FASCICOLO I E II SETTEMBRE - OTTOBRE 1925
ANTONIO MUÑOZ : Marcello Piacentini, con 101 illustrazioni

MARCELLO PIACENTINI


Per comprendere le nuove tendenze dell’architettura italiana dell’ultimo decennio, delle quali il romano Marcello Piacentini è forse l’artista più rappresentativo, bisogna ripensare allo stato dell’architettura nostra nel periodo immediatamente precedente.
Io credo che chi si occupava dello studio dell’arte contemporanea, tra il 1900 e il 1910, doveva concludere che un’architettura moderna non esisteva. Le nostre manifestazioni edilizie si esplicavano tutte o in fredde ripetizioni di celebri modelli del passato, adattati faticosamente ai bisogni nuovi, o in rielaborazioni scolastiche di motivi classici, o in goffe caricature di stili d’altri paesi, violentemente trapiantati tra noi in un clima inadatto, in una cornice stonata. Molti architetti non si elevavano al disopra di quei pazienti artieri che a Firenze o a Siena ricopiano vecchi stipi intarsiati o sbalzano cuoio e metallo sulla falsariga del Quattro e del Cinquecento.
Nell’arte sacra non si faceva che copiare le basiliche romaniche a cortina di mattone, non tralasciando la simbolica decorazione di mostri e di chimere; in quella profana si pensava che una Cassa di Risparmio o una Direzione delle Poste, potessero scimmiottare Palazzo Strozzi o Palazzo Farnese, con false bugne e incorniciature di stucco alle finestre.
Bisognava guardare ad una delle manifestazioni più tipiche dell’edilizia moderna, al villino, per vedere che ibrido e miserabile guazzabuglio di stili, di forme, di motivi, imperava nell’architettura; dalle immancabili riduzioni in formato minuscolo di palazzi, celebri del Rinascimento in stile toscano, ai castelli medioevali in diciottesimo colla torre merlata, al finto moresco, allo châlet svizzero; c’era qui è vero la volontà dei committenti che costringeva l’invenzione dell’architetto; molto spesso questi era assente, perchè il commerciante arricchito o l’alto funzionario credevano di poter fare da sè, ricalcando sulle fotografie e affidandosi al buon gusto di un capomastro.
Eppure se c’era un genere di costruzione che offrisse tema di studio e di soluzioni nuove a un architetto moderno, era appunto questo. C’era poi tutta una parte dell’edilizia che si riteneva estranea all’intervento dell’architetto e riservata ai tecnici, i quali si guardavano bene dal ricorrere a quelli che si chiamavano elegantemente i lenocini dell’arte: cosi gli stabilimenti industriali, i magazzini, gli ospedali, le scuole, le caserme, le stazioni ferroviarie, erano riservate agli ingegneri specialisti, i quali si attribuivano pure la maggior parte delle cosi dette costruzioni civili, cioè delle grandi case d’affitto che il fenomeno dell’urbanismo faceva sorgere in gran numero nei quartieri nuovi delle città.
Naturalmente data una simile concezione dell’architettura non poteva nemmeno nascere l’idea di un intervento dell’architetto nella decorazione interna e nell’arredamento, che si abbandonava senz’altro, non diciamo al gusto, ma alle mani del tappezziere e del negoziante di mobili. E magra consolazione per noi poteva esser quella di constatare che le cose procedevano circa nello stesso modo anche in tutti gli altri paesi del mondo: nelle capitali straniere sugli edifici pubblici si elevavano fastigi di pietra e di stucco, arricchiti da una scultura decorativa degna, nella sua banale volgarità, di stare a pari con una simile architettura.
Le costruzioni minori, le banche, i palazzi, le case di abitazione, presentavano la stessa banale imitazione di vecchi stili, per cui certe grandi strade nella successione degli edifici sembrano quasi l’esemplificazione di tutti gli stili, dal classico al romanico, al gotico, al rinascimento, al barocco; senza nessuna rispondenza dei loro posticci prospetti agli ordinamenti interni; convenzionali applicazioni esteriori, che si credeva di rendere più belle aggiungendovi fronzoli e ornati a piene mani. Il materiale impiegato quasi generalmente, lo stucco; la meccanicità delle decorazioni fatte a stampo, bene si adattavano alla volgarità dell’insieme.
È probabile che a questa convenzionalità dell’architettura avesse contribuito anche il rifiorire degli studi storici dell’arte, per cui si predicava da critici in buona fede il ritorno all’antico, la resurrezione degli stili nazionali, e specialmente negli edifici pubblici si credeva ottimo partito, se non un dovere cittadino, di riprodurre gli antichi modelli, sicchè il palazzo municipale di una città italiana, o il Rathaus di una città germanica, dovevano quasi inevitabilmente essere costruiti secondo gli antichi stili patrii.
In Italia il male fu aggravato dal fatto che la trasformazione delle principali nostre città avvenne appunto dal 1870 in poi; i vecchi centri storici con le loro meravigliose architetture del passato, vennero circondati e soffocati dalla banalità dei quartieri moderni, ai quali dovettero spesso cedere il posto. Purtroppo la corrente di questa architettura da imprenditori, camuffata col suo pretenzioso manto decorativo, non ha compiuto il suo corso, e continua ancora ad inondare le città nostre, le campagne e le spiagge.
Ma finalmente contro il trionfo della banalità è sorta una viva reazione, ed oggi possiamo salutare con un sospiro di liberazione l’apparire di nuovi ideali artistici, che sono sicuramente destinati ad affermarsi e a trionfare. C’è oggi una nuova scuola che si contrappone nettamente alla vecchia, ispirandosi a principii del tutto opposti, e che conta in ogni paese manipoli di giovani che le nuove idee sostengono vittoriosamente. Ad un critico contemporaneo riesce difficile riconoscere con precisione il formarsi delle nuove correnti d’arte, e fissarne i caratteri e le origini: in ogni età il nuovo si sovrappone e si incrocia col vecchio; ci sono i novatori arditi e i ritardatari testardi; per cui soltanto a distanza di anni lo storico riesce a individuare un movimento artistico e a stabilirne i limiti di tempo e di spazio.
Tuttavia chi seguiva le manifestazioni dell’arte moderna, avvertiva già negli anni prima della guerra il germogliare di nuove idee, l’apparizione di nuove tendenze.
I primi accenni di nuovi tentativi nel campo dell’architettura risalgono ai primi anni del secolo nostro, e hanno avuto origine fuori d’Italia, a Vienna, a Praga, in Germania, e si son diffusi poi nel Belgio, in Francia, e da ultimo in Italia. Questo rapido affermarsi dei nuovi ideali dell’architettura dimostra come il male fosse generale e quindi generale la reazione, per cui il movimento appena iniziato ha trovato subito dappertutto la sua risonanza, così comune a tutti i giovani architetti di ogni paese era il bisogno di liberarsi dalle viete scolastiche formule dell’arte predominante, di sfrondare, di chiarire, di semplificare. Ma se già nel principio del Novecento si manifestarono i fermenti del movimento nuovo, si può dire che le moderne tendenze si sono solidamente affermate soltanto nel dopo guerra. E qui si aprirebbe la via ad infinite considerazioni sull’influsso che gli avvenimenti politici possono avere sull’arte: generalmente la critica non lo ammetteva, e si ripeteva ad esempio che le agitate vicende della storia italiana del Cinquecento non hanno alcun riflesso sullo stile di Raffaello e di Michelangelo, come le guerre napoleoniche non hanno influito sull’arte del Canova, Ma se gli avvenimenti storici non possono modificare ciò che è prodotto dello spirito, lo stile, essi hanno conseguenze economiche e sociali che non mancano di farsi sentire nel campo dell’arte, specialmente dell’architettura, l’arte necessaria, che è così strettamente legata alle condizioni di vita dei popoli, e alle loro risorse finanziarie. Per questo possiamo affermare che l’immane guerra dei giorni nostri, che tante cose ha sconvolto e mutato, ha avuto anche conseguenze incommensurabili per lo svolgimento dell’architettura.
Del resto le necessità della vita moderna, già prima della guerra avevano per lo meno mutato i temi che si presentavano all’architetto: rare le commissioni di palazzi monumentali, di edifici pubblici grandiosi e solenni, più comuni le fabbriche di modeste intenzioni e di mezzi ristretti, come la palazzina, il villino, la piccola casa di abitazione borghese. Nel dopo guerra la richiesta di questi tipi di costruzioni è venuta aumentando, sia per lo spostamento e per il frazionamento della ricchezza, che permette a tanta gente, anche di condizione modesta, di aspirare al sogno della casa propria, sia per il costituirsi di associazioni e di cooperative per gli alloggi, che ha prodotto il formarsi di piccoli quartieri, di palazzine e di villini a schiera. Non poca influenza ha avuto la guerra nella scelta dei materiali da costruzione. Il maggior costo del mattone e della pietra da taglio, l’elevato prezzo della mano d’opera, la necessità di risolvere in breve tempo la crisi degli alloggi, hanno fatto sì che l’architetto e il costruttore hanno dovuto far ricorso a metodi più economici e più rapidi. Il cemento armato, questa grande innovazione della tecnica, che prima della guerra trovava ancora molti scettici e dubbiosi, si è imposto appunto per la facilità e per la rapidità con cui ha risolto tanti problemi e per la duttilità con cui si assoggetta ai più varii trattamenti, e ha prodotto una vera rivoluzione nell’architettura moderna.
Anche le più diffuse regole dell’igiene per la distribuzione degli spazii, delle luci, dei servizii accessorii, hanno avuto il loro riflesso nel campo dell’architettura, sopprimendo tutto quello che era fasto esteriore, a beneficio della praticità e della comodità. Così l’architettura non s’intende più come un’arte astratta, come una formula esteriore alla vita, ma si avvicina e si identifica colle necessità stesse della vita, diventando quasi un mestiere più elevato, non una oziosa ricerca di abbellimenti formali.
Mai come oggi si può dire applicato il principio del vecchio critico settecentesco Francesco Milizia, secondo il quale l’architettura dev’essere utile, e la sua bellezza deriva tutta non dalla ricchezza dell’ornato, ma dalla semplicità e dalla rispondenza dell’edificio in ogni sua parte allo scopo a cui è destinato. Quando si cominciò ad adoperare il cemento armato colle sue infinite possibilità, si pensava che esso dovesse rimanere un puro mezzo tecnico, destinato a sostituire il mattone e la pietra, assumendone servilmente le forme e gli aspetti. Si facevano di cemento le stesse architetture che si facevano prima in altri materiali; si piegava questo nuovissimo mezzo alle vecchie forme e ai vecchi ordini; poi si è veduto come questo mezzo nuovo poteva essere il punto di partenza di nuovi motivi, l’ispiratore di tutta una nuova concezione architettonica. Quando si fecero per esempio i primi ponti in cemento armato, si riproducevano i vecchi tipi tradizionali a serie di piloni e di piccoli archi; soltanto più tardi si costruirono gli arditi ponti ad arcate amplissime e magari, quand’era possibile, ad una sola arcata: da questa soluzione di un problema dovuta esclusivamente all’ingegneria, derivava naturalmente una nuova forma artistica: non più archi a tutto sesto, ma arcate a corda lunghissima, e in chiave nient’altro che un sottile diaframma; quindi abbandono della decorazione dei piloni, delle mostre degli archi, e tutta la bellezza dell’opera espressa nella sagoma snella, arditissima della grande arcata, lanciata da una sponda all’altra.
Qualche cosa di simile è accaduto nel campo dell’automobilismo: da principio non si fece altro che applicate il motore al vecchio tipo di vettura a trazione animale, poi si comprese che l’automobile poteva e doveva avere una forma adatta al suo scopo, più agile, più leggera, più bassa per offrire meno resistenza all’aria, e si è creato il tipo nuovo che è l’imagine stessa della snellezza e della velocità. E, anche in questo caso, il profilo, la linea, d’insieme, hanno creato la. bellezza delle nuove macchine, dove sarebbero certamente fuori di posto le dorature e gli ornati di una berlina di gala.
Non si deve credere però, per quanto abbiamo detto sopra, che il cemento armato sia stato la causale e l’origine unica della nuova architettura; esso rappresenta la materia che ha suggerito nuovi motivi, che non avrebbero altrimenti trovato possibilità d’attuazione, e spesso ha invitato quasi gli artisti alla ricerca di forme più snelle, più semplici, più schiettamente strutturali. La tecnica moderna che gli architetti disprezzavano come cosa estranea all’arte, ha fornito invece loro una lezione che non si. aspettavano; l’ingegneria che tende al raggiungimento dei suoi scopi colla maggiore semplicità di mezzi possibile e con la maggiore economia, ha consigliato all’architettura di seguire la stessa via, abbandonando i fronzoli e le impasticciature. E l’architetto non può essere più oggi il disegnatore idealista che compone un prospetto decorativo, che consegnerà poi all’ingegnere perchè lo applichi alla sua costruzione, qualunque essa sia, ma deve concepire la sua composizione artistica in stretto rapporto con la struttura della fabbrica.
Definire i caratteri essenziali della nuovissima architettura è ardua cosa; come dicevo da principio, essi ci appaiono evidenti per ragioni di contrasto, quando si guardano le forme predominanti nel periodo precedente. Allora possiamo concludere che la sincerità, la razionalità, la stretta aderenza dello stile allo scopo e all’uso dell’edificio, la rispondenza dell’esterno all’interna struttura, l’impiego dei materiali alle funzioni che meglio si adattano alla loro qualità, l’abbandono della decorazione inutile e posticcia, sono i caratteri che meglio risaltano nella nuova arte che così rapidamente si va diffondendo in ogni paese. Si cerca di ridurre ogni elemento all’essenziale, al necessario, col minimo sforzo possibile: una costruzione nuova dev’essere agile, snella, perfettamente rispondente all’uso cui è destinata, senza ingombri, senza appiccicature, che nuocerebbero alla sua netta semplicità.
Sopra una simile architettura la decorazione diviene quasi superflua, perchè non avrebbe ragione d’essere, e anzi ogni elemento inutile riesce intollerabile. Pensiamo ad una macchina moderna, ad una locomotiva, che nel perfetto ingranaggio di tutte le sue parti noi troviamo bella come un’opera d’arte: se domani venisse in mente al suo costruttore di arricchirla di festoni, di fregi, di ornamenti, non perderebbe molto, se non tutto, della sua bellezza, che risiede appunto nella sua metallica semplicità? E un battello a vapore, che noi ammiriamo volare sulle acque nella elegante sagoma del suo scafo d’acciaio e delle sue ciminiere, non perderebbe la sua bellezza, se lo si decorasse di intagli e di dorature, come un bucintoro?
Questo desiderio di semplificazione, di chiarificazione, di abbandono dei fronzoli e delle preziosità inutili, che è proprio della novissima architettura, non è, a chi ben lo osservi, un fenomeno particolare di questa arte. Lo studioso dei problemi estetici non ignora che in ogni epoca le più svariate attività umane sono collegate anche inavvertitamente tra loro da un filo comune, che è l’unità dello spirito di tutto un popolo e di tutto un periodo storico. Dentro la casa moderna, nel moderno teatro, nel nuovissimo cinematografo come nella modernissima automobile, vediamo ad esempio perfettamente incorniciata la donna dei tempi nuovi, con le sue vesti semplici che lasciano libertà ai movimenti e al tempo stesso mettono in rilievo le snelle forme, senza artificiose sovrapposizioni. Anche la moda ha seguito lo stesso processo di semplificazione, adattandosi al genere di vita più attivo che la donna oggi conduce, e anche qui la via tenuta è la stessa: abbandono di tutto il sovraccarico di ornamenti, di sbuffi e di gale che caratterizzava la moda di venti e trenta anni fa, per la ricerca della linea perfettamente aderente alla persona e ai movimenti che deve fare.
Questa trasformazione profonda che caratterizza la nuovissima architettura è avvenuta si può dire quasi spontaneamente. Essa è il prodotto naturale di un complesso di cause e di necessità, non l’applicazione di principii astratti, e per questo appunto è arte vera e originale e destinata a trionfare. E’ un errore credere che l’arte possa crearsi in base a programmi elaborati da accademie o banditi da cenacoli; specialmente per l’architettura, sono le esigenze dei tempi, lo sviluppo dei mezzi tecnici, il gusto di tutta una società che influiscono e guidano l’opera degli artisti. L’arte viva è quella che nasce dalla vita stessa, non dalle discussioni che si fanno intorno ai tavolini dei caffè, non quella che si bandisce nei regolamenti delle scuole e delle accademie; abbiamo visto proprio ai giorni nostri come sia fallito miseramente il tentativo fatto nella Russia dei Sovieti di creare un’arte di stato.

Ho appena nominato finora l’artista a cui è dedicato questo mio studio: Marcello Piacentini. Ma esponendo così in rapidi accenni le tendenze della nuova arte, ho sempre pensato all’opera sua, perchè il Piacentini di quelle tendenze può considerarsi in Italia il più schietto rappresentante, per cui, sebbene ancora giovane, egli è veramente un caposcuola.
Nato a Roma nel 1881, e figlio di un architetto egregio, Marcello Piacentini ha compiuto i suoi studii nell’Istituto di Belle Arti, conseguendo il diploma di professore di disegno architettonico, e più tardi quello di architetto civile nella Scuola di Applicazione degli Ingegneri. Giovanissimo ancora si cimentò vittoriosamente in molti concorsi, sia per singoli edifici, sia per sistemazioni edilizie di località e di intieri quartieri. E i suoi progetti manifestano fin dal principio della sua attività la ricerca di una nota indipendente e personale. Non era facile a un giovane che voleva farsi strada nell’architettura italiana prima del 1910, vincere l’indifferenza allora quasi generale, affermarsi in quella caotica promiscuità di vecchie forme, in quella ripetizione scolastica dei più varii stili, in cui stagnava allora la nostra architettura. Tutta la nuova Roma venuta su dal 1870 in poi sta a dimostrare la povertà di spirito dell’architettura di quel tempo, e seppure tra quei meccanici ed eclettici mestieranti era apparsa di tanto in tanto qualche nobile figura di artista, essa non aveva potuto fare altro che seguire la corrente generale, distinguendosi soltanto per un atteggiamento di signorile eleganza sulla folla insulsa e plebea. Il gusto del tempo costringeva anche gli artisti maggiori a quella faticosa rimasticazione di stili passati che in quei tempi si chiamava architettura. Anche allora unità dello spirito: quella volgare ibrida architettura corrispondeva perfettamente alla scultura che Ugo Ojetti una volta ha argutamente chiamata massonica, che ha deturpato tra l’80 e il ‘900 tutte le piazze d’Italia coi suoi Garibaldi, coi suoi Vittorio Emanuele, coi suoi Cavour, coi suoi presidenti del Consiglio in redingote; la guerra ci fornì una magnifica occasione per ridurre in cannoni tutti gl’inutili metalli, ma purtroppo l’abbiamo lasciata passare. E la letteratura dei romanzi a dispense, la moda, e sopratutto la decorazione interna completavano armonicamente il quadro della vita artistica italiana di quei decenni. I giovani che in quegli anni si preparavano in silenzio, erano soffocati da tanta piatta volgarità, per cui bisogna attribuire gran merito ai pochi che riuscirono a sollevarsene e a trionfare, e Marcello Piacentini fu fra questi uno dei primi.
Non è mio compito ricordare qui la sua prima attività, i concorsi da lui vinti, i premi numerosi ottenuti, poichè questo studio vuole rilevare principalmente l’opera dell’artista nel nuovo indirizzo dell’architettura. Il mutamento del Piacentini, il suo avviarsi pei nuovi cammini dell’arte, si inizia poco dopo il 191 5; in quell’anno di manifestazioni festaiole in Roma, fra tante creazioni improvvisate di stucco e di cartapesta, 1’opera del Piacentini si affermò; ma erano quelle, per fortuna sua, le ultime espressioni di uno stile che egli doveva subito abbandonare. Anno memorabile quello, nella storia dell’architettura in Roma; si inaugurava il monumento a Vittorio Emanuele e si compiva il Palazzo di Giustizia, due opere insigni, ma che sono il suggello di un periodo artistico che ormai tramontava, espressioni nobilissime, per diverse vie, di un passato che oggi ci sembra già immensamente lontano.
Prima della guerra il Piacentini compì molti viaggi all’estero, visitando la Germania, la Francia, l’Olanda, il Belgio e gli Stati dell’America del Nord; da questi viaggi egli tornò trasformato. E qui dobbiamo sfiorare un punto delicato sull’origine della nuova arte: i critici superficiali che sentenziano sulle gazzette, ancor oggi ogni volta che si levano i ponti di una nuova fabbrica in stile moderno, gridano al tedeschismo. Premetto che da un punto di vista puramente estetico non ho nulla in contrario a una infiltrazione d’arte straniera, se questa ha pregi superiori alla nostra, e può insegnarci qualcosa. Quando oggi si visita ad esempio il vecchio centro di Praga, e vi s’incontrano a ogni passo tracce dell’influsso italiano sull’architettura di quel paese nel Settecento, a nessuno viene in mente di dedurne un’inferiorità spirituale della Boemia in confronto dell’Italia: un complesso di cause aveva permesso in quel periodo all’architettura italiana di risolvere certi problemi e rispondere a certe tendenze meglio che quella di ogni altro paese, e quindi lo stile nostro veniva accettato in tutta Europa, e perfino nell’America Latina, importatovi dai Gesuiti e dai missionari. Oggi circostanze politiche, economiche, sociali, hanno fatto sì che la nuovissima architettura, che come ho detto più avanti non ha un fondamento etnico, ma risponde a un bisogno universale derivato dalle nuove esigenze della vita, abbia trovato in Germania più facile terreno e più pronta applicazione. Ma basta osservare che in Francia, dove pure è congenita la repulsione verso gli atteggiamenti dello spirito alemanno, la nuova architettura si è affermata e diffusa vittoriosamente. Del resto molti motivi della moderna architettura tedesca si riconnettono a forme dei secoli scorsi della più schietta italianità, specialmente del Borromini, sia pure passati attraverso l’interpretazione settecentesca viennese dei Fischer von Erlach.
Una prima manifestazione del nuovo atteggiamento di Marcello Piacentini la troviamo già nel 1913, nella villetta Rusconi, piccola costruzione in cui le tendenze nuove sono già tutte pienamente accettate. Chiarezza, soppressione delle false strutture, richiami alle forme ingenue e spontanee dell’arte rurale: la decorazione è del tutto assente, e pure nell’insieme e nei particolari vi è un’eleganza nuova, fatta non di fronzoli, ma di freschezza, di naturalezza, di semplicità. E’ importante tener presente la data, perchè di quello stesso anno sono le manifestazioni più significative e rumorose del nuovo stile fuori d’Italia proprio nell’aprile del 1913 si aprì a Parigi il nuovo teatro des Champs Elysées, annunziato a suon di tromba da tutti i grandi giornali francesi, come un avvenimento nella storia architettonica della capitale. Gli stessi autori di quel teatro, che divenne fomite di una nuova querelle des anciens et des modernes, più interminabile di quella scatenata ai tempi di Luigi XIV da Boileau e da Perrault, gli architetti fratelli Perret antesignani in Francia del nuovo stile, riassumevano così la formula a cui obbediva la concezione generale dell’opera: confortable et technique anglo-saxons, harmonie du goût français; e non avevano torto, perchè sarebbe ingiusto accusare di imitazione germanica quella fresca e piacevole architettura. I due artisti francesi avevano saputo cogliere i principii dell’arte nuova apparsa a Vienna e poi a Darmstadt, e diffusa quindi in tutta la Germania, e ne avevano fatto qualche cosa di schiettamente nazionale, di squisitamente francese e parigino. E del resto non dimentichiamo che nella civiltà vertiginosa di oggi, mentre l’aeroplano ci trasporta in sei ore da Parigi a Vienna, in tre da Copenaghen a Berlino, e le Esposizioni Internazionali, e le Fiere periodiche mettono vicino a Venezia, a Monza, a Parigi, i prodotti di tutti i paesi, non è più possibile che l’arte delle singole nazioni mantenga intatta la sua fisionomia etnica: ai giorni nostri è tutto un giuoco di reciproci influssi, di scambii, di mutue concessioni. Tuttavia è certo che perchè il nuovo stile abbia ad affermarsi, esso deve in ogni paese tener conto degli elementi tradizionali e delle ragioni pratiche di clima, di abitudini, di costumi. E il merito grande di Marcello Piacentini è appunto questo, di avere meravigliosamente adattato alle esigenze nostre, al nostro ambiente, i principii generali dell’arte nuova. Ecco come nel Palazzo della Banca d’Italia in Piazza del Parlamento (1914), egli riprende dei motivi che sono nella facciata di Propaganda di Gianlorenzo Bernini, con una geometrica divisione a paraste e con piani rientranti, che si innestano sopra un primo ordine a forti bugne con motivi palladiani; ne risulta un insieme sobrio, netto e robusto, che è nuovo ed è antico, perchè vi spira il senso tutto italiano delle proporzioni. Specialmente vivendo e operando a Roma, dove ad ogni svolto di strada ci si fa innanzi il terribile e maestoso passato, un artista cosciente come il Piacentini non può a meno di sentirsi ad esso legato, non con impacci costrittivi, ma con vincoli atavici di amore e di rispetto. Ma dove poteva nascere un tragico dissidio, un ondeggiamento, un’incertezza tra l’aspirazione verso il nuovo e il timoroso ossequio all’antico, è risultata invece nello spirito di questo nobile artista una perfetta fusione delle due tendenze, una equilibrata armonia, una sapiente compenetrazione, specialmente quando egli si è trovato di fronte a problemi di indole monumentale, dove per necessità la sobria razionalità strutturale della nuova arte doveva essere arricchita e resa più solenne da qualche nota di più ampia tonalità. Così quando ideava l’arco di trionfo ai caduti di Genova, il palazzo di Giustizia di Messina (1920), il tempio votivo per la Pace in Roma, il teatro Nazionale pure in Roma, Marcello Piacentini mostrava di possedere perfettamente il senso della grandiosità e specialmente dell’ambientamento. L’architettura non può essere la stessa per una villetta rustica o per un palazzo di Giustizia, per un albergo o per un Parlamento; è questo un assioma che non parrebbe avesse bisogno di essere nemmeno ricordato; eppure quante volte gli artisti dei nostri giorni non hanno capito che le linee del palazzo Rucellai non potevano adattarsi a un villino o quelle di una chiesa berniniana a un cinematografo? E neppure ciò che sta bene a Viterbo potrà adattarsi a Napoli, o quello che incanta a Venezia potrà stare a posto a Milano. Altra verità evidente, eppure quante Cà d’oro di falso conio non s’incontrano oggi per tutta l’Italia di terraferma? E quante basiliche lombarde non vediamo dappertutto, e a Roma perfino dentro la barocca villa Pamphily?
Marcello Piacentini non è mai caduto in questi errori, perchè delle ricerche d’ambiente egli è, si può dire, uno specialista e un maestro. Professore, da pochi anni, di edilizia cittadina alla Scuola Superiore di Architettura in Roma, il Piacentini si era preoccupato però fino da giovanissimo degli studii sui piani regolatori, sulla sistemazione di città e di quartieri, cercando anche in questo campo di reagire contro il sistema invalso delle piante a scacchiera, che rendono tutte le strade uguali e prive di carattere, per cercare tracciati di pittoresco aggruppamento con asimmetrie piacevoli, con suggestivi effetti prospettici. I suoi progetti per la restaurazione del centro di Bologna (1917), per lo sviluppo della Roma moderna (1916); l’opera da lui prestata in varie Commissioni per la preparazione e l’esame di piani regolatori di varie altre città d’Italia, testimoniano in questo difficile campo dell’edilizia una preparazione e un gusto veramente cospicui.
E, passando dagli studii alla pratica attuazione, Marcello Piacentini ha dato un mirabile esempio colla creazione del nuovo centro di Bergamo, che è tra le sue opere più vaste e complesse. Vinto nel 1908 il Concorso bandito dal Comune di Bergamo per la sistemazione del centro cittadino, il giovane artista mostrò fin da allora la sua capacità nella soluzione del problema in cui tanti altri architetti si erano cimentati senza riuscire. Si trattava non soltanto di creare tutto un nuovo quartiere nella città bassa, ma di rispettare colla massima cura il panorama della città alta, e il carattere dell’architettura locale. Nel progetto vincitore del Concorso, il Piacentini si mostrava ancora legato per molti rapporti alle vecchie concezioni dell’architettura allora imperanti, ispirandosi a motivi del Tre e Quattrocento; poi durante l’attuazione del vasto disegno, che ancora oggi non è intieramente compiuta, egli modificò lo stile degli edifici, studiando l’arte locale, e avvicinandosi ai suoi nuovi ideali artistici, per quanto il tema affidatogli lo obbligasse al rispetto della tradizione. Ma se non poteva qui dar corso liberamente alle sue nuove tendenze, il Piacentini ha infuso negli schemi antichi, a cui ha dovuto adattarsi, uno spirito nuovo, fatto anche qui di chiarezza, di sobrietà e di semplicità; così che se nei varii edifici che compongono questo suo pittoresco centro di Bergamo, riconosciamo qua e là l’eco dell’arte di altri tempi, non si può dire che il Piacentini abbia mai imitato o copiato, rinunciando alla sua personalità; egli ha invece riprodotto in sè spontaneamente il processo creativo degli artisti antichi, per cui tutte quelle fabbriche non sono fredde ricostruzioni, ma creazioni fresche, vive, originali. Intorno alla grande piazza Dante si elevano il palazzo di Giustizia, severo ed elegante ad un tempo, col suo alto corpo centrale che inquadra l’ingresso; la Banca d’Italia; il palazzo delle Poste; la Camera di Commercio; il Credito Italiano, e due fabbricati privati collegati con portici bassi. A fianco sorge la piazza Vittorio Veneto, cinta di portici e aperta da un lato verso il Passeggio e un ampio giardino. Un’alta torre con l’orologio mette una forte nota di verticalismo nell’insieme degli edifici, arricchita da una mirabile Loggia marmorea come l’antico Arengo, decorata nel raffinato stile dell’Amadeo. Si può dire che il Piacentini abbia avuta, o meglio si sia guadagnata a Bergamo, una fortuna che poche volte capita agli architetti, quella di. poter concepire con unità di visione un intiero quartiere, circondato da edifici pubblici; ed egli ha saputo dare un esempio magnifico di come dev’essere ai giorni nostri concepito un piano regolatore, non come uno scomparto geometrico segnato e sviluppato sulla carta, ma come un insieme vitale, pittoresco e vario; come fosse creato non dalla mente di un sol uomo, ma dalle necessità stesse della vita e della località; e per questo nei lunghi anni che vi ha lavorato, egli lo ha modificato ogni volta che gli si è presentato nell’esecuzione lo spunto di un motivo originale, un effetto prospettico, uno sfondo piacevole, una visuale caratteristica. Così quel vasto gruppo di edifici ha assunto il fresco sapore dei vecchi centri, delle nostre città storiche, formatesi quasi casualmente con fabbriche di epoche diverse, ma tutte armonizzanti fra loro, perchè vi spira uno stesso alito suggestivo e spontaneo. Sullo sfondo della piazza porticata che s’intitola a Vittorio Veneto, Bergamo alta si raggruppa sul colle coi suoi campanili, colle sue torri, in una visione perfettamente intonata col nuovo quartiere che si estende giù in basso.
Fra tutti gli edifici del nuovo centro di Bergamo il più notevole è quello della Banca Bergamasca, ancora in costruzione, col porticato inferiore in marmo bigio, le finestre e il cornicione in marmo bianco rosato, il fondo in marmo verde, i balconi in bianco, i balaustri in nero, così che ne risulta una sinfonia di tinte sfumate, messe a fianco con grande sapienza di effetto.
Due notevolissime manifestazioni dell’arte piacentiniana sono il Cinema Corso a Roma e il Teatro Savoia in Firenze. Nel primo (1917), che dette luogo a polemiche vivacissime, il Piacentini seppe creare uno dei più simpatici ed eleganti ritrovi della Roma moderna: nell’interno la struttura del cemento armato appare in tutta la sua sveltezza metallica; non vi sono colonne, non vi sono pilastri di sostegno per l’ordine superiore, i quali avrebbero appesantito l’architettura e impedito la vista del quadro. Nè vi sono palchi, se non due per lato, ricavati nell’ampio arco della scena, piccoli, elegantissimi, tappezzati di stoffe variopinte, come scatole profumate per contenere delle bambole, ove le eleganti signore moderne stanno a posto in una cornice mirabilmente graziosa. La decorazione è tutta nuova, festosa, freschissima, basata principalmente sul contrasto tra stucchi rustici e stucchi lisci, che dà l’effetto di un velluto controtagliato; negli spicchi della volta quattro medaglioni di Arturo Dazzi rappresentano la Danza, la Commedia, la Tragedia e la Musica; lampadari rotondi, torceri, lanterne di alabastro e di vetro colorato, pannelli di stoffa variopinta, completano l’ornamentazione in un quadro armonioso e piacevole in cui dominano il bianco ed il blu intenso. E’ da rilevare in ogni parte la perfezione della tecnica del legno, del ferro, del vetro, della stoffa, che è uno dei portati della nuova architettura, che risuscita a dignità le così dette arti minori, abbandonate nei passati decenni a una sciatta faciloneria di mestieranti. Oggi, e ne testimoniano i successi dell’Italia nelle recenti Mostre internazionali, risorge il gusto raffinato delle nostre antiche maestranze, e non si sprecano più l’abilità e la pazienza insuperabili dei nostri artigiani per ricopiare e falsificare le cose vecchie, ma sotto la guida dei grandi artisti, si dà loro il modo di provarsi in una produzione nuova, originale e spontanea, che non deve servire più a soddisfare il gusto degli inglesi e il commercio degli antiquari. Per la perfezione dei particolari tecnici, è ancora più notevole il teatro Savoia di Firenze (1922), situato dentro le mura perimetrali antiche, residuo di un vecchio palazzotto quattrocentesco, detto lo Strozzino, ciò che presentò per l’architetto difficoltà non lievi, da lui felicemente superate, conciliando col rispetto di quanto esisteva, le necessità nuove. Il Piacentini ha dato vita a quelle muraglie, ispirandosi allo stile fiorentino del Quattrocento, senza cadere in quelle goffe imitazioni che hanno reso così banali tante fabbriche moderne, che si ammantano di un così detto stile toscano. L’interno, armonico ed elegantissimo, riprende nella decorazione motivi brunelleschiani, ma con spirito moderno.
In queste creazioni del Piacentini troviamo certamente l’eco del teatro des Champs Elysées, dei fratelli Perret, e quella del nuovo teatrino di Prostejov (Moravia), di Jan Kotera, il caposcuola dell’architettura boema, morto due anni or sono: l’artista italiano è studiosissimo delle manifestazioni d’arte di tutti i paesi, che nessun altri come lui segue con tanta intelligente e laboriosa attenzione, tenendosi al corrente di tutte le riviste e pubblicazioni d’arte di ogni nazione e di ogni lingua.
Osserviamo ancora le più recenti produzioni del Piacentini dal 1920 in poi, distinguendole in due gruppi: quelle di edifici pubblici e monumentali e quelle più modeste, case e villette per abitazione privata, perchè come abbiamo notato, l’artista è costretto nelle prime ad allontanarsi un po’ dalla assoluta e nuda semplicità che è una delle tendenze della modernissima architettura, e a dar loro un’intonazione più solenne e più classica. Lo stesso han dovuto fare gli architetti contemporanei in Germania: a Berlino c’è tutta una scuola moderna che trae ispirazione dai nostri stili del Rinascimento. Ma anche quando ricerca motivi di ispirazione dal passato, il Piacentini li piega e li adatta alle nuove tendenze; e ne deriva, come abbiamo visto a Bergamo, un risultato ben diverso dalle impiastricciature che erano di moda venti o trent’anni fa. Ecco il Palazzo di Giustizia di Messina, iniziato nel 1920, costruito in pietra gialla di Solunto, che nel prospetto ci appare formato da tre corpi in forma di porticati dorici, quello centrale assai più lungo, raccordato con i due laterali per mezzo di corpi di fabbrica più bassi e arretrati; li sormonta un alto attico.
Il progetto pel teatro Comunale di Cagliari è invece del tutto originale, a grandi linee verticali, con rincassi che danno un felice risalto di luci e di ombre, ed è forse una delle più belle manifestazioni del nuovo stile; pittoresco e moderno, ma di una modernità non ricercata con sforzi, ma scaturita dalla realtà. L’insieme è nobilissimo e ricco pur senza fasto, di impressione gradevole, e la novità che vi spira non è fatta di astruserie, ma è semplice, chiara, evidente. Nel progetto pel teatro Massimo di Roma (1924) che doveva sorgere in Via Vittorio Veneto, il Piacentini si ispirava invece nell’esterno a un anfiteatro romano, con un porticato circolare a doppio ordine, che arieggiava il Colosseo; concetto invero poco felice, sebbene risolvesse ingegnosamente difficoltà topografiche.
Se l’idea di elevare in Roma un teatro nazionale sembra per ora tramontata, nella stessa Via Vittorio Veneto, è già a buon punto la costruzione del sontuoso Albergo degli Ambasciatori, dovuto pure a Marcello Piacentini. Il prospetto è leggermente convesso per seguire l’andamento della strada, la quale ha anche una notevole pendenza; ma l’architetto ha superato felicemente queste due difficoltà, come pure quella di dare nobiltà e decoro a un edificio di sei piani, che si svolge su una linea relativamente breve, dando ad alcuni di questi piani maggiore importanza, colle finestre incorniciate da bugne e sormontate da timpani, e cercando di farne sparire altri intermedi, le cui luci sono semplici tagli rettangolari o sono addirittura collegate colle aperture dell’ordine inferiore, a guisa di soprafinestre. Il piano terreno sopraelevato e il primo piano sovrastante sono poi ricavati nell’altezza del portico a colonne binate, che forma basamento a tutto l’edificio, in modo che vengono anch’essi quasi a sparire.
Questi stessi ingegnosi ripieghi il Piacentini ha introdotto nella casa in Via Flaminia (1924), dove nel piano nobile ha aggruppato intorno ad alcune aperture principali ad arco, fiancheggiate da pilastri, le finestre del piano sovrastante, che viene così quasi assorbito e fuso con quello; di modo che questa facciata di casa di reddito a sei piani, e con una sopraelevazione in ritiro, ha potuto assumere il decoro di un palazzetto signorile.
Il tempio votivo internazionale della Pace, che va sorgendo in Roma, di accento bramantesco all’esterno, e all’interno arieggiante nella sua pianta centrale l’architettura orientale ravennate, ci presenta al tempo stesso una traduzione tutta moderna e realistica. Anche in questo caso l’artista ha saputo infondere una vita nuova nei vecchi stampi; certi accessori, come il cortile della canonica, già compiuto, sono di un effetto veramente gradevole. Marcello Piacentini, la cui attività, è instancabile, va portando oggi l’impronta della sua arte in quasi tutte le città d’Italia; a Genova ha presentato il piano regolatore della spianata del Bisagno, dove va sorgendo il suo arco ai Caduti, risolvendo anche qui difficili problemi planimetrici e prospettici, e adattandosi al gusto e alle tradizioni architettoniche della Superba. E intanto in Roma conduce la costruzione dell’Ippodromo di Villa Glori, la decorazione dell’Augusteo, l’adattamento di una sala delle Terme di Diocleziano a spettacoli pubblici, la Casa Madre dei Mutilati, tra il palazzo di Giustizia e il Castel S. Angelo, bene intonata alla località; con l’esterno in travertino, peperino e cortina di tufelli, o ispirato quasi a motivi d’architettura militare, e l’interno arricchito da un gran salone a croce greca absidata colle pareti a blocchi di tufo, grandi lunette in musaico, e un voltone in cemento armato a fasce piatte, come usarono il Borromini e il Padre Guarini.
Non è possibile in questo studio rilevare singolarmente le particolarità di tutti questi lavori: le illustrazioni ne mostrano abbastanza chiaramente i pregi, che neppure una minuta descrizione riuscirebbe a far apprezzare. Perchè nell’opera di Marcello Piacentini non c’è soltanto da notare l’originalità dell’insieme, la bellezza della linea, ma ogni particolare anche minimo ha un’impronta personale, dimostra lo studio amoroso dell’artista, il quale non essendo soltanto un teorico compositore, ma un conoscitore profondo dei materiali costruttivi e della tecnica, sa il valore che può assumere anche in un grande edificio, un semplice listello o una piccola modanatura. Anche in questo Marcello Piacentini si riattacca ai grandi maestri del nostro glorioso passato, anche in questo egli mostra la fede, l’amore intenso ch’egli pone nella sua arte, e che lo rendono degno delle più luminose vittorie.

ANTONIO MUÑOZ

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