirizzo
estetico, la perfezione tecnica raggiunta dai singoli istituti. Il che
può suscitare l’emulazione in altri e produrre benefici
effetti per le popolazioni. Quando espone una scuola (e ci piace di
rammentare in proposito il bel successo ottenuto dalle nostre scuole
alla mostra del Congresso di Educazione Architettonica in Londra) è
ovvio quali importanti deduzioni possano trarsi circa la media intellettuale
dei discenti e l’abilità didattica dei docenti. Errori
o semplici difetti potranno essere attenuati in base al giudizio che
darà la critica non compiacente.
Ecco dunque le parti ben definite di una esposizione d’architettura.
Opere isolate, biglietti da visita sia pure di nomi illustri dovrebbero
essere sbanditi del tutto, o per lo meno guardati in cagnesco.
In quanto al tipo di materiale da esporre, io non sono del parere di
coloro che avversano le fotografie. A differenza delle altre arti, la
fotografia è per l’architettura la prova di un lavoro che
non si è arrestato alla semplice ideazione, ma è venuto
a contatto con la... dura realtà dei materiali. Il progetto sta
all’edificio costruito molto meno che il bozzettino di creta alla
grande statua di marmo. Perciò la stupida apparenza della positiva
fotografica è compensata dal valore effettivo di ciò
che essa mostra. Naturalmente si vorrebbe che le fotografie fossero
grandi ed eseguite con tutte le risorse della moderna tecnica fotografica
per ottenere il massimo della nitidezza.
E si vorrebbe pure che i plastici non avessero quel biancore di gesso,
quell’aspetto «rognoso» che troppo spesso si dà
loro nell’intento di attribuire una spigliatezza che manca alla
concezione. Chi ha veduto il progetto di Michelangelo e del Fontana
per la cupola di S. Pietro, o quello di Sangallo junior per la basilica
stessa, comprende che il plastico può essere anch’esso
una grande opera d’arte.
Concludendo: Le Mostre di Architettura si debbon fare ed ora che siamo
agli inizi c'è mezzo di studiarle e di approntarle secondo le
specialissime esigenze che le contraddistinguono. Però io non
le vedo che isolate, o anche unite a mostre d’arte decorativa
(intendo la decorazione che può servire all’edificio come
al suo arredamento). In ogni modo è escluso, a parer mio, che
l’esposizione d’architettura abbia qualcosa di comune con
la scultura assoluta e indipendente, o con la pittura da cavalletto.
CARLO CECCHELLI