FASCICOLO X GIUGNO 1925
Notizie varie
LA MOLE LITTORIA.

Vi sono dei progetti la cui grandiosità incontra le difficoltà più gravi perchè sia tradotta in atto. Pur tuttavia la loro gagliarda concezione merita di non essere trascurata da chi, come noi facciamo da varii anni, segue le manifestazioni più significative nel campo dell’architettura.
L’architetto Palanti (un italiano che in America fa onore al suo paese) ha ideato questa mole che egli ha voluto chiamate “Littoria”.
E’ un enorme grattacielo destinati a vari usi (uffici, appartamenti di rappresentanza, luoghi di trattenimento ecc.) Il susseguirsi degli ambienti, con le enormi vôlte gotiche ha del fantastico. La disposizione esterna delle masse non è priva di originalità. Non siamo più di fronte all’abusato schema dello Sky-Skraper americano che è in prevalenza un enorme parallelepipedo. Qui invece il parallelepipedo costituisce la sola Torre, ed essa elevasi su di un gigantesco palazzo ai cui lati minori si appoggiano le curve di esedre o di altri elementi proporzionatamente grandiosi.


IL CONCORSO PER L’ESEDRA OBERDAN.

Togliamo dalla relazione della Giuria giudicatrice del Concorso bandito dal Comune di Trieste per la sistemazione architettonica della piazza Guglielmo Oberdan:
- “ La Giuria composta dai signori: senatore gr. uff. dott. Giorgio Pitacco, sindaco di Trieste, presidente; on. cav. di gr. croce arch. Manfredo Manfredi, preside della Scuola superiore d’architettura di Roma; ing. cav. Alfredo Camanzi, assessore ai lavori pubblici del Comune di Trieste; arch. cav. Arduino Berlam, arch. Giacomo Zammattio, cav. Arturo Coverlizza, segretario generale del Comune di Trieste; ing. cav. Edoardo Grulis, direttore dell'ufficio tecnico comunale di Trieste, si riunì i giorni 27 e 28 aprile nel padiglione comunale per le Belle Arti nel giardino pubblico Muzio Tommasini per l’esame dei progetti presentati il giorno 31 marzo 1925 in base al bando di concorso di data 15 dicembre 1924.
I progetti presentati e già esposti al pubblico risultarono essere dieci, di cui uno, recante il motto “ Nettuno ” fuori di concorso per espressa dichiarazione del concorrente stesso.
L’impressione generale riportata dal complesso dei progetti presentati fu che il concorso fosse bene riuscito per il numero e il valore delle opere presentate, per la serietà e la genialità delle soluzioni proposte al non facile problema e per la comprensione dello spirito a cui era ispirato il concorso bandito dal Comune di Trieste per creare degna cornice al monumento del suo massimo Martire e precursore dell’auspicato riscatto della nostra città, preso anche quale simbolo di tutti i Caduti per la Redenzione.
Alcuni progetti oltre che per le qualità intrinsecamente architettoniche, brillano per una elegantissima tecnica di disegno, atta a dare una comprensione evidente allo spettatore profano di come i progetti avessero ideati i movimenti di masse degli erigendi edifici: anche a tale eleganza di graficismo va ascritto il grande interessamento che la popolazione tutta prese alla mostra dei progetti in concorso.
Palladio è un progetto di carattere monumentale, grandioso, che ha in pari tempo bene approfondito lo studio delle piante e della sua pratica eseguibilità. Esso riuscirebbe completamente rispondente alle finalità del concorso qualora i due edifici costituenti l’imbocco del vialone, che conduce al Palazzo di Giustizia fossero destinati a sede di pubblici istituti. Le due testate che offrivano una difficoltà per la loro esigua fronte rispetto all’altezza, sono state risolte in questo progetto in modo veramente felice.
Esso si presenta, pertanto nella sua concezione ed anche nella sua mirabile veste grafica, come opera di reale valore.
Tergestis venustati ha un aggradevolissimo carattere pittorico di sapore sanamente veneto - friulano. L’idea di affermare l’imbocco delle vie laterali con due torrioni, quali si vedono nelle città venete, rappresenta. una geniale trovata così come il grande arcone lanciato sopra il vialone principale, è di indovinato effetto scenografico. Si apprezza molto il motivo delle facciate laterali, nelle quali è ottenuto molto bene il passaggio delle grandi vetrine da negozio ai piani superiori. Per contro si trovò — oltre a qualche manchevolezza nelle piante — che le masse sono troppo spezzettate. Non persuade anche il modo con cui le torri escono obliquamente dalla curva dall’Esedra, ma ad onta di queste osservazioni, va reso sincero encomio alla freschezza d’ispirazione alla quale l’opera tutta è informata.
Perciò si propone:

Primo premio: Palladio con 6 voti su 7.
Secondo premio: Tergestis venustati con 7 voti su 7.
Terzo premio: Archi Arli con 6 voti su 7.
Proposto per l’acquisto: Ananche con 5 voti su 7.

L’architetto Zammattio chiese che fosse messo a verbale la sua votazione e precisamente: Primo premio: Ananche; secondo premio: Tergestis venustati; terzo premio: Archi Arli. Acquistabile Palladio, allegando pure la motivazione di voto.
Esaminata cosi la votazione si passa all’apertura delle buste chiuse, dalle quali risultò che erano premiati:

col primo premio, gli arch. Prof. Pietro Zanini e arch. prof. Cesare Soccimarro. via Mazzini 11, Udine;
col secondo premio: Ottorino Aloisio, via Bersaglio 35, Udine;
col terzo premio: l’arch. Carlo Polli, via Roma 17, Trieste.

La busta del progetto Ananche proposto per l’acquisto, sarà aperta non appena che la giunta municipale ne abbia ratificata la spesa d’acquisto.


IL CONCORSO PER LA CASSA DI RISPARMIO DI FANO.

Tra i recenti concorsi architettonici indetti su temi pratici e concreti uno dei più notevoli è quello bandito e testè risolto per la sede della Cassa di Risparmio in Fano. Arduo invero era il tema per la ristrettezza e la irregolarità dell’area disponibile, posta nell’angolo tra la piazza XX Settembre e la Via Marino Francini ed ivi chiusa tra altri fabbricati esistenti per la esiguità, forse soverchia, della somma prevista per la spesa; per la molteplicità dei servizi a cui trovare adatto luogo per la limitatissima altezza di tutto l’edificio e dei singoli piani in particolare fissata dal vigente regolamento sulle costruzioni nella zone sismiche per le condizioni estetiche richieste, da un lato dalle ragioni intrinseche del tema, dall’altro da quelle estrinseche date dal carattere ambientale della città ed in particolare della vasta ed armonica piazza in cui domina il mirabile monumento del palazzo della Ragione.
Ma il concorso ha nel suo insieme sortito ottimo esito, rappresentando nuova felice affermazione del sistema delle pubbliche gare.... quando siano bandite e giudicate con scrupolosa cura.
La Commissione, giudicatrice presieduta dal Conte Castracani e composta del prof. Cirilli, del prof. Giovannoni, dell’ing. Claudi, del prof. Comm. Severi e del geometra Adanti, ha, negli ultimi dello scorso febbraio, esaminato i 26 progetti presentati al concorso, (tra cui erano parecchi lavori pregevoli ma pochi completi), ed ha assegnato il primo premio al progetto dal motto “Vivitiarum (sic) incrementum” il secondo a quello dal motto “Fanum Fortunae” N. I. Del primo è risultato autore il Prof. Arch. Edoardo Collamarini di Bologna, del secondo l’Ing. Lambertini anch’esso di Bologna.
Diamo qui le riproduzioni dei principali elementi del progetto premiato, felice nella chiara distribuzione planimetrica che opportunamente inquadra i vari servizi ed i vari uffici dell’istituto, e nella semplice e sobria espressione architettonica, inspirata nelle linee e nei particolari allo stile
del Quattrocento, su modelli, liberamente seguiti, tratti in gran parte dai palazzi bolognesi.
Certo sarà desiderabile che nella attuazione qualche variante opportunamente introdotta dia maggiore unità alla facciata principale col togliere le due piccole zone bugnate che frastagliano la parte superiore, e risolva meglio la disposizione dell’angolo smussato, ove la sala delle Assemblee collocata al primo piano potrebbe avere in un loggiato diretta e nobile espressione; ed anche sarà da richiedersi che le parti salienti dei prospetti siano eseguiti in pietra, ad esempio nella ottima pietra del Furlo, e non già in stucco od in cemento, come sembrerebbe indicato nel bando del concorso. Ma è da sperarsi che questi desiderata siano utilmente affidati ad un artista egregio quale il Collamarini, e ad una benemerita amministrazione, come quella della Cassa di Risparmio a cui devesi la felice iniziativa del concorso.

UN CONCORSO BANDITO DALL’ASSOCIAZIONE ARTISTICA FRA ARCHITETTI.

L’Associazione artistica fra Architetti e Cultori di Architettura, di Napoli, bandisce un pubblico concorso per il progetto di massima di un villino da costruirsi a Posillipo: e ciò nell’intento di mostrare come sia possibile salvaguardare l’estetica della divina nostra collina, troppo spesso vittima di attentati contro i quali, pel passato, non si insorse a tempo.
I recenti voti formulati dalla Commissione per l’estetica presieduta degnamente dal Soprintendente all’Arte Moderna, hanno consigliato questo concorso, destinato ad essere accolto favorevolmente. Il premio destinato al progetto vincitore è di lire mille.
Le norme del concorso stesso sono visibili presso l’Associazione Nazionale Ingegneri ed Architetti in Via Chiaia n. 216, la Soprintendenza all’Arte Medioevale e Moderna (Palazzo Reale) e il Circolo Artistico Politecnico.


COMMENTI E POLEMICHE


EDILIZIA RODIESE

A Rodi si è da qualche tempo iniziata la fabbrica dl una nuova chiesa italiana, la quale, nella mente del progettista, dovrebbe essere la copia fedele del vecchio tempio conventuale di S. Giovanni dei Cavalieri, costruito, per quanto dicesi, nel 1310 e saltato in aria per un misterioso scoppio di polveri nel 1856.
Sebbene numerose descrizioni lasciateci di quel monumento, parecchie miniature, stampe e litografie di varia epoca rappresentanti così l’esterno come l’interno della basilica prima della catastrofe, e le parti tuttora superstiti della chiesa (quali il piccolo protiro ed alcuni blocchi di colonne in più luoghi dispersi), permettano di procedere a quel ripristino con una certa sicurezza, ci sia, non di meno, permesso di dubitare sulla opportunità pratica di un simile rifacimento.
Sarebbe superfluo ripetere qui tutte le argomentazioni che si sono addotte, all’epoca della polemica per la rifabbrica del campanile di S. Marco a Venezia, dagli oppositori di quella risurrezione. Ma nel caso della vetusta torre Marciana due grandi ragioni militavano a favore dei ricostruttori: le necessità architettoniche e storiche di non privare la piazza di quel tradizionale suo completamento, e la possibilità di riedificare il nuovo campanile all’identico luogo di quello antico.
Per Rodi nè l’una nè l’altra di tali condizioni si verificano, perchè il nuovo tempio sorge molto lontano dalla sede della originaria chiesa conventuale: con questa aggravante che la località prescelta, in riva al mare e fuori della vecchia cinta delle mura, sembra per l’appunto la meno indicata per una fabbrica di tal genere.
Non si deve dimenticare che la vecchia Rodi è una delle poche città al mondo che conservano pressochè intatta la propria fisionomia medioevale, così nella pianta urbana, come nei singoli edifizi. La conquista turca del 1523, arrestando d’un tratto ogni attività costruttiva, ci ha trasmessa a quattro secoli di distanza, la città dei Cavalieri quasi come se fosse stata imbalsamata.
Ciò significa che, se c’ è un paese ove si possa studiare l’adattamento della vecchia edilizia urbana alle condizioni del suolo, questo è appunto la città di Rodi, ove il terreno, degradando man mano dalla altura del palazzo magistrale fino alle arene della Sabbionara, pareva suggerire alla raffinata sensibilità degli architetti del tre e quattrocento tutti gli accorgimenti per la intonazione delle loro fabbriche al paesaggio ed al panorama circostante. E ciò significa pure che, se c’ è una piazza forte nella quale si possa investigare la saggia economia dell’abitato in rapporto coi bisogni militari e civili da un lato e cogli intenti dell’arte dall’altro, questa è per l’appunto la fortezza di Rodi: la quale non aveva soltanto il compito di predisporre le linee delle proprie torri, delle proprie mura e delle proprie porte a difesa della città, ma entro alle successive cinte murarie doveva coordinare tutti quegli svariati suoi edifici di carattere peculiarissimo, in corrispondenza colle esigenze di vita - eccezionalmente gelose - dei Cavalieri dello Spedale.
Strappare la chiesa conventuale dalle alture della città della fortificata che prendeva il nome di Collacchio, per trapiantarla — tale e quale — in aperta campagna, sulle indifese spiaggie del mare, potrebbe quindi equivalere ad una offesa alle condizioni locali al tempo stesso che ad una violenza alla storia della città. Per esse il forestiere che si affaccia per la prima volta alla gloriosa capitale dell’isola delle Rose, ci fa l’impressione come se dovesse restare perplesso e disorientato....
Ma ormai ciò che è fatto, è fatto. Le recriminazioni non varrebbero a nulla. Nostro scopo non è quello di criticare, specialmente allora quando le intenzioni di chi ha lavorato e probabilmente anche faticato nell’intrapresa devono essere state le più sante e la riuscita dell’opera è per tanti riguardi encomiabile. Ben più gravi pericoli sovrastano: ed è contro di essi che noi vogliamo gettare un grido d’allarme.
S. E. Mario Lago, governatore del Dodecanneso, cui si devono tanti provvedimenti a tutela dell’arte e dell’archeologia rodiese, con una larghezza di intenti e con un sentimento di praticità di cui non lo si potrà mai elogiare a sufficienza, ha ideato tutto un complesso piano di rinnovamento dell’isola sotto ogni punto dl vista, al quale naturalmente deve corrispondere l’auspicata ripresa della attività edilizia del paese sulla più vasta scala.
Contrariamente a quanto avviene per alcune delle nostre storiche città, tale rinascita costruttiva non costituisce alcun pericolo nè diretto nè immediato per la vecchia Rodi: la quale vive la sua vita di sogno, tutta rinchiusa entro la triplice cinta delle sue mura, circondate a loro volta dalla inviolata zona dei cimiteri turchi all’intorno.
Come era avvenuto per i recenti sobborghi greci, la città nuova si sviluppa per proprio conto lungi di là, nell'area ove già al tempo della dominazione turca erano sorti i primi edilizi governativi, in prossimità della spiaggia.
Ma se ogni pericolo di manomissione della città antica resta cosi eliminato anche di per sè stesso, non per questo può disinteressarci il quesito della novella edilizia rodiese: per ciò sopra tutto che è la prima volta che una nazione civile affronta in Oriente un simile problema e lo affronta al cospetto dei disastrosi esempi di cui la Grecia ci ha testè dato esempio a Creta colle miserabili sue fabbriche piantate sulla ecatombe dei monumenti veneziani a bella posta sacrificati.
Il problema avrebbe una importanza addirittura capitale, se dovesse estendersi a tutte le regioni ove l’Italia, specialmente ad opera dei gloriosi suoi Missionari, porta insieme colla scintilla della fede anche la fiaccola della civiltà. Nè mancano infatti i primi accenni ad un risveglio della nostra coscienza artistica anche in tal campo, inteso a dimostrare l’opportunità che le nuove fabbriche da noi erette in quei paesi selvaggi non solo rispondono a criteri estetici generali, ma anche - pur conservando una certa impronta italiana - si ambientino in qualche guisa alle regioni per le quali sono destinate.
Ma restringiamoci pure al problema rodiese.
Quale sarà il carattere stilistico da imprimere alle fabbriche della città nuova? Sarà opportuno di proseguire sulla via delle imitazioni e delle ripetizioni antiche indicata dall’architettura della chiesa che ora si sta costruendo?
Francamente no. A nostro avviso sarebbe un gravissimo errore.
Qui non si tratta di questionare se gli stili antichi, e specialmente quegli anteriori al Rinascimento, dopo essere stati sfruttati ormai per secoli e secoli, siano suscettibili ancora di suggerire opere d'arte le quali possano aspirare al pregio della originalità, della sincerità e della genialità. E neppure si tratta di discutere se convenga all’Italia, in questo suo ritorno in Oriente, di riportar seco lo stesso bagaglio di cinque secoli or sono, quasi che essa non sappia vivere che delle sue glorie passate, ed ai popoli assetati di modernità e di progresso essa non voglia ammanire che le rifritture del suo medioevo.
Il problema è un altro ancora.
La vecchia Rodi, come dicevamo, conserva pressochè intatto il tesoro delle sue fabbriche genuine ed originali, non contaminate nè da vecchie vandaliche manomissioni nè da recenti restauri fantastici. Le costruzioni moderne, sorte in questi ultimi decenni alla periferia, per brutte che esse siano, non hanno grandi pretese architettoniche e si sottraggono per ciò stesso, alla critica. In compenso vi manca totalmente la mala pianta delle contraffazioni e delle falsificazioni archeologiche. E questa è una condizione di privilegio impagabile, che tutte le nostre città storiche invidiano alla consorella dell’Egeo: e che sarebbe un vero delitto voler ora minacciare.
Mi trovavo qualche mese fa a Venezia all’arrivo di un treno rigurgitante di forestieri. La gaia turba dei nuovi ospiti si era assiepata sul. vaporetto della stazione, impaziente di contemplare i tesori d’arte della città tanto a lungo accarezzata nel pensiero. Ed ecco, lasciato appena il pontile, il gruppo di destra additarsi l’un l’altro, con scoppio di ammirazione, il primo palazzotto veneziano che gli si parava davanti. Un mio vicino ebbe la sciagurata idea di avvertirli bonariamente che si ingannavano: non era una fabbrica antica, ma un’abile mistificazione moderna. L’incanto parve rotto per sempre. Arrossirono e tacquero. Davanti al palazzo Pesaro parvero non guardare: in realtà sbirciavano colla coda dell’occhio e parevano domandarsi a vicenda: E quello sarà finto o buono?
Se in un diadema di pietre preziose di sommo valore, una di quelle gioie è stata abilmente sostituita con un diamante chimico di così perfetta imitazione da non lasciarsi riconoscere, basta quell’unico falso per deprezzare tutte le altre gemme del monile.
E così sarebbe di Rodi. Le fabbriche nuove, costruite ad imitazione ed in concorrenza con quelle genuine, moltiplicherebbero alla sazietà ciò che è bello soltanto quando è sobrio; denaturerebbero il carattere stesso della città antica, ampliando l’area della sua zona monumentale al di fuori dei limiti non solo storici ma anche razionali; ed investendo il visitatore con una zaffata di artifizio e di trucco, gli insinuerebbero nell’animo il germe del dubbio e del sospetto anche di fronte ai monumenti autentici.
Con ciò siamo ben lungi dall’affermare che le fabbriche della nuova Rodi devono essere o brutte, o misere, o per lo meno stonate. Tutt’altro. Se, per virtù dell’Italia, una città nuova ha da sorgere, essa deve essere bella, al tempo stesso che grandiosa, e dentro all’ambiente rodiese non deve apparire una spostata.
Ma intendiamoci bene.
Il passato dell’isola è ricco di insegnamenti d’ogni fatta. Dalle fabbriche classiche costruite a blocchi giganteschi o cavate nella roccia, alle chiesuole a cupola delle varie età bizantine dalla ricca fioritura dell’arte franca con tutte le sue varianti di epoca e di nazionalità, alle caratteristiche costruzioni della civiltà turca ed alle case neogreche di cui questa rivista medesima ha pubblicato i mirabili saggi di Lindo, il campo è vastissimo.
L’ architetto potrà non soltanto obbedire ai bisogni del clima e sfruttare le risorse dei materiali del luogo, non soltanto tener conto delle esigenze degli abitanti e delle abitudini tradizionali, in cui si cela tanto pregio di originalità, ma ispirarsi egli stesso agli esemplari ed ai modelli del passato che di quel cumulo di esperienze secolari avevano a lor volta già fatto tesoro.
Ma chi vuole sfuggire la taccia di plagiario o di mistificatore, di poltrone o di impotente, subordinerà lo studio di tutti quei monumenti al sincero e nobile proposito di riviverli ancor una volta dentro di sè, in modo da saperli ricreare totalmente ex novo finchè abbiano perduto ogni velleità antiquaria ed ogni aspetto anacronistico, il che vuol dire che l’opera sua, senza tèma di equivoco, dovrà a prima vista palesarsi come il prodotto originale e moderno di uno spirito indipendente, il quale, vivendo nel suo secolo e per il suo secolo, riconosce l’importanza del passato soltanto come punto di partenza per il progresso dell’avvenire.
Così io sogno la Rodi novella: degno completamento della gloriosa città del nostri avi lontani; degna testimonianza della potenzialità sempre vivace, del genio perennemente acceso, dell’audacia ognora pronta dell’Italia presente.
S. E. Lago è da tanto di attuare quel sogno.
G. G.

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