FASCICOLO XI E XII LUGLIO - AGOSTO 1925
ROBERTO PAPINI: Botteghe e vetrine di Roma, con 40 illustrazioni

BOTTEGHE E VETRINE DI ROMA

I

Le note che vado scrivendo avrei dovuto scriverle da un pezzo. Nella rivista di Henry Lapauze che s’intitola, non senza gonfiezza, La renaissance de l’art Français et des industries de luxe, e precisamente nel fascicolo di novembre del 1923, comparve un articolo in cui si parla di alcune fra le più recenti vetrine di botteghe parigine dinanzi alle quali «lo straniero, il provinciale che visitano Parigi non sono i soli ad estasiarsi per la felicità dei loro occhi». Di ciò che si fa all’estero, provincia di Parigi, e massime in Italia, silenzio assoluto.
Nel numero di Capodanno 1924 dell’Architects’ Journal che si pubblica a Londra, ben quattro articoli largamente illustrati vanno magnificando ciò che compare a Londra, a Parigi, a New York in fatto di mostre di botteghe. Dell’Italia silenzio perfetto. A tali silenzi, sintomi chiari di sprezzante oblio, siamo così abituati che neppure vogliamo rammaricarcene. Il tempo è galantuomo per chi sa lavorare senza lo strepito della grancassa. Vedremo fra non molto di quale rinascita dovrà accorgersi il mondo e speriamo che la vita ci basti per giungere a gustare una tal gioia.
Ma intanto, così fra noi, in confidenza, possiamo ben vantarci di quel che si fa, anche prima che gli straniéri lo facciano e se ne accorgano, non senza aprire gli occhi su qualche errore o degenerazione in cui, cammin facendo, avviene di cadere.
Così, se queste note sulle botteghe e sulle vetrine di Roma giungono in ritardo rispetto alle segnalazioni molteplici dei progressi altrui, non sarà gran male. Chè, nel frattempo, accanto alla giusta fierezza per i sintomi di un palese rinnovamento italiano, anche in questo campo dell’architettura e delle arti decorative, è nata la constatazione di ciò che non si dovrebbe fare per non perdere quel senso dell’equilibrio e della misura che sono caratteri secolari del gusto della nostra razza. Veder chiari i pericoli che s’incontrano per via significa esser pronti a schivarli, procedere con più guardinga speditezza verso la mèta.

C’è ancora bisogno di notare come per troppi anni fosse mostruosa la concezione dell’aspetto esterno ed interno d’una bottega, e non soltanto da noi?
Ora che son tornate in luce le linde botteghe della via dell’Abbondanza a Pompei, con le loro insegne dipinte, coi loro sporti architettonici, con le loro decorazioni interne, sembra ancor più stupefacente, e certo vergognoso, l’infierire del cattivo gusto nelle mostre bottegaie durante l’epoca che ci ha immediatamente preceduto.
Per accorgerci di quale forza d’espansione fossero capaci in tale epoca la banalità e la volgarità basta osservare quelle botteghe del Ponte vecchio a Firenze che subirono una trasformazione alla fine dell’Ottocento o al principio del secolo nostro. Era il tempo degli sventramenti e dei rettifili, quando l’infatuazione per la comoda igiene ottenebrava ogni senso di poesia dei vecchi ambienti e si credeva che rimodernare, per esempio, una bottega equivalesse ad aprire uno sporto quanto più largo fosse possibile attirandovi con ogni mezzo la volgare e pacchiana curiosità dei passanti. Proprio sul Ponte vecchio, dove, accanto alle modeste botteghe antiche con gli sportelloni a ribalta, tuttora rimangono le brutture perpetrate per distruggere tanta intimità e poesia d’ambiente, il fenomeno appare in tutta la sua disperante imponenza.
In quel tempo fu una gara in ogni città per creare quanto di più falso e vistoso si poteva concepire in fatto di mostre di botteghe. La tinta ad olio mirabilmente si prestò per la profusione dei falsi legni, delle false pietre, dei falsi marmi; quintali di porporina vollero dare l’illusione dell’argento e dell’oro: tonnellate di vetro furono cosparse a tergo di bitume, di cinabro, di turchino, di verde per far risultare le auree lettere delle iscrizioni bistorte, infiocchettate, ricamate, adorne dei più fantasiosi svolazzi partoriti dalla fantasia capricciosa di un calligrafo di professione: stipiti e cornici si vergognarono d’essere di pietra o di marmo e si compiacquero di farsi verniciare come noce artefatto o mogano finto: la ghisa, la stessa ghisa con cui il genio architettonico contemporaneo creava l’ineffabile gotico dei ponti sul Canal grande e diffondeva un po’ dovunque lo stile ferroviario, compiva l’opera stampando sfingi e leoni, draghi e chimere a bonissimo mercato, delizia grande dei bottegai d’ogni paese per la mostra del loro pomposo negozio.
Poi vennero le saracinesche di lamiera ondulata. E allora nessuno seppe inventare niente di meglio di una specie di cassettone in legno e vetro per nascondere il rotolo della chiusura avvolgibile, tuttora ammirabile nella più gran parte delle botteghe d’ogni città. Quell’architrave ipertrofico, fierezza del negoziante che vi contempla il proprio nome a lettere d’oro, incombe sulle mostre delle botteghe come una testa di gigante sul corpo d’un nano, troneggia, panciuto e massiccio sulle vetrine gracili, ostenta con pompa le frange di latta e gli smerli di vetro.
Nè vale descrivere in simili botteghe l’affastellarsi pettegolo d’ogni sorta di mercanzia, sciorinata nelle vetrine immoderatamente. Non credo che vi possa essere persona di buon gusto capace di ricordare ciò che si fece (e purtroppo da molti si continua a fare) senza sperare che gli odierni sintomi di rinnovamento preludano ad una migliore comprensione dell’estetica stradale.
Poichè ormai abbiamo fatto un po’ l’abitudine a tante brutture e quasi non ci accorgiamo dell’importanza che la bottega ha assunto nell’aspetto d’ una città moderna. E pure non v'è quasi più casa o palazzo che non abolisca le finestre del piano terreno per trasformarle in sporti da negozio. L'architettura stessa degli edifici ne è cambiata col mutamento esterno del piano terreno, talchè oggi, per tanta mancanza di rispetto delle botteghe verso l’edificio che le ospita, si può dire che ogni prospetto architettonico cominci a valere dal primo piano in su. È tollerabile questo sovvertimento? È ammissibile che i regolamenti edilizi continuino ad ignorare l’imponente invasione delle botteghe senza impartire norme severe affinchè l’estetica delle vie cittadine sia salvata da più numerosi pervertimenti?
Il problema da risolvere è vasto ed ha singolare importanza per noi italiani che una volta eravamo maestri al mondo di estetica stradale. Nè mi propongo certo in un articolo di studiarne le soluzioni, ma piuttosto di indicare come certe soluzioni si maturino spontaneamente, per la sazietà e la nausea che son prodotte fatalmente dall’abuso della volgarità.

Per ora vediamo ciò che s’ è fatto e si fa a Roma in questi ultimi anni.
La stessa maestà architettonica di Roma ha suggerito un tipo di bottega che si va sempre più diffondendo, come per moda. O meglio sarebbe dire che quel tipo di bottega architettonicamente concepita che nacque pochi anni or sono nelle vie di Parigi ha trovato un suo naturale sviluppo nell’ambiente romano. È un sintomo confortante del miglioramento generale del gusto; e la moda del negozio semplice, austero, nella cui vetrina poche mercanzie trionfano in armonica e parsimoniosa disposizione sia la benvenuta fra noi.
Quale sia il contrasto fra il vecchio e il nuovo tipo di botteghe giudichi il lettore dalla fotografia in cui è riprodotta il pian terreno di un palazzo al Corso Umberto che è uno dei più gustosi ed eleganti esempi del barocchetto romano (v. a pag. 494). Dal lato sinistro del portone sta il negozio di chincaglierie Duranti che ha una assoluta mancanza di rispetto per l’architettura in mezzo alla quale è volgarmente incastrato con le sue vetrine da bazar; dal lato destro sono le sobrie, armoniche, tranquille riquadrature della Transatlantica italiana che ben s’accordano col portale e col balcone e che costituiscono una buona base di travertino per l’architettura della facciata.
Anche mi piace di citate l’esempio di quella Casa della moda sportiva che occupa il pianterreno dello stabile in faccia alla Fontana di Trevi; nel rimodernare la bottega vennero in luce gli avanzi di due di quei portici caratteristici della Roma medievale che gli antichi nostri facevano con materiale frammentario, come ancora si vede in numerosi esempi delle vie di Tivoli. L’Arch. Mario Loreti si trovò quindi di fronte alla necessità di conservare i due portici e risolse elegantemente il problema alveolando le colonne entro pilastri di mattoni a cortina e completando la fronte con semplici sporti rettangolari là dove di portici non era traccia alcuna. Esempio questo mirabile di rispetto all’antico e di signorilità tanto nel proprietario del negozio quanto nell’architetto, specialmente in un’ambiente come Piazza di Trevi, consacrato dall’ammirazione del mondo.
Una delle prime botteghe comparse a Roma nel nuovo tipo è quella che fu dell’orafo Masetti - Fedi nel Corso Umberto sull’angolo di Via delle Vite, disegnata dall’arch. Federico Boccini, che in questo genere di mostre può considerarsi un precursore fra i giovani architetti. In una graziosa casa settecentesca le due grandi vetrine arcuate e la più piccola porta sono collegate da un fascione di travertino decorato di fanali e una gran cartella curva, pure in travertino, forma il raccordo angolare dell’unico complesso architettonico ben intonato alle sagome generali dell’edificio, sobrio e severo.
La maggior parte delle nuove botteghe romane hanno, come è naturale, sagome seicentesche o settecentesche dettate dall’ambiente. Così l’architetto Armando Brasini ha concepito la mostra del negozio Franceschini al Corso Umberto come un prospetto architettonico in peperino applicato all’edificio e costituito da due larghi fornici fra i quali è incastonata una nicchia, offrendo così un esempio della sua esuberante fantasia in un complesso di linee fratte, di bugne e di cartelle alla maniera barocca.
Altrettanto ha fatto l’Arch. G. B. Milani per il negozio Jesurum in Piazza di Spagna riunendo porta e vetrina sotto il coronamento di un unico grande cartello in marmo venato di verde e riempiendo gli spazi intermedi con cartelle minori dello stesso marmo, preziosità coloristica sul grigio dell’intonaco rustico che riveste gli spazi di muro. Esempio anche questo di sobria e ben collegata architettura.
Anche ispirato a sagome barocche ma con frigida eleganza inglese è il negozio Serra nel Corso Umberto, disegnato dall’Arch. Ugo Gennari ed eseguito in travertino di Subiaco tirato a polimento, su cui spiccano lettere di bronzo: è uno dei più semplici, chiari, eleganti negozi di Roma, sebbene la voluta distinzione sia ottenuta a scapito della genialità inventiva.
Il fascino delle sagome barocche è tale che anche uno dei più arditi e geniali architetti giovani di Roma, l’Arch. Mario De Renzi, le ha ricercate e tradotte in una gustosissima modernità quando ha imaginato la mostra del negozio Braendli sul Corso, fiancheggiando il portale settecentesco con due lunghe e diritte e lisce stele che recano al sommo due lanterne in ferro battuto.
Ed ecco infine l’architetto Vittorio Morpurgo, rispettoso d’uno dei più deliziosi palazzi della Roma settecentesca, imaginare la fronte della sede della Transatlantica italiana mediante semplici incorniciature di travertino collegate da lapidi, con un senso dell’equilibrio e della misura così perfetti che vorremmo certo vedere estesa a tutta la fronte terrena del palazzo una sì linda ed armoniosa architettura.

Al gruppo delle mostre concepite sotto il fascino delle sagome barocche fan riscontro quelle che si ispirano ad una maggiore modernità di linee, talchè in alcuni casi si riducono a semplici riquadrature.
L’ufficio turistico del Moroli sulla Via del Tritone disegnato dall’Arch. G. B. Milani è fra questi: due sporti architravati di identica grandezza sono riuniti sotto un’unica trabeazione che fa da cartello ed i pilastri lisci sono riquadrati da linee di marmo scuro intarsiato nel travertino con schietta, lodevolissima semplicità.
Altrettanto sobria ed ispirata allo stesso genere di schiette riquadrature è la mostra che Marcello Piacentini ha disegnato per il negozio di mode Montorsi in Via Condotti includendo due piani nello stesso ricorrere di cornici e attenuando la rigidità delle sagome generali con la curva della bussola centrale e con le quattro lanterne a cestello che pendono da mensole adorne di putti, vere preziosità di oreficerie. A tanta semplicità armoniosa si ispirano le altre due mostre disegnate da M. Piacentini per la Casa dell’Arredamento sul Largo Argentina e per la Casa di mode Ciulla in Via Veneto, dove la parsimonia degli aggetti, la nitidezza delle squadrature, la grazia delle poche sculture decorative di Alfredo Biagini fanno anche meglio risaltare l’equilibrio delle proporzioni, la raffinatezza del gusto. Anche più semplici ma piene di garbo sono le mostre del negozio Cucci nel palazzetto dell' Ordine di Malta in Via Condotti, dove l’Arch. Venturoli s’è contentato di incorniciare gli sporti di giallo antico incastrandovi le vetrine in mogano ed ottone.
Con rigida linearità di riquadri ha concepito l’Arch. Oriolo Frezzotti il Calzaturificio “La Gloria ” in Piazza Barberini su quell’angolo stesso in cui stava un tempo la fontana delle api e v’ha appeso un grande lampione prismatico, a sagome curve, quasi pentendosi della rigidezza delle riquadrature negli sporti. Con maggior libertà e raffinatezza lo stesso architetto ha concepito la fronte della Casa del Passeggero sull’angolo di Via del Viminale risolvendo molto elegantemente il problema di un prospetto basso e largo con una scala centrale d’accesso al semi interrato e con una pensilina in ferro e vetro che collega tutta la fronte e la protegge.
Infine uno dei più moderni prospetti per semplicità e chiarezza di linee è quello disegnato dall’Arch. Mario De Renzi per la Casa di mode Anna Gauturon in Via Sistina, in finto peperino con ornamenti di bronzo e lampioni in ferro battuto, limpida ed armonica concezione architettonica impreziosita da una grande parsimonia di decorazioni.
Nè sono da dimenticare alcune altre mostre di botteghe come quella della Calzoleria Walk-Over al Tritone disegnata dall’Arch. Venturoli con delicatezza di sagome da mobili ed eseguita dall’ebanisteria Guerrieri o come l’altra della Casa d’ Arte in Via Sistina eseguita con eleganza dallo stuccatore Arcieri o come l’altra ancora della Casa di tessuti Lisio, in Via Sistina concepita alla maniera fiorentina col bugnato e la tettoia, non senza stonatura con l’ambiente, o come infine quella del Bar China Baliva al Corso che vedremo meglio parlando del modo usato nel decorare gli interni.
Certo una delle migliori è quella disegnata dall’Arch. E. Del Debbio per l’incisore De Nicola in Via Vittoria, con salde strutture romane decise e nette.

II.

Esaminate così brevemente le botteghe che in questi ultimi anni hanno assunto nel loro aspetto esteriore una dignità di arte, possiamo trarre qualche considerazione generale.
Una rivista inglese consigliava agli architetti che si pongono a disegnare botteghe di considerare ogni problema da vari punti di vista che non debbono essere dimenticati e precisamente di considerare ogni bottega dal tipo degli affari che vi si trattano, dalle merci che vi si espongono, dalla clientela che vi si deve attrarre, dalla reputazione che si deve confermare o cercare e infine dalla località in cui la bottega deve esser posta.
Non dico che tal modo di considerare il problema non abbia il suo fondo di saggezza, ma non tutti i punti di vista proposti mi sembrano ugualmente importanti e necessari.
Assai più praticamente e con più fine senso estetico ha posto il problema l’Arch. Arduino Berlam in un articolo pubblicato sull’Ingegneria dell’aprile 1925, facendovi osservazioni acute e dando pratici consigli.
Certo gli architetti romani di cui abbiamo parlato non si sono sempre resi conto della necessità di intonare la mostra della bottega al tipo di merce che vi si espone; è evidente che una gioielleria non può avere lo stesso tipo di vetrina che ha un negozio di macchine ed una bottega di mode non è analoga a quella di un cambiavalute.
Sono esempi caratteristici sotto questo punto di vista le Vetrine del Restaurant Philippe o della Profumeria Bourjois, a Parigi, del vinaio Downman a Londra o dell’argentiere Wiskemann a Bruxelles, le quali vetrine sono concepite in modo che non possono servire se non al tipo di commercio che vi si esercita e non sarebbe certo possibile scambiare la bottega del vinaio con quella del profumiere o quella dell’argentiere con l’altra della trattoria, poichè la vetrina del vinaio è tutta scompartita come se fosse lo scaffale della cantina e l’altra del profumiere mette in mostra pochissime bottigliette di essenza come se fossero gemme in una teca di cristallo e la mostra dell’argentiere ha i vetri legati con sbalzi metallici altrettanto quanto lo sono le fruttiere o le coppe o i trionfi da tavolo che si ammirano al di là di quei vetri e le mostre della trattoria sono finestre col davanzale adorno di fiori e col motivo del graticcio in alto, ricordi raffinati dell’antica osteria campestre dei colli suburbani.
Non sempre, anzi raramente, gli architetti romani pensano all’opportunità, se non alla necessità, di intonare la mostra della bottega alla qualità della merce che vi si espone. Preoccupati più di creare un'armonia architettonica che di sottostare alle esigenze del commercio, dimenticano quell’aderenza alla pratica senza la quale ogni arte è condannata alla sterile ripetizione dei motivi.
Quando, secondo l’uso dei bazar d’Oriente, le nostre città, dal Medioevo in poi, avevano intere strade e talvolta interi quartieri destinati ad un solo genere di commercio (e ne rimangono qua e là i nomi di via degli Orefici o di via dei Canestrari a Roma, di via Pellicceria a Firenze, di Merceria, Spaderia e Frezzeria a Venezia) l’indicazione esterna della mercanzia interna era forse inutile; ma nel gran caos della città moderna essa diviene un elemento di necessità ed un suggerimento agli artisti per creare motivi nuovi di linee, di masse e di colori.

Più importante di tutto nell’ideazione di una mostra di bottega è la necessità di collegarla architettonicamente alla casa od al palazzo in cui si trova. Questa necessità, che è sentita anche in città straniere, diventa assoluta nelle città italiane che hanno dall’architettura il carattere della loro bellezza.
E in ciò purtroppo gli architetti romani peccano più facilmente. La mancanza di intonazione della mostra alla facciata che la contiene diventa addirittura stridente quando due o tre delle nuove botteghe, architettonicamente concepite si trovano l’una accanto all’altra nello stesso edificio. Valga per tutte quell’esempio delle tre botteghe di Piazza di Spagna (v. a pag. 526) che si disturbano l’una con l’altra per la stridente diversità delle sagome e per la mancanza d’intonazione con le case che le contengono; poichè accanto a una porta d’una modesta e graziosa casa settecentesca c’è la bottega di G. Jacolo in cui tartarughe e coralli sono esposti in una mostra di sagome banali contrastanti con quelle della porta; e accanto ancora la bottega del parrucchiere Attilio è tutta rigida in una specie di neoclassico, vicina alla bottega della casa di mode Odette con stipiti lisci e una lastra marmorea per insegna. Ne risulta un vero pasticcio.
Ma, anche ammesso che una sola bottega con varie vetrine occupi tutto il pianterreno di una casa, non per questo essa deve far corpo a sè e straniarsi dall’architettura della facciata in cui viene ad essere inclusa. E se la casa sarà architettata con un deciso carattere ed un determinato stile, i vincoli imposti a chi disegna la bottega saranno maggiori; chè se invece quel carattere e quello stile mancheranno per aver ceduto il campo ad una qualsiasi banalità sarà merito di chi ha disegnato le mostre se il tono dell’edificio ne sarà rialzato e tutta la facciata rimarrà nobilitata.
È un assurdo estetico quello di creare un’architettura dentro un’altra e lasciarle così, indipendenti fra loro, senza nesso alcuno. Si sopportano malamente le sovrapposizioni e contaminazioni fatte in passato e si può talora riconoscere che in qualche caso non sieno, fortuitamente, mal riuscite; ma farle oggi a novo, come per sistema e quasi con premeditazione, è un errore imperdonabile per il nostro secolo che si vanta di esser colto, raffinato, rispettoso del passato fino alla mania archeologica.
Per ciò appunto noi dobbiamo invocare l’introduzione nei regolamenti edilizi di norme sensate e prudenti per quanto riguarda le botteghe le quali si vanno rinnovando con una pretesa architettonica che ha un carattere di stabilità assai maggiore di quanto non l’abbiano le solite mostre di legno e vetro. Altrimenti la moda che sta rapidamente dilagando, pur essendo partita da un bisogno nobilissimo di rinnovamento, farà più danni all’estetica d'una città di quanti non ne facessero le mostre posticce che erano brutte e talvolta orrende, ma avevano pur sempre l’aspetto di alcunchè di provvisorio e di facilmente eliminabile.
Ciò premesso, si possono specialmente approvare, fra le mostre delle botteghe di Roma di cui ho parlato, quella del Morpurgo per la Transatlantica italiana, del Boccini per la Gioielleria Masetti - Fedi, del De Renzi per la Casa Braendli e per la Casa Gauturon, del Milani per l’Ufficio Moroli, del Piacentini per Montorsi e per Ciulla, del Frezzotti per la Casa del Passeggero e del Venturoli per il Negozio Cucci mentre non sembrano altrettanto lodevoli le altre, anzi le molte altre che si son fatte e che si vanno facendo un po' dovunque così come il capriccio dell’architetto o dello stuccatore le detta, arbitrarie imposizioni di uno stile sopra un altro, distruzioni spesso di un’armonia magari modesta, ma sempre rispettabile.


III.

Viste le principali fra le moderne mostre di botteghe di Roma non avrei compiuto la doverosa segnalazione se non riconoscessi con grande compiacimento come il buon gusto, l’amorosa cura degli architetti e dei commercianti si vada manifestando anche negli interni delle botteghe.
Mobilio e decorazione interna vanno assumendo nelle botteghe un valore ed una sobrietà che prima non avevano, tale era la farraggine delle cose che vi s'accumulavano. Armadi, scansie, banchi, tavoli, sgabelli, sedie si intonano con la struttura e la decorazione della stanza, ne sono il necessario complemento.
In questi arredamenti di interni è specialmente maestro Marcello Piacentini anzi direi che questo architetto, il quale ha avuto ed ha ancora grande influenza su tutta la giovane scuola architettonica romana, rivela le sue ricche qualità di decoratore principalmente nel Negozio Montorsi e nelle sale da pranzo della Rinascente (v. pagg. 509-514). Di gusto raffinatissimo, vivacemente sensibile alle armonie del colore, lieto di indugiarsi nella ricerca del particolare prezioso, Marcello Piacentini sa ottenere squisiti effetti decorativi con mezzi parsimoniosi. L’interno del negozio Montorsi e specialmente la sala d’esposizione ne sono la prova migliore: sulle pareti bianche una decorazione in stucco a tralci di rose si alterna con pannelli coperti di stoffa di un colore giallo cupo. I mobili sono di legno scuro, la porta è in mogano scolpito con tralci che riprendono la decorazione in stucco; entro piccole nicchie due statuette in bronzo di Nicola D’ Antino mettono la loro nota di eleganza da orafo; da una tenda di velluto nero nel fondo, su un tappeto di felpa nera fanno la prima apparizione le ragazze che indossano gli abiti, sì che la linea e il colore vi trionfino. Dovunque è un senso di semplicità raffinata, di ricercatezza disinvolta. I quali caratteri ricompaiono nel vestibolo dove gli stipiti di marmo venato spiccano sull’asperità d’un intonaco rustico striato, sotto un soffitto che ha i travi color di turchese con borchie d’argento; su una porta son dipinte due figurette femminee entro un ovale di perle ed astragali che pare una collana.
Con ricchezza maggiore d’ornamenti Marcello Piacentini ha decorato le salette da pranzo della Rinascente introducendovi stucchi lievemente colorati in rosa, celeste, viola con lumeggiature d’oro e foderando le pareti di stoffa a disegni complicati in colori vivaci. Anche in queste salette la ricerca del particolare gustoso, dell’armonia coloristica, della sobrietà di motivi architettonici è voluta con signorilità, con equilibrio, con misura.
Altro decoratore d’interni di gusto squisito è Vittorio Morpurgo, come lo dimostrano la sala e la saletta della Transatlantica italiana (v. pag. 495 e seg.). Quella che era nella mostra esterna armonica semplicità di riquadrature in travertino da additarsi ad esempio, si arricchisce nell’interno con la preziosità dei legni, dei bronzi e degli stucchi, ma si mantiene sempre sobria e misurata. Nella zoccolatura in mogano che circonda la sala sono incastrati piccoli sbalzi in bronzo con motivi marini eseguiti dal Mortet su disegno del Conti e al di sopra di questa balza scura, eseguita con perfetta opera di ebanisteria dai Fratelli Santi, si inarca la volta coperta di stucchi sottili e bianchi come da una stoffa od un merletto. Nel sottarco del fornice che divide in due parti la sala altri stucchi modellati dal Conti graziosamente incastonano in vari medaglioni motivi di navi e di vele.
La saletta contigua è organizzata decorativamente sullo stesso tipo; ma allo zoccolo di legno è sostituita una balza di stoffa da cui sporgono librerie prismatiche in mogano e la volta, liscia e bianca, si adorna di medaglioni in stucco. In questi uffici della Transatlantica Italiana l’architetto Morpurgo ha rivelato le sue doti di decoratore conservando agli ambienti il carattere di serietà e di dignità che loro conveniva e spargendovi le grazie di una decorazione ricercata e singolarmente appropriata.

Un terzo decoratore d’interni che ha dato saggi di molto buon gusto è l’architetto Venturoli che abbiamo già visto risolvere con perfetta intonazione le vetrine del Negozio Cucci nel Palazzetto di Malta in Via Condotti (v. pag. 524); l’interno dello stesso negozio è un altro esempio di ciò che si può ottenere con sobrietà di linee e d’ornati quando alla semplicità e schiettezza dell’organismo architettonico corrisponda la sapiente disposizione dei mobili, cui pochi rapporti di bronzo bastano a conferire eleganza raffinata: bianco degli stucchi, rossastro del mogano, dorato degli ottoni lucidi sono le note dominanti di questa bottega destinata ad accogliere degnamente le ricercatezze della moda maschile.
Sullo stesso tipo, ma con qualche palese richiamo agli stili tradizionali l’Arch. Brasini ha concepito l’interno del Negozio Franceschini al Corso Umberto che ha con quello Cucci affinità di mercanzia, mentre con diverso carattere e con raffinatezza minore lo stesso Venturoli ha disegnato i chiari mobili laccati della Casa di mode Salomon in via Sistina la cui mostra esterna vorremmo veder trasformata dallo stesso Venturoli tanto essa è in contrasto con la dignità dell’interno.
Due bars meritano anche una particolare attenzione in questa rapida rassegna delle migliori botteghe di Roma: uno è quello Piccarozzi nella Galleria di Piazza Colonna disegnato amorosamente dall’Arch. Perosini con molto gusto; l’altro è quello del Ferro China Baliva al Corso Umberto in cui l’Arch. Vincenzo Fasolo ha sbrigliato una fantasia da decoratore orientale ponendo ornati di mosaico incastrati in una breccia avorio con venature grigie, coprendo le volte con incrostazioni di verde azzurrino e d’oro, spargendo maschere argentee e specchi sagomati un po’ dovunque, conferendo alla sua concezione fantastica, e in alcune parti eccessiva di complicazioni ornamentali, il carattere d’un miraggio bisantino.
Alla schietta semplicità ed alla curata eleganza degli stucchi lattei si torna nel negozio Braendli al Corso Umberto in cui si mostrano le più armoniose, ardite, preziose carte che escano dalla fantasia dei moderni disegnatori di stoffe e di parati (v. pag. 501). L’arch. Mario De Renzi vi ha creato una serie di ambienti in cui la semplicità della decorazione non soverchia mai la ricchezza delle merci esposte, ma anzi le crea intorno una calma armonia di linee e di rilievi appena risentiti, fra la generale intonazione d’avorio; nel mezzo della prima sala una fontanella di marmo mette una gaia nota di freschezza, un canto di goccie cadenti.
Ed ecco infine l’Arch. Cafiero fare nell’albergo diurno “Diana”, in Via Arenula, un tentativo di accordo, spesso molto felicemente riuscito fra sagome barocche e tipi di decorazione futurista (v. pag. 522). Questo modernissimo tipo di albergo diurno che si riallaccia sia pure in scala molto ridotta, alla tradizione delle antiche vastissime terme è veramente ammirevole per ampiezza di istallazioni e per modernità di impianti. Va data ampia lode al proprietario Sig. Bendoni che ha chiamato un architetto ardito e geniale come il Cafiero per decorarlo con larghezza di mezzi e lusso di ornamenti. Qui non la sobrietà degli stucchi bianchi e delle linee severe ma una decorazione abbondante che si giova di effetti coloristici arditi, che pone lo stucco liscio e il marmo accanto all’intonaco ruvido, che adorna le mura di riccioli e di volute, che addossa alle pareti coppe sovrapposte di fontane, che distribuisce luci colorate da grandi lampioni, da maschere che han le occhiaia luminose, creando ambienti che somigliano ai ninfei annidati nelle grotte dell’antichità.
Certo qualche effetto non è abbastanza contenuto in limiti di misura, qualche eccesso si mostra palese nella voluta originalità delle trovate, ma non per questo il tentativo dell’architetto Cafiero è meno nobile, meno suscettibile di sviluppi nell’avvenire.

Le note che sono andato scrivendo non hanno altra pretesa che di segnalare i sintomi molto confortanti di un rinnovamento ormai palese e di indicare gli errori e le degenerazioni a cui si può andare incontro non contenendo le creazioni architettoniche e decorative nei limiti dell’equilibrio e della misura.
Ma, tentando di riassumere i caratteri generali, quali possono apparire anche da una rassegna alquanto abbreviata, conviene riconoscere che essi sono sotto ogni rapporto degni d’attenzione e di rilievo. Il rinnovamento che abbiamo notato corrisponde alla generale elevazione odierna del gusto in confronto con l’epoca che ci ha immediatamente preceduto. Ciò constatando, si rimarrebbe pèrò nel vago e nell’impreciso. Ond’è che conviene riconoscere come uno dei caratteri predominanti nel rinnovamento delle botteghe sia la rinascita del senso architettonico, all’esterno quanto all’interno.
Ciò che prima si affidava ai falegnami ed agli scrittori di cartelli oggi si commette agli architetti; ciò che prima era un guazzabuglio di falsità antiestetiche, diviene oggi un organismo d’arte con ricerca di motivi originali, con impiego di materiale vero e talvolta prezioso; ciò che prima era un capriccio qualsiasi del commerciante, aggravato da una pletora d’ornamenti di pessimo gusto, si sottopone oggi ad un generale concetto struttivo e decorativo sì che ogni decorazione si subordina alla concezione prevalentemente architettonica.
Negli interni tornano in onore l’arte del mobile e l’arte dello stucco; ma non il mobile qualsiasi comperato a serie e messo comunque a posto, bensì quello che è disegnato, ornato, eseguito per un particolare scopo e per un determinato ambiente; e non lo stucco fabbricato a stampo e tagliato a metri ma quello che è ideato apposta, con simboli e disegni appropriati, eseguito con la cura e con l’arte degli antichi stuccatori.
Infine la sobrietà delle linee, la parsimonia degli ornati, la scelta sapiente di pochi colori sono caratteristiche generali di tutti gli ambienti che abbiamo notato e depongono a favore della bontà e sincerità dell’indirizzo seguito.
È dunque tutto ciò un episodio notevole di quella rinascita del gusto che si manifesta ogni giorno meglio nell’arredamento della casa e della sempre più intima fusione dei due termini di quel binomio «Architettura e arti decorative» che come un ricordo, un monito e una speranza scrivemmo or sono più di tre anni a capo di questa fiorente rivista.
ROBERTO PAPINI.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna all'articolo