MARCELLO PIACENTINI
Per comprendere le nuove tendenze dell’architettura italiana
dell’ultimo decennio, delle quali il romano Marcello Piacentini
è forse l’artista più rappresentativo, bisogna ripensare
allo stato dell’architettura nostra nel periodo immediatamente
precedente.
Io credo che chi si occupava dello studio dell’arte contemporanea,
tra il 1900 e il 1910, doveva concludere che un’architettura
moderna non esisteva. Le nostre manifestazioni edilizie si esplicavano
tutte o in fredde ripetizioni di celebri modelli del passato, adattati
faticosamente ai bisogni nuovi, o in rielaborazioni scolastiche di motivi
classici, o in goffe caricature di stili d’altri paesi, violentemente
trapiantati tra noi in un clima inadatto, in una cornice stonata. Molti
architetti non si elevavano al disopra di quei pazienti artieri che
a Firenze o a Siena ricopiano vecchi stipi intarsiati o sbalzano cuoio
e metallo sulla falsariga del Quattro e del Cinquecento.
Nell’arte sacra non si faceva che copiare le basiliche romaniche
a cortina di mattone, non tralasciando la simbolica decorazione di mostri
e di chimere; in quella profana si pensava che una Cassa di Risparmio
o una Direzione delle Poste, potessero scimmiottare Palazzo Strozzi
o Palazzo Farnese, con false bugne e incorniciature di stucco alle
finestre.
Bisognava guardare ad una delle manifestazioni più tipiche dell’edilizia
moderna, al villino, per vedere che ibrido e miserabile guazzabuglio
di stili, di forme, di motivi, imperava nell’architettura; dalle
immancabili riduzioni in formato minuscolo di palazzi, celebri del
Rinascimento in stile toscano, ai castelli medioevali in diciottesimo
colla torre merlata, al finto moresco, allo châlet svizzero; c’era
qui è vero la volontà dei committenti che costringeva
l’invenzione dell’architetto; molto spesso questi era assente,
perchè il commerciante arricchito o l’alto funzionario
credevano di poter fare da sè, ricalcando sulle fotografie e
affidandosi al buon gusto di un capomastro.
Eppure se c’era un genere di costruzione che offrisse tema di
studio e di soluzioni nuove a un architetto moderno, era appunto questo.
C’era poi tutta una parte dell’edilizia che si riteneva
estranea all’intervento dell’architetto e riservata ai
tecnici, i quali si guardavano bene dal ricorrere a quelli che si chiamavano
elegantemente i lenocini dell’arte: cosi gli stabilimenti industriali,
i magazzini, gli ospedali, le scuole, le caserme, le stazioni ferroviarie,
erano riservate agli ingegneri specialisti, i quali si attribuivano
pure la maggior parte delle cosi dette costruzioni civili, cioè
delle grandi case d’affitto che il fenomeno dell’urbanismo
faceva sorgere in gran numero nei quartieri nuovi delle città.
Naturalmente data una simile concezione dell’architettura non
poteva nemmeno nascere l’idea di un intervento dell’architetto
nella decorazione interna e nell’arredamento, che si abbandonava
senz’altro, non diciamo al gusto, ma alle mani del tappezziere
e del negoziante di mobili. E magra consolazione per noi poteva esser
quella di constatare che le cose procedevano circa nello stesso modo
anche in tutti gli altri paesi del mondo: nelle capitali straniere sugli
edifici pubblici si elevavano fastigi di pietra e di stucco, arricchiti
da una scultura decorativa degna, nella sua banale volgarità,
di stare a pari con una simile architettura.
Le costruzioni minori, le banche, i palazzi, le case di abitazione,
presentavano la stessa banale imitazione di vecchi stili, per cui certe
grandi strade nella successione degli edifici sembrano quasi l’esemplificazione
di tutti gli stili, dal classico al romanico, al gotico, al rinascimento,
al barocco; senza nessuna rispondenza dei loro posticci prospetti agli
ordinamenti interni; convenzionali applicazioni esteriori, che si credeva
di rendere più belle aggiungendovi fronzoli e ornati a piene
mani. Il materiale impiegato quasi generalmente, lo stucco; la meccanicità
delle decorazioni fatte a stampo, bene si adattavano alla volgarità
dell’insieme.
È probabile che a questa convenzionalità dell’architettura
avesse contribuito anche il rifiorire degli studi storici dell’arte,
per cui si predicava da critici in buona fede il ritorno all’antico,
la resurrezione degli stili nazionali, e specialmente negli edifici
pubblici si credeva ottimo partito, se non un dovere cittadino, di riprodurre
gli antichi modelli, sicchè il palazzo municipale di una città
italiana, o il Rathaus di una città germanica, dovevano quasi
inevitabilmente essere costruiti secondo gli antichi stili patrii.
In Italia il male fu aggravato dal fatto che la trasformazione delle
principali nostre città avvenne appunto dal 1870 in poi; i vecchi
centri storici con le loro meravigliose architetture del passato, vennero
circondati e soffocati dalla banalità dei quartieri moderni,
ai quali dovettero spesso cedere il posto. Purtroppo la corrente di
questa architettura da imprenditori, camuffata col suo pretenzioso
manto decorativo, non ha compiuto il suo corso, e continua ancora
ad inondare le città nostre, le campagne e le spiagge.
Ma finalmente contro il trionfo della banalità è sorta
una viva reazione, ed oggi possiamo salutare con un sospiro di liberazione
l’apparire di nuovi ideali artistici, che sono sicuramente destinati
ad affermarsi e a trionfare. C’è oggi una nuova scuola
che si contrappone nettamente alla vecchia, ispirandosi a principii
del tutto opposti, e che conta in ogni paese manipoli di giovani che
le nuove idee sostengono vittoriosamente. Ad un critico contemporaneo
riesce difficile riconoscere con precisione il formarsi delle nuove
correnti d’arte, e fissarne i caratteri e le origini: in ogni
età il nuovo si sovrappone e si incrocia col vecchio; ci sono
i novatori arditi e i ritardatari testardi; per cui soltanto a distanza
di anni lo storico riesce a individuare un movimento artistico e a stabilirne
i limiti di tempo e di spazio.
Tuttavia chi seguiva le manifestazioni dell’arte moderna, avvertiva
già negli anni prima della guerra il germogliare di nuove idee,
l’apparizione di nuove tendenze.
I primi accenni di nuovi tentativi nel campo dell’architettura
risalgono ai primi anni del secolo nostro, e hanno avuto origine fuori
d’Italia, a Vienna, a Praga, in Germania, e si son diffusi poi
nel Belgio, in Francia, e da ultimo in Italia. Questo rapido affermarsi
dei nuovi ideali dell’architettura dimostra come il male fosse
generale e quindi generale la reazione, per cui il movimento appena
iniziato ha trovato subito dappertutto la sua risonanza, così
comune a tutti i giovani architetti di ogni paese era il bisogno di
liberarsi dalle viete scolastiche formule dell’arte predominante,
di sfrondare, di chiarire, di semplificare. Ma se già nel principio
del Novecento si manifestarono i fermenti del movimento nuovo, si può
dire che le moderne tendenze si sono solidamente affermate soltanto
nel dopo guerra. E qui si aprirebbe la via ad infinite considerazioni
sull’influsso che gli avvenimenti politici possono avere sull’arte:
generalmente la critica non lo ammetteva, e si ripeteva ad esempio che
le agitate vicende della storia italiana del Cinquecento non hanno
alcun riflesso sullo stile di Raffaello e di Michelangelo, come le
guerre napoleoniche non hanno influito sull’arte del Canova, Ma
se gli avvenimenti storici non possono modificare ciò che è
prodotto dello spirito, lo stile, essi hanno conseguenze economiche
e sociali che non mancano di farsi sentire nel campo dell’arte,
specialmente dell’architettura, l’arte necessaria, che è
così strettamente legata alle condizioni di vita dei popoli,
e alle loro risorse finanziarie. Per questo possiamo affermare che
l’immane guerra dei giorni nostri, che tante cose ha sconvolto
e mutato, ha avuto anche conseguenze incommensurabili per lo svolgimento
dell’architettura.
Del resto le necessità della vita moderna, già prima della
guerra avevano per lo meno mutato i temi che si presentavano all’architetto:
rare le commissioni di palazzi monumentali, di edifici pubblici grandiosi
e solenni, più comuni le fabbriche di modeste intenzioni e di
mezzi ristretti, come la palazzina, il villino, la piccola casa di
abitazione borghese. Nel dopo guerra la richiesta di questi tipi di
costruzioni è venuta aumentando, sia per lo spostamento e per
il frazionamento della ricchezza, che permette a tanta gente, anche
di condizione modesta, di aspirare al sogno della casa propria, sia
per il costituirsi di associazioni e di cooperative per gli alloggi,
che ha prodotto il formarsi di piccoli quartieri, di palazzine e di
villini a schiera. Non poca influenza ha avuto la guerra nella scelta
dei materiali da costruzione. Il maggior costo del mattone e della
pietra da taglio, l’elevato prezzo della mano d’opera,
la necessità di risolvere in breve tempo la crisi degli alloggi,
hanno fatto sì che l’architetto e il costruttore hanno
dovuto far ricorso a metodi più economici e più rapidi.
Il cemento armato, questa grande innovazione della tecnica, che prima
della guerra trovava ancora molti scettici e dubbiosi, si è imposto
appunto per la facilità e per la rapidità con cui ha risolto
tanti problemi e per la duttilità con cui si assoggetta ai più
varii trattamenti, e ha prodotto una vera rivoluzione nell’architettura
moderna.
Anche le più diffuse regole dell’igiene per la distribuzione
degli spazii, delle luci, dei servizii accessorii, hanno avuto il loro
riflesso nel campo dell’architettura, sopprimendo tutto quello
che era fasto esteriore, a beneficio della praticità e della
comodità. Così l’architettura non s’intende
più come un’arte astratta, come una formula esteriore
alla vita, ma si avvicina e si identifica colle necessità stesse
della vita, diventando quasi un mestiere più elevato, non una
oziosa ricerca di abbellimenti formali.
Mai come oggi si può dire applicato il principio del vecchio
critico settecentesco Francesco Milizia, secondo il quale l’architettura
dev’essere utile, e la sua bellezza deriva tutta non dalla ricchezza
dell’ornato, ma dalla semplicità e dalla rispondenza dell’edificio
in ogni sua parte allo scopo a cui è destinato. Quando si cominciò
ad adoperare il cemento armato colle sue infinite possibilità,
si pensava che esso dovesse rimanere un puro mezzo tecnico, destinato
a sostituire il mattone e la pietra, assumendone servilmente le forme
e gli aspetti. Si facevano di cemento le stesse architetture che si
facevano prima in altri materiali; si piegava questo nuovissimo mezzo
alle vecchie forme e ai vecchi ordini; poi si è veduto come questo
mezzo nuovo poteva essere il punto di partenza di nuovi motivi, l’ispiratore
di tutta una nuova concezione architettonica. Quando si fecero per
esempio i primi ponti in cemento armato, si riproducevano i vecchi tipi
tradizionali a serie di piloni e di piccoli archi; soltanto più
tardi si costruirono gli arditi ponti ad arcate amplissime e magari,
quand’era possibile, ad una sola arcata: da questa soluzione
di un problema dovuta esclusivamente all’ingegneria, derivava
naturalmente una nuova forma artistica: non più archi a tutto
sesto, ma arcate a corda lunghissima, e in chiave nient’altro
che un sottile diaframma; quindi abbandono della decorazione dei piloni,
delle mostre degli archi, e tutta la bellezza dell’opera espressa
nella sagoma snella, arditissima della grande arcata, lanciata da una
sponda all’altra.
Qualche cosa di simile è accaduto nel campo dell’automobilismo:
da principio non si fece altro che applicate il motore al vecchio tipo
di vettura a trazione animale, poi si comprese che l’automobile
poteva e doveva avere una forma adatta al suo scopo, più agile,
più leggera, più bassa per offrire meno resistenza all’aria,
e si è creato il tipo nuovo che è l’imagine stessa
della snellezza e della velocità. E, anche in questo caso, il
profilo, la linea, d’insieme, hanno creato la. bellezza delle
nuove macchine, dove sarebbero certamente fuori di posto le dorature
e gli ornati di una berlina di gala.
Non si deve credere però, per quanto abbiamo detto sopra, che
il cemento armato sia stato la causale e l’origine unica della
nuova architettura; esso rappresenta la materia che ha suggerito nuovi
motivi, che non avrebbero altrimenti trovato possibilità d’attuazione,
e spesso ha invitato quasi gli artisti alla ricerca di forme più
snelle, più semplici, più schiettamente strutturali. La
tecnica moderna che gli architetti disprezzavano come cosa estranea
all’arte, ha fornito invece loro una lezione che non si. aspettavano;
l’ingegneria che tende al raggiungimento dei suoi scopi colla
maggiore semplicità di mezzi possibile e con la maggiore economia,
ha consigliato all’architettura di seguire la stessa via, abbandonando
i fronzoli e le impasticciature. E l’architetto non può
essere più oggi il disegnatore idealista che compone un prospetto
decorativo, che consegnerà poi all’ingegnere perchè
lo applichi alla sua costruzione, qualunque essa sia, ma deve concepire
la sua composizione artistica in stretto rapporto con la struttura della
fabbrica.
Definire i caratteri essenziali della nuovissima architettura è
ardua cosa; come dicevo da principio, essi ci appaiono evidenti per
ragioni di contrasto, quando si guardano le forme predominanti nel periodo
precedente. Allora possiamo concludere che la sincerità, la razionalità,
la stretta aderenza dello stile allo scopo e all’uso dell’edificio,
la rispondenza dell’esterno all’interna struttura, l’impiego
dei materiali alle funzioni che meglio si adattano alla loro qualità,
l’abbandono della decorazione inutile e posticcia, sono i caratteri
che meglio risaltano nella nuova arte che così rapidamente si
va diffondendo in ogni paese. Si cerca di ridurre ogni elemento all’essenziale,
al necessario, col minimo sforzo possibile: una costruzione nuova dev’essere
agile, snella, perfettamente rispondente all’uso cui è
destinata, senza ingombri, senza appiccicature, che nuocerebbero alla
sua netta semplicità.
Sopra una simile architettura la decorazione diviene quasi superflua,
perchè non avrebbe ragione d’essere, e anzi ogni elemento
inutile riesce intollerabile. Pensiamo ad una macchina moderna, ad
una locomotiva, che nel perfetto ingranaggio di tutte le sue parti noi
troviamo bella come un’opera d’arte: se domani venisse in
mente al suo costruttore di arricchirla di festoni, di fregi, di ornamenti,
non perderebbe molto, se non tutto, della sua bellezza, che risiede
appunto nella sua metallica semplicità? E un battello a vapore,
che noi ammiriamo volare sulle acque nella elegante sagoma del suo scafo
d’acciaio e delle sue ciminiere, non perderebbe la sua bellezza,
se lo si decorasse di intagli e di dorature, come un bucintoro?
Questo desiderio di semplificazione, di chiarificazione, di abbandono
dei fronzoli e delle preziosità inutili, che è proprio
della novissima architettura, non è, a chi ben lo osservi, un
fenomeno particolare di questa arte. Lo studioso dei problemi estetici
non ignora che in ogni epoca le più svariate attività
umane sono collegate anche inavvertitamente tra loro da un filo comune,
che è l’unità dello spirito di tutto un popolo
e di tutto un periodo storico. Dentro la casa moderna, nel moderno teatro,
nel nuovissimo cinematografo come nella modernissima automobile, vediamo
ad esempio perfettamente incorniciata la donna dei tempi nuovi, con
le sue vesti semplici che lasciano libertà ai movimenti e al
tempo stesso mettono in rilievo le snelle forme, senza artificiose sovrapposizioni.
Anche la moda ha seguito lo stesso processo di semplificazione, adattandosi
al genere di vita più attivo che la donna oggi conduce, e anche
qui la via tenuta è la stessa: abbandono di tutto il sovraccarico
di ornamenti, di sbuffi e di gale che caratterizzava la moda di venti
e trenta anni fa, per la ricerca della linea perfettamente aderente
alla persona e ai movimenti che deve fare.
Questa trasformazione profonda che caratterizza la nuovissima architettura
è avvenuta si può dire quasi spontaneamente. Essa è
il prodotto naturale di un complesso di cause e di necessità,
non l’applicazione di principii astratti, e per questo appunto
è arte vera e originale e destinata a trionfare. E’ un
errore credere che l’arte possa crearsi in base a programmi elaborati
da accademie o banditi da cenacoli; specialmente per l’architettura,
sono le esigenze dei tempi, lo sviluppo dei mezzi tecnici, il gusto
di tutta una società che influiscono e guidano l’opera
degli artisti. L’arte viva è quella che nasce dalla vita
stessa, non dalle discussioni che si fanno intorno ai tavolini dei caffè,
non quella che si bandisce nei regolamenti delle scuole e delle accademie;
abbiamo visto proprio ai giorni nostri come sia fallito miseramente
il tentativo fatto nella Russia dei Sovieti di creare un’arte
di stato.
Ho appena nominato finora l’artista a cui è dedicato questo
mio studio: Marcello Piacentini. Ma esponendo così in rapidi
accenni le tendenze della nuova arte, ho sempre pensato all’opera
sua, perchè il Piacentini di quelle tendenze può considerarsi
in Italia il più schietto rappresentante, per cui, sebbene ancora
giovane, egli è veramente un caposcuola.
Nato a Roma nel 1881, e figlio di un architetto egregio, Marcello Piacentini
ha compiuto i suoi studii nell’Istituto di Belle Arti, conseguendo
il diploma di professore di disegno architettonico, e più tardi
quello di architetto civile nella Scuola di Applicazione degli Ingegneri.
Giovanissimo ancora si cimentò vittoriosamente in molti concorsi,
sia per singoli edifici, sia per sistemazioni edilizie di località
e di intieri quartieri. E i suoi progetti manifestano fin dal principio
della sua attività la ricerca di una nota indipendente e personale.
Non era facile a un giovane che voleva farsi strada nell’architettura
italiana prima del 1910, vincere l’indifferenza allora quasi generale,
affermarsi in quella caotica promiscuità di vecchie forme, in
quella ripetizione scolastica dei più varii stili, in cui stagnava
allora la nostra architettura. Tutta la nuova Roma venuta su dal 1870
in poi sta a dimostrare la povertà di spirito dell’architettura
di quel tempo, e seppure tra quei meccanici ed eclettici mestieranti
era apparsa di tanto in tanto qualche nobile figura di artista, essa
non aveva potuto fare altro che seguire la corrente generale, distinguendosi
soltanto per un atteggiamento di signorile eleganza sulla folla insulsa
e plebea. Il gusto del tempo costringeva anche gli artisti maggiori
a quella faticosa rimasticazione di stili passati che in quei tempi
si chiamava architettura. Anche allora unità dello spirito:
quella volgare ibrida architettura corrispondeva perfettamente alla
scultura che Ugo Ojetti una volta ha argutamente chiamata massonica,
che ha deturpato tra l’80 e il ‘900 tutte le piazze d’Italia
coi suoi Garibaldi, coi suoi Vittorio Emanuele, coi suoi Cavour, coi
suoi presidenti del Consiglio in redingote; la guerra ci fornì
una magnifica occasione per ridurre in cannoni tutti gl’inutili
metalli, ma purtroppo l’abbiamo lasciata passare. E la letteratura
dei romanzi a dispense, la moda, e sopratutto la decorazione interna
completavano armonicamente il quadro della vita artistica italiana di
quei decenni. I giovani che in quegli anni si preparavano in silenzio,
erano soffocati da tanta piatta volgarità, per cui bisogna attribuire
gran merito ai pochi che riuscirono a sollevarsene e a trionfare, e
Marcello Piacentini fu fra questi uno dei primi.
Non è mio compito ricordare qui la sua prima attività,
i concorsi da lui vinti, i premi numerosi ottenuti, poichè questo
studio vuole rilevare principalmente l’opera dell’artista
nel nuovo indirizzo dell’architettura. Il mutamento del Piacentini,
il suo avviarsi pei nuovi cammini dell’arte, si inizia poco dopo
il 191 5; in quell’anno di manifestazioni festaiole in Roma, fra
tante creazioni improvvisate di stucco e di cartapesta, 1’opera
del Piacentini si affermò; ma erano quelle, per fortuna sua,
le ultime espressioni di uno stile che egli doveva subito abbandonare.
Anno memorabile quello, nella storia dell’architettura in Roma;
si inaugurava il monumento a Vittorio Emanuele e si compiva il Palazzo
di Giustizia, due opere insigni, ma che sono il suggello di un periodo
artistico che ormai tramontava, espressioni nobilissime, per diverse
vie, di un passato che oggi ci sembra già immensamente lontano.
Prima della guerra il Piacentini compì molti viaggi all’estero,
visitando la Germania, la Francia, l’Olanda, il Belgio e gli
Stati dell’America del Nord; da questi viaggi egli tornò
trasformato. E qui dobbiamo sfiorare un punto delicato sull’origine
della nuova arte: i critici superficiali che sentenziano sulle gazzette,
ancor oggi ogni volta che si levano i ponti di una nuova fabbrica in
stile moderno, gridano al tedeschismo. Premetto che da un punto di
vista puramente estetico non ho nulla in contrario a una infiltrazione
d’arte straniera, se questa ha pregi superiori alla nostra, e
può insegnarci qualcosa. Quando oggi si visita ad esempio il
vecchio centro di Praga, e vi s’incontrano a ogni passo tracce
dell’influsso italiano sull’architettura di quel paese
nel Settecento, a nessuno viene in mente di dedurne un’inferiorità
spirituale della Boemia in confronto dell’Italia: un complesso
di cause aveva permesso in quel periodo all’architettura italiana
di risolvere certi problemi e rispondere a certe tendenze meglio che
quella di ogni altro paese, e quindi lo stile nostro veniva accettato
in tutta Europa, e perfino nell’America Latina, importatovi
dai Gesuiti e dai missionari. Oggi circostanze politiche, economiche,
sociali, hanno fatto sì che la nuovissima architettura, che
come ho detto più avanti non ha un fondamento etnico, ma risponde
a un bisogno universale derivato dalle nuove esigenze della vita, abbia
trovato in Germania più facile terreno e più pronta applicazione.
Ma basta osservare che in Francia, dove pure è congenita la
repulsione verso gli atteggiamenti dello spirito alemanno, la nuova
architettura si è affermata e diffusa vittoriosamente. Del
resto molti motivi della moderna architettura tedesca si riconnettono
a forme dei secoli scorsi della più schietta italianità,
specialmente del Borromini, sia pure passati attraverso l’interpretazione
settecentesca viennese dei Fischer von Erlach.
Una prima manifestazione del nuovo atteggiamento di Marcello Piacentini
la troviamo già nel 1913, nella villetta Rusconi, piccola costruzione
in cui le tendenze nuove sono già tutte pienamente accettate.
Chiarezza, soppressione delle false strutture, richiami alle forme
ingenue e spontanee dell’arte rurale: la decorazione è
del tutto assente, e pure nell’insieme e nei particolari vi è
un’eleganza nuova, fatta non di fronzoli, ma di freschezza, di
naturalezza, di semplicità. E’ importante tener presente
la data, perchè di quello stesso anno sono le manifestazioni
più significative e rumorose del nuovo stile fuori d’Italia
proprio nell’aprile del 1913 si aprì a Parigi il nuovo
teatro des Champs Elysées, annunziato a suon di tromba da tutti
i grandi giornali francesi, come un avvenimento nella storia architettonica
della capitale. Gli stessi autori di quel teatro, che divenne fomite
di una nuova querelle des anciens et des modernes, più interminabile
di quella scatenata ai tempi di Luigi XIV da Boileau e da Perrault,
gli architetti fratelli Perret antesignani in Francia del nuovo stile,
riassumevano così la formula a cui obbediva la concezione generale
dell’opera: confortable et technique anglo-saxons, harmonie du
goût français; e non avevano torto, perchè sarebbe
ingiusto accusare di imitazione germanica quella fresca e piacevole
architettura. I due artisti francesi avevano saputo cogliere i principii
dell’arte nuova apparsa a Vienna e poi a Darmstadt, e diffusa
quindi in tutta la Germania, e ne avevano fatto qualche cosa di schiettamente
nazionale, di squisitamente francese e parigino. E del resto non dimentichiamo
che nella civiltà vertiginosa di oggi, mentre l’aeroplano
ci trasporta in sei ore da Parigi a Vienna, in tre da Copenaghen a
Berlino, e le Esposizioni Internazionali, e le Fiere periodiche mettono
vicino a Venezia, a Monza, a Parigi, i prodotti di tutti i paesi, non
è più possibile che l’arte delle singole nazioni
mantenga intatta la sua fisionomia etnica: ai giorni nostri è
tutto un giuoco di reciproci influssi, di scambii, di mutue concessioni.
Tuttavia è certo che perchè il nuovo stile abbia ad affermarsi,
esso deve in ogni paese tener conto degli elementi tradizionali e delle
ragioni pratiche di clima, di abitudini, di costumi. E il merito grande
di Marcello Piacentini è appunto questo, di avere meravigliosamente
adattato alle esigenze nostre, al nostro ambiente, i principii generali
dell’arte nuova. Ecco come nel Palazzo della Banca d’Italia
in Piazza del Parlamento (1914), egli riprende dei motivi che sono nella
facciata di Propaganda di Gianlorenzo Bernini, con una geometrica
divisione a paraste e con piani rientranti, che si innestano sopra
un primo ordine a forti bugne con motivi palladiani; ne risulta un insieme
sobrio, netto e robusto, che è nuovo ed è antico, perchè
vi spira il senso tutto italiano delle proporzioni. Specialmente vivendo
e operando a Roma, dove ad ogni svolto di strada ci si fa innanzi il
terribile e maestoso passato, un artista cosciente come il Piacentini
non può a meno di sentirsi ad esso legato, non con impacci costrittivi,
ma con vincoli atavici di amore e di rispetto. Ma dove poteva nascere
un tragico dissidio, un ondeggiamento, un’incertezza tra l’aspirazione
verso il nuovo e il timoroso ossequio all’antico, è risultata
invece nello spirito di questo nobile artista una perfetta fusione delle
due tendenze, una equilibrata armonia, una sapiente compenetrazione,
specialmente quando egli si è trovato di fronte a problemi di
indole monumentale, dove per necessità la sobria razionalità
strutturale della nuova arte doveva essere arricchita e resa più
solenne da qualche nota di più ampia tonalità. Così
quando ideava l’arco di trionfo ai caduti di Genova, il palazzo
di Giustizia di Messina (1920), il tempio votivo per la Pace in Roma,
il teatro Nazionale pure in Roma, Marcello Piacentini mostrava di possedere
perfettamente il senso della grandiosità e specialmente dell’ambientamento.
L’architettura non può essere la stessa per una villetta
rustica o per un palazzo di Giustizia, per un albergo o per un Parlamento;
è questo un assioma che non parrebbe avesse bisogno di essere
nemmeno ricordato; eppure quante volte gli artisti dei nostri giorni
non hanno capito che le linee del palazzo Rucellai non potevano adattarsi
a un villino o quelle di una chiesa berniniana a un cinematografo?
E neppure ciò che sta bene a Viterbo potrà adattarsi a
Napoli, o quello che incanta a Venezia potrà stare a posto a
Milano. Altra verità evidente, eppure quante Cà d’oro
di falso conio non s’incontrano oggi per tutta l’Italia
di terraferma? E quante basiliche lombarde non vediamo dappertutto,
e a Roma perfino dentro la barocca villa Pamphily?
Marcello Piacentini non è mai caduto in questi errori, perchè
delle ricerche d’ambiente egli è, si può dire,
uno specialista e un maestro. Professore, da pochi anni, di edilizia
cittadina alla Scuola Superiore di Architettura in Roma, il Piacentini
si era preoccupato però fino da giovanissimo degli studii sui
piani regolatori, sulla sistemazione di città e di quartieri,
cercando anche in questo campo di reagire contro il sistema invalso
delle piante a scacchiera, che rendono tutte le strade uguali e prive
di carattere, per cercare tracciati di pittoresco aggruppamento con
asimmetrie piacevoli, con suggestivi effetti prospettici. I suoi progetti
per la restaurazione del centro di Bologna (1917), per lo sviluppo
della Roma moderna (1916); l’opera da lui prestata in varie Commissioni
per la preparazione e l’esame di piani regolatori di varie altre
città d’Italia, testimoniano in questo difficile campo
dell’edilizia una preparazione e un gusto veramente cospicui.
E, passando dagli studii alla pratica attuazione, Marcello Piacentini
ha dato un mirabile esempio colla creazione del nuovo centro di Bergamo,
che è tra le sue opere più vaste e complesse. Vinto nel
1908 il Concorso bandito dal Comune di Bergamo per la sistemazione del
centro cittadino, il giovane artista mostrò fin da allora la
sua capacità nella soluzione del problema in cui tanti altri
architetti si erano cimentati senza riuscire. Si trattava non soltanto
di creare tutto un nuovo quartiere nella città bassa, ma di rispettare
colla massima cura il panorama della città alta, e il carattere
dell’architettura locale. Nel progetto vincitore del Concorso,
il Piacentini si mostrava ancora legato per molti rapporti alle vecchie
concezioni dell’architettura allora imperanti, ispirandosi a
motivi del Tre e Quattrocento; poi durante l’attuazione del vasto
disegno, che ancora oggi non è intieramente compiuta, egli modificò
lo stile degli edifici, studiando l’arte locale, e avvicinandosi
ai suoi nuovi ideali artistici, per quanto il tema affidatogli lo obbligasse
al rispetto della tradizione. Ma se non poteva qui dar corso liberamente
alle sue nuove tendenze, il Piacentini ha infuso negli schemi antichi,
a cui ha dovuto adattarsi, uno spirito nuovo, fatto anche qui di chiarezza,
di sobrietà e di semplicità; così che se nei varii
edifici che compongono questo suo pittoresco centro di Bergamo, riconosciamo
qua e là l’eco dell’arte di altri tempi, non si può
dire che il Piacentini abbia mai imitato o copiato, rinunciando alla
sua personalità; egli ha invece riprodotto in sè spontaneamente
il processo creativo degli artisti antichi, per cui tutte quelle fabbriche
non sono fredde ricostruzioni, ma creazioni fresche, vive, originali.
Intorno alla grande piazza Dante si elevano il palazzo di Giustizia,
severo ed elegante ad un tempo, col suo alto corpo centrale che inquadra
l’ingresso; la Banca d’Italia; il palazzo delle Poste; la
Camera di Commercio; il Credito Italiano, e due fabbricati privati
collegati con portici bassi. A fianco sorge la piazza Vittorio Veneto,
cinta di portici e aperta da un lato verso il Passeggio e un ampio
giardino. Un’alta torre con l’orologio mette una forte nota
di verticalismo nell’insieme degli edifici, arricchita da una
mirabile Loggia marmorea come l’antico Arengo, decorata nel raffinato
stile dell’Amadeo. Si può dire che il Piacentini abbia
avuta, o meglio si sia guadagnata a Bergamo, una fortuna che poche
volte capita agli architetti, quella di. poter concepire con unità
di visione un intiero quartiere, circondato da edifici pubblici; ed
egli ha saputo dare un esempio magnifico di come dev’essere ai
giorni nostri concepito un piano regolatore, non come uno scomparto
geometrico segnato e sviluppato sulla carta, ma come un insieme vitale,
pittoresco e vario; come fosse creato non dalla mente di un sol uomo,
ma dalle necessità stesse della vita e della località;
e per questo nei lunghi anni che vi ha lavorato, egli lo ha modificato
ogni volta che gli si è presentato nell’esecuzione lo spunto
di un motivo originale, un effetto prospettico, uno sfondo piacevole,
una visuale caratteristica. Così quel vasto gruppo di edifici
ha assunto il fresco sapore dei vecchi centri, delle nostre città
storiche, formatesi quasi casualmente con fabbriche di epoche diverse,
ma tutte armonizzanti fra loro, perchè vi spira uno stesso alito
suggestivo e spontaneo. Sullo sfondo della piazza porticata che s’intitola
a Vittorio Veneto, Bergamo alta si raggruppa sul colle coi suoi campanili,
colle sue torri, in una visione perfettamente intonata col nuovo quartiere
che si estende giù in basso.
Fra tutti gli edifici del nuovo centro di Bergamo il più notevole
è quello della Banca Bergamasca, ancora in costruzione, col porticato
inferiore in marmo bigio, le finestre e il cornicione in marmo bianco
rosato, il fondo in marmo verde, i balconi in bianco, i balaustri in
nero, così che ne risulta una sinfonia di tinte sfumate, messe
a fianco con grande sapienza di effetto.
Due notevolissime manifestazioni dell’arte piacentiniana sono
il Cinema Corso a Roma e il Teatro Savoia in Firenze. Nel primo (1917),
che dette luogo a polemiche vivacissime, il Piacentini seppe creare
uno dei più simpatici ed eleganti ritrovi della Roma moderna:
nell’interno la struttura del cemento armato appare in tutta la
sua sveltezza metallica; non vi sono colonne, non vi sono pilastri di
sostegno per l’ordine superiore, i quali avrebbero appesantito
l’architettura e impedito la vista del quadro. Nè vi sono
palchi, se non due per lato, ricavati nell’ampio arco della scena,
piccoli, elegantissimi, tappezzati di stoffe variopinte, come scatole
profumate per contenere delle bambole, ove le eleganti signore moderne
stanno a posto in una cornice mirabilmente graziosa. La decorazione
è tutta nuova, festosa, freschissima, basata principalmente sul
contrasto tra stucchi rustici e stucchi lisci, che dà l’effetto
di un velluto controtagliato; negli spicchi della volta quattro medaglioni
di Arturo Dazzi rappresentano la Danza, la Commedia, la Tragedia e la
Musica; lampadari rotondi, torceri, lanterne di alabastro e di vetro
colorato, pannelli di stoffa variopinta, completano l’ornamentazione
in un quadro armonioso e piacevole in cui dominano il bianco ed il blu
intenso. E’ da rilevare in ogni parte la perfezione della tecnica
del legno, del ferro, del vetro, della stoffa, che è uno dei
portati della nuova architettura, che risuscita a dignità le
così dette arti minori, abbandonate nei passati decenni a una
sciatta faciloneria di mestieranti. Oggi, e ne testimoniano i successi
dell’Italia nelle recenti Mostre internazionali, risorge il gusto
raffinato delle nostre antiche maestranze, e non si sprecano più
l’abilità e la pazienza insuperabili dei nostri artigiani
per ricopiare e falsificare le cose vecchie, ma sotto la guida dei
grandi artisti, si dà loro il modo di provarsi in una produzione
nuova, originale e spontanea, che non deve servire più a soddisfare
il gusto degli inglesi e il commercio degli antiquari. Per la perfezione
dei particolari tecnici, è ancora più notevole il teatro
Savoia di Firenze (1922), situato dentro le mura perimetrali antiche,
residuo di un vecchio palazzotto quattrocentesco, detto lo Strozzino,
ciò che presentò per l’architetto difficoltà
non lievi, da lui felicemente superate, conciliando col rispetto di
quanto esisteva, le necessità nuove. Il Piacentini ha dato vita
a quelle muraglie, ispirandosi allo stile fiorentino del Quattrocento,
senza cadere in quelle goffe imitazioni che hanno reso così banali
tante fabbriche moderne, che si ammantano di un così detto stile
toscano. L’interno, armonico ed elegantissimo, riprende nella
decorazione motivi brunelleschiani, ma con spirito moderno.
In queste creazioni del Piacentini troviamo certamente l’eco
del teatro des Champs Elysées, dei fratelli Perret, e quella
del nuovo teatrino di Prostejov (Moravia), di Jan Kotera, il caposcuola
dell’architettura boema, morto due anni or sono: l’artista
italiano è studiosissimo delle manifestazioni d’arte di
tutti i paesi, che nessun altri come lui segue con tanta intelligente
e laboriosa attenzione, tenendosi al corrente di tutte le riviste e
pubblicazioni d’arte di ogni nazione e di ogni lingua.
Osserviamo ancora le più recenti produzioni del Piacentini dal
1920 in poi, distinguendole in due gruppi: quelle di edifici pubblici
e monumentali e quelle più modeste, case e villette per abitazione
privata, perchè come abbiamo notato, l’artista è
costretto nelle prime ad allontanarsi un po’ dalla assoluta e
nuda semplicità che è una delle tendenze della modernissima
architettura, e a dar loro un’intonazione più solenne
e più classica. Lo stesso han dovuto fare gli architetti contemporanei
in Germania: a Berlino c’è tutta una scuola moderna che
trae ispirazione dai nostri stili del Rinascimento. Ma anche quando
ricerca motivi di ispirazione dal passato, il Piacentini li piega e
li adatta alle nuove tendenze; e ne deriva, come abbiamo visto a Bergamo,
un risultato ben diverso dalle impiastricciature che erano di moda venti
o trent’anni fa. Ecco il Palazzo di Giustizia di Messina, iniziato
nel 1920, costruito in pietra gialla di Solunto, che nel prospetto ci
appare formato da tre corpi in forma di porticati dorici, quello centrale
assai più lungo, raccordato con i due laterali per mezzo di corpi
di fabbrica più bassi e arretrati; li sormonta un alto attico.
Il progetto pel teatro Comunale di Cagliari è invece del tutto
originale, a grandi linee verticali, con rincassi che danno un felice
risalto di luci e di ombre, ed è forse una delle più belle
manifestazioni del nuovo stile; pittoresco e moderno, ma di una modernità
non ricercata con sforzi, ma scaturita dalla realtà. L’insieme
è nobilissimo e ricco pur senza fasto, di impressione gradevole,
e la novità che vi spira non è fatta di astruserie, ma
è semplice, chiara, evidente. Nel progetto pel teatro Massimo
di Roma (1924) che doveva sorgere in Via Vittorio Veneto, il Piacentini
si ispirava invece nell’esterno a un anfiteatro romano, con un
porticato circolare a doppio ordine, che arieggiava il Colosseo; concetto
invero poco felice, sebbene risolvesse ingegnosamente difficoltà
topografiche.
Se l’idea di elevare in Roma un teatro nazionale sembra per ora
tramontata, nella stessa Via Vittorio Veneto, è già a
buon punto la costruzione del sontuoso Albergo degli Ambasciatori, dovuto
pure a Marcello Piacentini. Il prospetto è leggermente convesso
per seguire l’andamento della strada, la quale ha anche una notevole
pendenza; ma l’architetto ha superato felicemente queste due
difficoltà, come pure quella di dare nobiltà e decoro
a un edificio di sei piani, che si svolge su una linea relativamente
breve, dando ad alcuni di questi piani maggiore importanza, colle finestre
incorniciate da bugne e sormontate da timpani, e cercando di farne
sparire altri intermedi, le cui luci sono semplici tagli rettangolari
o sono addirittura collegate colle aperture dell’ordine inferiore,
a guisa di soprafinestre. Il piano terreno sopraelevato e il primo
piano sovrastante sono poi ricavati nell’altezza del portico
a colonne binate, che forma basamento a tutto l’edificio, in
modo che vengono anch’essi quasi a sparire.
Questi stessi ingegnosi ripieghi il Piacentini ha introdotto nella
casa in Via Flaminia (1924), dove nel piano nobile ha aggruppato intorno
ad alcune aperture principali ad arco, fiancheggiate da pilastri, le
finestre del piano sovrastante, che viene così quasi assorbito
e fuso con quello; di modo che questa facciata di casa di reddito a
sei piani, e con una sopraelevazione in ritiro, ha potuto assumere
il decoro di un palazzetto signorile.
Il tempio votivo internazionale della Pace, che va sorgendo in Roma,
di accento bramantesco all’esterno, e all’interno arieggiante
nella sua pianta centrale l’architettura orientale ravennate,
ci presenta al tempo stesso una traduzione tutta moderna e realistica.
Anche in questo caso l’artista ha saputo infondere una vita nuova
nei vecchi stampi; certi accessori, come il cortile della canonica,
già compiuto, sono di un effetto veramente gradevole. Marcello
Piacentini, la cui attività, è instancabile, va portando
oggi l’impronta della sua arte in quasi tutte le città
d’Italia; a Genova ha presentato il piano regolatore della spianata
del Bisagno, dove va sorgendo il suo arco ai Caduti, risolvendo anche
qui difficili problemi planimetrici e prospettici, e adattandosi al
gusto e alle tradizioni architettoniche della Superba. E intanto in
Roma conduce la costruzione dell’Ippodromo di Villa Glori, la
decorazione dell’Augusteo, l’adattamento di una sala delle
Terme di Diocleziano a spettacoli pubblici, la Casa Madre dei Mutilati,
tra il palazzo di Giustizia e il Castel S. Angelo, bene intonata alla
località; con l’esterno in travertino, peperino e cortina
di tufelli, o ispirato quasi a motivi d’architettura militare,
e l’interno arricchito da un gran salone a croce greca absidata
colle pareti a blocchi di tufo, grandi lunette in musaico, e un voltone
in cemento armato a fasce piatte, come usarono il Borromini e il Padre
Guarini.
Non è possibile in questo studio rilevare singolarmente le particolarità
di tutti questi lavori: le illustrazioni ne mostrano abbastanza chiaramente
i pregi, che neppure una minuta descrizione riuscirebbe a far apprezzare.
Perchè nell’opera di Marcello Piacentini non c’è
soltanto da notare l’originalità dell’insieme, la
bellezza della linea, ma ogni particolare anche minimo ha un’impronta
personale, dimostra lo studio amoroso dell’artista, il quale
non essendo soltanto un teorico compositore, ma un conoscitore profondo
dei materiali costruttivi e della tecnica, sa il valore che può
assumere anche in un grande edificio, un semplice listello o una piccola
modanatura. Anche in questo Marcello Piacentini si riattacca ai grandi
maestri del nostro glorioso passato, anche in questo egli mostra la
fede, l’amore intenso ch’egli pone nella sua arte, e che
lo rendono degno delle più luminose vittorie.
ANTONIO MUÑOZ