BOTTEGHE E VETRINE DI ROMA
I
Le note che vado scrivendo avrei dovuto scriverle da un pezzo. Nella
rivista di Henry Lapauze che s’intitola, non senza gonfiezza,
La renaissance de l’art Français et des industries de luxe,
e precisamente nel fascicolo di novembre del 1923, comparve un articolo
in cui si parla di alcune fra le più recenti vetrine di botteghe
parigine dinanzi alle quali «lo straniero, il provinciale che
visitano Parigi non sono i soli ad estasiarsi per la felicità
dei loro occhi». Di ciò che si fa all’estero, provincia
di Parigi, e massime in Italia, silenzio assoluto.
Nel numero di Capodanno 1924 dell’Architects’ Journal che
si pubblica a Londra, ben quattro articoli largamente illustrati vanno
magnificando ciò che compare a Londra, a Parigi, a New York in
fatto di mostre di botteghe. Dell’Italia silenzio perfetto. A
tali silenzi, sintomi chiari di sprezzante oblio, siamo così
abituati che neppure vogliamo rammaricarcene. Il tempo è galantuomo
per chi sa lavorare senza lo strepito della grancassa. Vedremo fra
non molto di quale rinascita dovrà accorgersi il mondo e speriamo
che la vita ci basti per giungere a gustare una tal gioia.
Ma intanto, così fra noi, in confidenza, possiamo ben vantarci
di quel che si fa, anche prima che gli straniéri lo facciano
e se ne accorgano, non senza aprire gli occhi su qualche errore o degenerazione
in cui, cammin facendo, avviene di cadere.
Così, se queste note sulle botteghe e sulle vetrine di Roma giungono
in ritardo rispetto alle segnalazioni molteplici dei progressi altrui,
non sarà gran male. Chè, nel frattempo, accanto alla giusta
fierezza per i sintomi di un palese rinnovamento italiano, anche in
questo campo dell’architettura e delle arti decorative, è
nata la constatazione di ciò che non si dovrebbe fare per non
perdere quel senso dell’equilibrio e della misura che sono caratteri
secolari del gusto della nostra razza. Veder chiari i pericoli che s’incontrano
per via significa esser pronti a schivarli, procedere con più
guardinga speditezza verso la mèta.
C’è ancora bisogno di notare come per troppi anni fosse
mostruosa la concezione dell’aspetto esterno ed interno d’una
bottega, e non soltanto da noi?
Ora che son tornate in luce le linde botteghe della via dell’Abbondanza
a Pompei, con le loro insegne dipinte, coi loro sporti architettonici,
con le loro decorazioni interne, sembra ancor più stupefacente,
e certo vergognoso, l’infierire del cattivo gusto nelle mostre
bottegaie durante l’epoca che ci ha immediatamente preceduto.
Per accorgerci di quale forza d’espansione fossero capaci in
tale epoca la banalità e la volgarità basta osservare
quelle botteghe del Ponte vecchio a Firenze che subirono una trasformazione
alla fine dell’Ottocento o al principio del secolo nostro. Era
il tempo degli sventramenti e dei rettifili, quando l’infatuazione
per la comoda igiene ottenebrava ogni senso di poesia dei vecchi ambienti
e si credeva che rimodernare, per esempio, una bottega equivalesse
ad aprire uno sporto quanto più largo fosse possibile attirandovi
con ogni mezzo la volgare e pacchiana curiosità dei passanti.
Proprio sul Ponte vecchio, dove, accanto alle modeste botteghe antiche
con gli sportelloni a ribalta, tuttora rimangono le brutture perpetrate
per distruggere tanta intimità e poesia d’ambiente, il
fenomeno appare in tutta la sua disperante imponenza.
In quel tempo fu una gara in ogni città per creare quanto di
più falso e vistoso si poteva concepire in fatto di mostre di
botteghe. La tinta ad olio mirabilmente si prestò per la profusione
dei falsi legni, delle false pietre, dei falsi marmi; quintali di porporina
vollero dare l’illusione dell’argento e dell’oro:
tonnellate di vetro furono cosparse a tergo di bitume, di cinabro,
di turchino, di verde per far risultare le auree lettere delle iscrizioni
bistorte, infiocchettate, ricamate, adorne dei più fantasiosi
svolazzi partoriti dalla fantasia capricciosa di un calligrafo di professione:
stipiti e cornici si vergognarono d’essere di pietra o di marmo
e si compiacquero di farsi verniciare come noce artefatto o mogano finto:
la ghisa, la stessa ghisa con cui il genio architettonico contemporaneo
creava l’ineffabile gotico dei ponti sul Canal grande e diffondeva
un po’ dovunque lo stile ferroviario, compiva l’opera stampando
sfingi e leoni, draghi e chimere a bonissimo mercato, delizia grande
dei bottegai d’ogni paese per la mostra del loro pomposo negozio.
Poi vennero le saracinesche di lamiera ondulata. E allora nessuno seppe
inventare niente di meglio di una specie di cassettone in legno e vetro
per nascondere il rotolo della chiusura avvolgibile, tuttora ammirabile
nella più gran parte delle botteghe d’ogni città.
Quell’architrave ipertrofico, fierezza del negoziante che vi
contempla il proprio nome a lettere d’oro, incombe sulle mostre
delle botteghe come una testa di gigante sul corpo d’un nano,
troneggia, panciuto e massiccio sulle vetrine gracili, ostenta con pompa
le frange di latta e gli smerli di vetro.
Nè vale descrivere in simili botteghe l’affastellarsi pettegolo
d’ogni sorta di mercanzia, sciorinata nelle vetrine immoderatamente.
Non credo che vi possa essere persona di buon gusto capace di ricordare
ciò che si fece (e purtroppo da molti si continua a fare) senza
sperare che gli odierni sintomi di rinnovamento preludano ad una migliore
comprensione dell’estetica stradale.
Poichè ormai abbiamo fatto un po’ l’abitudine a
tante brutture e quasi non ci accorgiamo dell’importanza che la
bottega ha assunto nell’aspetto d’ una città moderna.
E pure non v'è quasi più casa o palazzo che non abolisca
le finestre del piano terreno per trasformarle in sporti da negozio.
L'architettura stessa degli edifici ne è cambiata col mutamento
esterno del piano terreno, talchè oggi, per tanta mancanza di
rispetto delle botteghe verso l’edificio che le ospita, si può
dire che ogni prospetto architettonico cominci a valere dal primo piano
in su. È tollerabile questo sovvertimento? È ammissibile
che i regolamenti edilizi continuino ad ignorare l’imponente invasione
delle botteghe senza impartire norme severe affinchè l’estetica
delle vie cittadine sia salvata da più numerosi pervertimenti?
Il problema da risolvere è vasto ed ha singolare importanza per
noi italiani che una volta eravamo maestri al mondo di estetica stradale.
Nè mi propongo certo in un articolo di studiarne le soluzioni,
ma piuttosto di indicare come certe soluzioni si maturino spontaneamente,
per la sazietà e la nausea che son prodotte fatalmente dall’abuso
della volgarità.
Per ora vediamo ciò che s’ è fatto e si fa a Roma
in questi ultimi anni.
La stessa maestà architettonica di Roma ha suggerito un tipo
di bottega che si va sempre più diffondendo, come per moda. O
meglio sarebbe dire che quel tipo di bottega architettonicamente concepita
che nacque pochi anni or sono nelle vie di Parigi ha trovato un suo
naturale sviluppo nell’ambiente romano. È un sintomo confortante
del miglioramento generale del gusto; e la moda del negozio semplice,
austero, nella cui vetrina poche mercanzie trionfano in armonica e
parsimoniosa disposizione sia la benvenuta fra noi.
Quale sia il contrasto fra il vecchio e il nuovo tipo di botteghe giudichi
il lettore dalla fotografia in cui è riprodotta il pian terreno
di un palazzo al Corso Umberto che è uno dei più gustosi
ed eleganti esempi del barocchetto romano (v. a pag. 494). Dal lato
sinistro del portone sta il negozio di chincaglierie Duranti che ha
una assoluta mancanza di rispetto per l’architettura in mezzo
alla quale è volgarmente incastrato con le sue vetrine da bazar;
dal lato destro sono le sobrie, armoniche, tranquille riquadrature
della Transatlantica italiana che ben s’accordano col portale
e col balcone e che costituiscono una buona base di travertino per
l’architettura della facciata.
Anche mi piace di citate l’esempio di quella Casa della moda sportiva
che occupa il pianterreno dello stabile in faccia alla Fontana di Trevi;
nel rimodernare la bottega vennero in luce gli avanzi di due di quei
portici caratteristici della Roma medievale che gli antichi nostri facevano
con materiale frammentario, come ancora si vede in numerosi esempi delle
vie di Tivoli. L’Arch. Mario Loreti si trovò quindi di
fronte alla necessità di conservare i due portici e risolse
elegantemente il problema alveolando le colonne entro pilastri di mattoni
a cortina e completando la fronte con semplici sporti rettangolari
là dove di portici non era traccia alcuna. Esempio questo mirabile
di rispetto all’antico e di signorilità tanto nel proprietario
del negozio quanto nell’architetto, specialmente in un’ambiente
come Piazza di Trevi, consacrato dall’ammirazione del mondo.
Una delle prime botteghe comparse a Roma nel nuovo tipo è quella
che fu dell’orafo Masetti - Fedi nel Corso Umberto sull’angolo
di Via delle Vite, disegnata dall’arch. Federico Boccini, che
in questo genere di mostre può considerarsi un precursore fra
i giovani architetti. In una graziosa casa settecentesca le due grandi
vetrine arcuate e la più piccola porta sono collegate da un
fascione di travertino decorato di fanali e una gran cartella curva,
pure in travertino, forma il raccordo angolare dell’unico complesso
architettonico ben intonato alle sagome generali dell’edificio,
sobrio e severo.
La maggior parte delle nuove botteghe romane hanno, come è naturale,
sagome seicentesche o settecentesche dettate dall’ambiente. Così
l’architetto Armando Brasini ha concepito la mostra del negozio
Franceschini al Corso Umberto come un prospetto architettonico in peperino
applicato all’edificio e costituito da due larghi fornici fra
i quali è incastonata una nicchia, offrendo così un esempio
della sua esuberante fantasia in un complesso di linee fratte, di bugne
e di cartelle alla maniera barocca.
Altrettanto ha fatto l’Arch. G. B. Milani per il negozio Jesurum
in Piazza di Spagna riunendo porta e vetrina sotto il coronamento di
un unico grande cartello in marmo venato di verde e riempiendo gli spazi
intermedi con cartelle minori dello stesso marmo, preziosità
coloristica sul grigio dell’intonaco rustico che riveste gli
spazi di muro. Esempio anche questo di sobria e ben collegata architettura.
Anche ispirato a sagome barocche ma con frigida eleganza inglese è
il negozio Serra nel Corso Umberto, disegnato dall’Arch. Ugo Gennari
ed eseguito in travertino di Subiaco tirato a polimento, su cui spiccano
lettere di bronzo: è uno dei più semplici, chiari, eleganti
negozi di Roma, sebbene la voluta distinzione sia ottenuta a scapito
della genialità inventiva.
Il fascino delle sagome barocche è tale che anche uno dei più
arditi e geniali architetti giovani di Roma, l’Arch. Mario De
Renzi, le ha ricercate e tradotte in una gustosissima modernità
quando ha imaginato la mostra del negozio Braendli sul Corso, fiancheggiando
il portale settecentesco con due lunghe e diritte e lisce stele che
recano al sommo due lanterne in ferro battuto.
Ed ecco infine l’architetto Vittorio Morpurgo, rispettoso d’uno
dei più deliziosi palazzi della Roma settecentesca, imaginare
la fronte della sede della Transatlantica italiana mediante semplici
incorniciature di travertino collegate da lapidi, con un senso dell’equilibrio
e della misura così perfetti che vorremmo certo vedere estesa
a tutta la fronte terrena del palazzo una sì linda ed armoniosa
architettura.
Al gruppo delle mostre concepite sotto il fascino delle sagome barocche
fan riscontro quelle che si ispirano ad una maggiore modernità
di linee, talchè in alcuni casi si riducono a semplici riquadrature.
L’ufficio turistico del Moroli sulla Via del Tritone disegnato
dall’Arch. G. B. Milani è fra questi: due sporti architravati
di identica grandezza sono riuniti sotto un’unica trabeazione
che fa da cartello ed i pilastri lisci sono riquadrati da linee di
marmo scuro intarsiato nel travertino con schietta, lodevolissima semplicità.
Altrettanto sobria ed ispirata allo stesso genere di schiette riquadrature
è la mostra che Marcello Piacentini ha disegnato per il negozio
di mode Montorsi in Via Condotti includendo due piani nello stesso ricorrere
di cornici e attenuando la rigidità delle sagome generali con
la curva della bussola centrale e con le quattro lanterne a cestello
che pendono da mensole adorne di putti, vere preziosità di oreficerie.
A tanta semplicità armoniosa si ispirano le altre due mostre
disegnate da M. Piacentini per la Casa dell’Arredamento sul Largo
Argentina e per la Casa di mode Ciulla in Via Veneto, dove la parsimonia
degli aggetti, la nitidezza delle squadrature, la grazia delle poche
sculture decorative di Alfredo Biagini fanno anche meglio risaltare
l’equilibrio delle proporzioni, la raffinatezza del gusto. Anche
più semplici ma piene di garbo sono le mostre del negozio Cucci
nel palazzetto dell' Ordine di Malta in Via Condotti, dove l’Arch.
Venturoli s’è contentato di incorniciare gli sporti di
giallo antico incastrandovi le vetrine in mogano ed ottone.
Con rigida linearità di riquadri ha concepito l’Arch.
Oriolo Frezzotti il Calzaturificio “La Gloria ” in Piazza
Barberini su quell’angolo stesso in cui stava un tempo la fontana
delle api e v’ha appeso un grande lampione prismatico, a sagome
curve, quasi pentendosi della rigidezza delle riquadrature negli sporti.
Con maggior libertà e raffinatezza lo stesso architetto ha concepito
la fronte della Casa del Passeggero sull’angolo di Via del Viminale
risolvendo molto elegantemente il problema di un prospetto basso e largo
con una scala centrale d’accesso al semi interrato e con una pensilina
in ferro e vetro che collega tutta la fronte e la protegge.
Infine uno dei più moderni prospetti per semplicità e
chiarezza di linee è quello disegnato dall’Arch. Mario
De Renzi per la Casa di mode Anna Gauturon in Via Sistina, in finto
peperino con ornamenti di bronzo e lampioni in ferro battuto, limpida
ed armonica concezione architettonica impreziosita da una grande parsimonia
di decorazioni.
Nè sono da dimenticare alcune altre mostre di botteghe come quella
della Calzoleria Walk-Over al Tritone disegnata dall’Arch. Venturoli
con delicatezza di sagome da mobili ed eseguita dall’ebanisteria
Guerrieri o come l’altra della Casa d’ Arte in Via Sistina
eseguita con eleganza dallo stuccatore Arcieri o come l’altra
ancora della Casa di tessuti Lisio, in Via Sistina concepita alla maniera
fiorentina col bugnato e la tettoia, non senza stonatura con l’ambiente,
o come infine quella del Bar China Baliva al Corso che vedremo meglio
parlando del modo usato nel decorare gli interni.
Certo una delle migliori è quella disegnata dall’Arch.
E. Del Debbio per l’incisore De Nicola in Via Vittoria, con salde
strutture romane decise e nette.
II.
Esaminate così brevemente le botteghe che in questi ultimi anni
hanno assunto nel loro aspetto esteriore una dignità di arte,
possiamo trarre qualche considerazione generale.
Una rivista inglese consigliava agli architetti che si pongono a disegnare
botteghe di considerare ogni problema da vari punti di vista che non
debbono essere dimenticati e precisamente di considerare ogni bottega
dal tipo degli affari che vi si trattano, dalle merci che vi si espongono,
dalla clientela che vi si deve attrarre, dalla reputazione che si deve
confermare o cercare e infine dalla località in cui la bottega
deve esser posta.
Non dico che tal modo di considerare il problema non abbia il suo fondo
di saggezza, ma non tutti i punti di vista proposti mi sembrano ugualmente
importanti e necessari.
Assai più praticamente e con più fine senso estetico ha
posto il problema l’Arch. Arduino Berlam in un articolo pubblicato
sull’Ingegneria dell’aprile 1925, facendovi osservazioni
acute e dando pratici consigli.
Certo gli architetti romani di cui abbiamo parlato non si sono sempre
resi conto della necessità di intonare la mostra della bottega
al tipo di merce che vi si espone; è evidente che una gioielleria
non può avere lo stesso tipo di vetrina che ha un negozio di
macchine ed una bottega di mode non è analoga a quella di un
cambiavalute.
Sono esempi caratteristici sotto questo punto di vista le Vetrine del
Restaurant Philippe o della Profumeria Bourjois, a Parigi, del vinaio
Downman a Londra o dell’argentiere Wiskemann a Bruxelles, le quali
vetrine sono concepite in modo che non possono servire se non al tipo
di commercio che vi si esercita e non sarebbe certo possibile scambiare
la bottega del vinaio con quella del profumiere o quella dell’argentiere
con l’altra della trattoria, poichè la vetrina del vinaio
è tutta scompartita come se fosse lo scaffale della cantina
e l’altra del profumiere mette in mostra pochissime bottigliette
di essenza come se fossero gemme in una teca di cristallo e la mostra
dell’argentiere ha i vetri legati con sbalzi metallici altrettanto
quanto lo sono le fruttiere o le coppe o i trionfi da tavolo che si
ammirano al di là di quei vetri e le mostre della trattoria sono
finestre col davanzale adorno di fiori e col motivo del graticcio in
alto, ricordi raffinati dell’antica osteria campestre dei colli
suburbani.
Non sempre, anzi raramente, gli architetti romani pensano all’opportunità,
se non alla necessità, di intonare la mostra della bottega alla
qualità della merce che vi si espone. Preoccupati più
di creare un'armonia architettonica che di sottostare alle esigenze
del commercio, dimenticano quell’aderenza alla pratica senza la
quale ogni arte è condannata alla sterile ripetizione dei motivi.
Quando, secondo l’uso dei bazar d’Oriente, le nostre città,
dal Medioevo in poi, avevano intere strade e talvolta interi quartieri
destinati ad un solo genere di commercio (e ne rimangono qua e là
i nomi di via degli Orefici o di via dei Canestrari a Roma, di via
Pellicceria a Firenze, di Merceria, Spaderia e Frezzeria a Venezia)
l’indicazione esterna della mercanzia interna era forse inutile;
ma nel gran caos della città moderna essa diviene un elemento
di necessità ed un suggerimento agli artisti per creare motivi
nuovi di linee, di masse e di colori.
Più importante di tutto nell’ideazione di una mostra
di bottega è la necessità di collegarla architettonicamente
alla casa od al palazzo in cui si trova. Questa necessità, che
è sentita anche in città straniere, diventa assoluta nelle
città italiane che hanno dall’architettura il carattere
della loro bellezza.
E in ciò purtroppo gli architetti romani peccano più
facilmente. La mancanza di intonazione della mostra alla facciata che
la contiene diventa addirittura stridente quando due o tre delle nuove
botteghe, architettonicamente concepite si trovano l’una accanto
all’altra nello stesso edificio. Valga per tutte quell’esempio
delle tre botteghe di Piazza di Spagna (v. a pag. 526) che si disturbano
l’una con l’altra per la stridente diversità delle
sagome e per la mancanza d’intonazione con le case che le contengono;
poichè accanto a una porta d’una modesta e graziosa casa
settecentesca c’è la bottega di G. Jacolo in cui tartarughe
e coralli sono esposti in una mostra di sagome banali contrastanti con
quelle della porta; e accanto ancora la bottega del parrucchiere Attilio
è tutta rigida in una specie di neoclassico, vicina alla bottega
della casa di mode Odette con stipiti lisci e una lastra marmorea per
insegna. Ne risulta un vero pasticcio.
Ma, anche ammesso che una sola bottega con varie vetrine occupi tutto
il pianterreno di una casa, non per questo essa deve far corpo a sè
e straniarsi dall’architettura della facciata in cui viene ad
essere inclusa. E se la casa sarà architettata con un deciso
carattere ed un determinato stile, i vincoli imposti a chi disegna la
bottega saranno maggiori; chè se invece quel carattere e quello
stile mancheranno per aver ceduto il campo ad una qualsiasi banalità
sarà merito di chi ha disegnato le mostre se il tono dell’edificio
ne sarà rialzato e tutta la facciata rimarrà nobilitata.
È un assurdo estetico quello di creare un’architettura
dentro un’altra e lasciarle così, indipendenti fra loro,
senza nesso alcuno. Si sopportano malamente le sovrapposizioni e contaminazioni
fatte in passato e si può talora riconoscere che in qualche caso
non sieno, fortuitamente, mal riuscite; ma farle oggi a novo, come
per sistema e quasi con premeditazione, è un errore imperdonabile
per il nostro secolo che si vanta di esser colto, raffinato, rispettoso
del passato fino alla mania archeologica.
Per ciò appunto noi dobbiamo invocare l’introduzione nei
regolamenti edilizi di norme sensate e prudenti per quanto riguarda
le botteghe le quali si vanno rinnovando con una pretesa architettonica
che ha un carattere di stabilità assai maggiore di quanto non
l’abbiano le solite mostre di legno e vetro. Altrimenti la moda
che sta rapidamente dilagando, pur essendo partita da un bisogno nobilissimo
di rinnovamento, farà più danni all’estetica d'una
città di quanti non ne facessero le mostre posticce che erano
brutte e talvolta orrende, ma avevano pur sempre l’aspetto di
alcunchè di provvisorio e di facilmente eliminabile.
Ciò premesso, si possono specialmente approvare, fra le mostre
delle botteghe di Roma di cui ho parlato, quella del Morpurgo per la
Transatlantica italiana, del Boccini per la Gioielleria Masetti - Fedi,
del De Renzi per la Casa Braendli e per la Casa Gauturon, del Milani
per l’Ufficio Moroli, del Piacentini per Montorsi e per Ciulla,
del Frezzotti per la Casa del Passeggero e del Venturoli per il Negozio
Cucci mentre non sembrano altrettanto lodevoli le altre, anzi le molte
altre che si son fatte e che si vanno facendo un po' dovunque così
come il capriccio dell’architetto o dello stuccatore le detta,
arbitrarie imposizioni di uno stile sopra un altro, distruzioni spesso
di un’armonia magari modesta, ma sempre rispettabile.
III.
Viste le principali fra le moderne mostre di botteghe di Roma non
avrei compiuto la doverosa segnalazione se non riconoscessi con grande
compiacimento come il buon gusto, l’amorosa cura degli architetti
e dei commercianti si vada manifestando anche negli interni delle botteghe.
Mobilio e decorazione interna vanno assumendo nelle botteghe un valore
ed una sobrietà che prima non avevano, tale era la farraggine
delle cose che vi s'accumulavano. Armadi, scansie, banchi, tavoli,
sgabelli, sedie si intonano con la struttura e la decorazione della
stanza, ne sono il necessario complemento.
In questi arredamenti di interni è specialmente maestro Marcello
Piacentini anzi direi che questo architetto, il quale ha avuto ed ha
ancora grande influenza su tutta la giovane scuola architettonica romana,
rivela le sue ricche qualità di decoratore principalmente nel
Negozio Montorsi e nelle sale da pranzo della Rinascente (v. pagg. 509-514).
Di gusto raffinatissimo, vivacemente sensibile alle armonie del colore,
lieto di indugiarsi nella ricerca del particolare prezioso, Marcello
Piacentini sa ottenere squisiti effetti decorativi con mezzi parsimoniosi.
L’interno del negozio Montorsi e specialmente la sala d’esposizione
ne sono la prova migliore: sulle pareti bianche una decorazione in stucco
a tralci di rose si alterna con pannelli coperti di stoffa di un colore
giallo cupo. I mobili sono di legno scuro, la porta è in mogano
scolpito con tralci che riprendono la decorazione in stucco; entro
piccole nicchie due statuette in bronzo di Nicola D’ Antino mettono
la loro nota di eleganza da orafo; da una tenda di velluto nero nel
fondo, su un tappeto di felpa nera fanno la prima apparizione le ragazze
che indossano gli abiti, sì che la linea e il colore vi trionfino.
Dovunque è un senso di semplicità raffinata, di ricercatezza
disinvolta. I quali caratteri ricompaiono nel vestibolo dove gli stipiti
di marmo venato spiccano sull’asperità d’un intonaco
rustico striato, sotto un soffitto che ha i travi color di turchese
con borchie d’argento; su una porta son dipinte due figurette
femminee entro un ovale di perle ed astragali che pare una collana.
Con ricchezza maggiore d’ornamenti Marcello Piacentini ha decorato
le salette da pranzo della Rinascente introducendovi stucchi lievemente
colorati in rosa, celeste, viola con lumeggiature d’oro e foderando
le pareti di stoffa a disegni complicati in colori vivaci. Anche in
queste salette la ricerca del particolare gustoso, dell’armonia
coloristica, della sobrietà di motivi architettonici è
voluta con signorilità, con equilibrio, con misura.
Altro decoratore d’interni di gusto squisito è Vittorio
Morpurgo, come lo dimostrano la sala e la saletta della Transatlantica
italiana (v. pag. 495 e seg.). Quella che era nella mostra esterna
armonica semplicità di riquadrature in travertino da additarsi
ad esempio, si arricchisce nell’interno con la preziosità
dei legni, dei bronzi e degli stucchi, ma si mantiene sempre sobria
e misurata. Nella zoccolatura in mogano che circonda la sala sono incastrati
piccoli sbalzi in bronzo con motivi marini eseguiti dal Mortet su disegno
del Conti e al di sopra di questa balza scura, eseguita con perfetta
opera di ebanisteria dai Fratelli Santi, si inarca la volta coperta
di stucchi sottili e bianchi come da una stoffa od un merletto. Nel
sottarco del fornice che divide in due parti la sala altri stucchi modellati
dal Conti graziosamente incastonano in vari medaglioni motivi di navi
e di vele.
La saletta contigua è organizzata decorativamente sullo stesso
tipo; ma allo zoccolo di legno è sostituita una balza di stoffa
da cui sporgono librerie prismatiche in mogano e la volta, liscia e
bianca, si adorna di medaglioni in stucco. In questi uffici della Transatlantica
Italiana l’architetto Morpurgo ha rivelato le sue doti di decoratore
conservando agli ambienti il carattere di serietà e di dignità
che loro conveniva e spargendovi le grazie di una decorazione ricercata
e singolarmente appropriata.
Un terzo decoratore d’interni che ha dato saggi di molto buon
gusto è l’architetto Venturoli che abbiamo già
visto risolvere con perfetta intonazione le vetrine del Negozio Cucci
nel Palazzetto di Malta in Via Condotti (v. pag. 524); l’interno
dello stesso negozio è un altro esempio di ciò che si
può ottenere con sobrietà di linee e d’ornati quando
alla semplicità e schiettezza dell’organismo architettonico
corrisponda la sapiente disposizione dei mobili, cui pochi rapporti
di bronzo bastano a conferire eleganza raffinata: bianco degli stucchi,
rossastro del mogano, dorato degli ottoni lucidi sono le note dominanti
di questa bottega destinata ad accogliere degnamente le ricercatezze
della moda maschile.
Sullo stesso tipo, ma con qualche palese richiamo agli stili tradizionali
l’Arch. Brasini ha concepito l’interno del Negozio Franceschini
al Corso Umberto che ha con quello Cucci affinità di mercanzia,
mentre con diverso carattere e con raffinatezza minore lo stesso Venturoli
ha disegnato i chiari mobili laccati della Casa di mode Salomon in via
Sistina la cui mostra esterna vorremmo veder trasformata dallo stesso
Venturoli tanto essa è in contrasto con la dignità dell’interno.
Due bars meritano anche una particolare attenzione in questa rapida
rassegna delle migliori botteghe di Roma: uno è quello Piccarozzi
nella Galleria di Piazza Colonna disegnato amorosamente dall’Arch.
Perosini con molto gusto; l’altro è quello del Ferro China
Baliva al Corso Umberto in cui l’Arch. Vincenzo Fasolo ha sbrigliato
una fantasia da decoratore orientale ponendo ornati di mosaico incastrati
in una breccia avorio con venature grigie, coprendo le volte con incrostazioni
di verde azzurrino e d’oro, spargendo maschere argentee e specchi
sagomati un po’ dovunque, conferendo alla sua concezione fantastica,
e in alcune parti eccessiva di complicazioni ornamentali, il carattere
d’un miraggio bisantino.
Alla schietta semplicità ed alla curata eleganza degli stucchi
lattei si torna nel negozio Braendli al Corso Umberto in cui si mostrano
le più armoniose, ardite, preziose carte che escano dalla fantasia
dei moderni disegnatori di stoffe e di parati (v. pag. 501). L’arch.
Mario De Renzi vi ha creato una serie di ambienti in cui la semplicità
della decorazione non soverchia mai la ricchezza delle merci esposte,
ma anzi le crea intorno una calma armonia di linee e di rilievi appena
risentiti, fra la generale intonazione d’avorio; nel mezzo della
prima sala una fontanella di marmo mette una gaia nota di freschezza,
un canto di goccie cadenti.
Ed ecco infine l’Arch. Cafiero fare nell’albergo diurno
“Diana”, in Via Arenula, un tentativo di accordo, spesso
molto felicemente riuscito fra sagome barocche e tipi di decorazione
futurista (v. pag. 522). Questo modernissimo tipo di albergo diurno
che si riallaccia sia pure in scala molto ridotta, alla tradizione delle
antiche vastissime terme è veramente ammirevole per ampiezza
di istallazioni e per modernità di impianti. Va data ampia lode
al proprietario Sig. Bendoni che ha chiamato un architetto ardito e
geniale come il Cafiero per decorarlo con larghezza di mezzi e lusso
di ornamenti. Qui non la sobrietà degli stucchi bianchi e delle
linee severe ma una decorazione abbondante che si giova di effetti coloristici
arditi, che pone lo stucco liscio e il marmo accanto all’intonaco
ruvido, che adorna le mura di riccioli e di volute, che addossa alle
pareti coppe sovrapposte di fontane, che distribuisce luci colorate
da grandi lampioni, da maschere che han le occhiaia luminose, creando
ambienti che somigliano ai ninfei annidati nelle grotte dell’antichità.
Certo qualche effetto non è abbastanza contenuto in limiti di
misura, qualche eccesso si mostra palese nella voluta originalità
delle trovate, ma non per questo il tentativo dell’architetto
Cafiero è meno nobile, meno suscettibile di sviluppi nell’avvenire.
Le note che sono andato scrivendo non hanno altra pretesa che di segnalare
i sintomi molto confortanti di un rinnovamento ormai palese e di indicare
gli errori e le degenerazioni a cui si può andare incontro non
contenendo le creazioni architettoniche e decorative nei limiti dell’equilibrio
e della misura.
Ma, tentando di riassumere i caratteri generali, quali possono apparire
anche da una rassegna alquanto abbreviata, conviene riconoscere che
essi sono sotto ogni rapporto degni d’attenzione e di rilievo.
Il rinnovamento che abbiamo notato corrisponde alla generale elevazione
odierna del gusto in confronto con l’epoca che ci ha immediatamente
preceduto. Ciò constatando, si rimarrebbe pèrò
nel vago e nell’impreciso. Ond’è che conviene riconoscere
come uno dei caratteri predominanti nel rinnovamento delle botteghe
sia la rinascita del senso architettonico, all’esterno quanto
all’interno.
Ciò che prima si affidava ai falegnami ed agli scrittori di cartelli
oggi si commette agli architetti; ciò che prima era un guazzabuglio
di falsità antiestetiche, diviene oggi un organismo d’arte
con ricerca di motivi originali, con impiego di materiale vero e talvolta
prezioso; ciò che prima era un capriccio qualsiasi del commerciante,
aggravato da una pletora d’ornamenti di pessimo gusto, si sottopone
oggi ad un generale concetto struttivo e decorativo sì che ogni
decorazione si subordina alla concezione prevalentemente architettonica.
Negli interni tornano in onore l’arte del mobile e l’arte
dello stucco; ma non il mobile qualsiasi comperato a serie e messo comunque
a posto, bensì quello che è disegnato, ornato, eseguito
per un particolare scopo e per un determinato ambiente; e non lo stucco
fabbricato a stampo e tagliato a metri ma quello che è ideato
apposta, con simboli e disegni appropriati, eseguito con la cura e
con l’arte degli antichi stuccatori.
Infine la sobrietà delle linee, la parsimonia degli ornati,
la scelta sapiente di pochi colori sono caratteristiche generali di
tutti gli ambienti che abbiamo notato e depongono a favore della bontà
e sincerità dell’indirizzo seguito.
È dunque tutto ciò un episodio notevole di quella rinascita
del gusto che si manifesta ogni giorno meglio nell’arredamento
della casa e della sempre più intima fusione dei due termini
di quel binomio «Architettura e arti decorative» che come
un ricordo, un monito e una speranza scrivemmo or sono più di
tre anni a capo di questa fiorente rivista.
ROBERTO PAPINI.