FASCICOLO XI - LUGLIO 1923
PAOLO MEZZANOTTE: La Prima Mostra Internazionale delle Arti decorative a Monza (II articolo)
Attiguo al salone di primo piano una sala di medie dimensioni è riservata all’arte sacra. In altri tempi, quando l’arte entrava accolta a grande onore nelle chiese e nei chiostri e vi cresceva per uscirne adulta a rallegrare il mondo, si sarebbe dovuto riser-vare ben altro spazio a simili manifestazio-ni, se esposizioni si fossero fatte, Oggi una sala è anche di troppo e chi ha fatto parte della commissione ordinatrice, sa quanta fatica si è dovuta durare per poter comporre una sala decorosa, anche così ridotta, I buoni nomi qui rappresentati e le buone cose esposte non devono ingannare: chi ben guardi, si rende presto conto che gli oggetti in mostra sono di due categorie:
quelli veramente destinati all’esercizio del culto e quelli che di religioso hanno il sog-getto, ma non la destinazione. Non c’è da farsi troppe illusioni: il lampadario dell’Arpesani o la vetrata del Grondona sono di commissione: ma il porta-cero pasquale deI Mazzucotelli, o i torcieri del Saporiti, il musaico del Chini o quello del Gian-notti, la vetrata del Buf fa o i vetri deI Salviati difficilmente troveranno albergo in un edificio sacro. Sacerdoti o donatori preferiscono di massima l’arte, non sempre a buon mercato, degli industriali di me-stiere, produttori dell’oggetto in serie, ripeti zione stanca di vecchi sfruttati clichés. Con-viene quindi per il minor dei mali por mente a questo genere inferiore di produ-zione decorativa; che potrebbe pure, in materia di arredi sacri, far di meglio o di meno peggio. I lampadarii di chiesa del primo ottocento o i candelieri d’altare del settecento, di sottile lamiera argentata e la-vorata a stampo, erano pure fatti a serie, ma avevano linea elegante e forme gustose, sicché sono ricercati presso gli antiquarii e vanno a ornare studi d’artista e salotti signorili: ciò che non avverra dei costosi massicci e spesso informi candelabri di bronzo fuso, oggi preferiti dal clero.
Gli artisti che hanno curato l’ordinamento della sala, hanno dovuto, per assicurare un risultato decoroso, suggerire disegni o rab-berciare modelli a parecchie ditte che pur conveniva chiamare a concorso. Ma non si capisce come case potenti, con largliis-sime sicure clientele in paese e fuori, non comprendano la convenienza, anzi la neces-sità di mutare schemi e indirizzo. Non si comprende come industriali avveduti, quali
il Bertarelli, per tanti lati benemerito della coltura nazionale, non si risolvano ad ag-giungere al proprio numeroso personale qualche artista di valore e sopratutto di buon senso, atto a guidare e correggere una produzione oggi così miseramente decaduta. Sarebbe con un minimo aggravio di spesa una magnifica propaganda di buon gusto, In Italia e all’estero: e il migliore degli affari, perchè l’avvenire in fine non può essere che di chi farà meglio. E c’è chi fa meglio e guadagna terreno in materia di arredi re-ligiosi; e lo vedremo nelle sezioni estere.
Si risponde: produciamo quanto il pub-blico preferisce; e il pubblico non ha gusto. Ma non puo averne finchè non gli offrite che cose mediocri o peggio. È un circolo vizioso, da cui bisogna pure uscire; ma occorre sopratutto volerlo.
Sappiamo del resto di predicare al vento: per gretto spirito di economia e malinteso senso di praticità il personale direttivo da noi è abitualmente reclutato di categoria inferiore: vediamo case e palazzi disegnati da capi mastri, chiese architettate da inge-gneri di campagna o dilettanti guastame-stieri, industrie dirette da capitecnici o da empirici e la produzione artistica guidata da disegnatori mestieranti. Speriamo molto in questo campo dalla Società dell’arte cri-stiana, geniale istituzione immaginata da rnons. Celso Costantini, la quale intende, colla formazione di una casa dell’arte cri-stlana, selezionare ed appoggiare la migliore produzione d’arte religiosa fra un pubblico tutto speciale, guasto da decenni di oblio e di mal gusto.

La scenografia è gloria nostra, direi esclu-sivamente nostra: inutile fare dell’erudizione a buon mercato e lasciamo in pace i Bibblena, il Bernini e Leonardo. Ma è stata buona cosa dedicare, alla scenografia una sezione, se anche in questo primo tentativo frettoloso è riuscita povera e monca: gli ordinatori ci promettono ben altro per la prossima biennale e vedremo.
Forse fra due anni, sarà passata certa voga, venuta dalla Germania, o dalla Russia o dalla Svezia, che vanta come l’ultima pa-rola deI modernismo la bizzarria funerea dei fondali cupi o la stravaganza dei colori stonati: o pretende sostituire alle scene stu-diosamente architettate e dipinte quattro tendoni di velluto e qualche riflettore colo-rato: arte questa da tappezziere, novità con tanto di barba, applicate da anni e senza pretese nei caffè-concerto o nelle baracche da fiera degli “illusionisti “.
Si sono anche celebrate quest’anno alla Scala certe scene italo-russe, che non ave-vano di nuovo che il sovrano disprezzo delle comuni norme della prospettiva. La prospettiva è una realtà, retta da leggi certe, che da Brunellesco e Mantegna a noi non soffrono mutamenti od eccezioni. Innovare e migliorare bisogna, anche e sopratutto nella scenografia, ma non abbandonare e distruggere ciò che fu ed è il fondamento dei nostri più legittimi successi: perchè, dopo la moda chimera dei fondali strava-ganti, dall’estero i grandi teatri sono ritor-nati ai nostri bravi scenografi e se ne con-tendono le scene.

La scarsità dello spazio non ci consente un metodico esame di tutto quanto accol-gono le molte sale: ed una elencazione som-maria di opere e di espositori riuscirebbe superflua e fastidiosa: meglio vale attenerci a qualche osservazione d’indole generale, suggerita dalla visione complessa della mo-stra, che nonostante le parziali deficienze e nell’insieme ricca e piacevole e riserva qualche gradita sorpresa.
La disposizione è per l’arte italiana pre-valentemente regionale. Largamente e ric-camente rappresentate le tre Venezie. Ecco Venezia, colla sala che il Torres derivò dal Carpaccesco “Sogno di Sant’Orsola”, caro al Ruskin. Nella traduzione la ca-meretta della Vergine ha guadagnato in eleganza e ricchezza, ma s’è fatta un po’ cupa: ma di eccessiva severità sembrano peccare un poco quasi tutte le sale della Triveneta, anche quelle del Berti e dello Zecchin, ricche dl particolari preziosi, Più senna è la saletta dove il Cadorin ha riu-nito mobili e arredi, di libera inspirazione settecentesca, in parte nuovi, in parte già visti in una sua mostra personale: e la modesta, ma pratica e gustosa cucina di Trento, Bolzano ha pure una sua sala, dove fra gli altri Egger Lienz offre saggi di decorazioni murali in ceramica.
Il Comitato Piemontese ha inteso pre-sentare un completo alloggio, che ha im-maginato appartenere ad un amatore d’arte:
ma le belle opere d’arte raccolte fra gli artisti piemontesi di maggior grido si tro-vano a disagio fra mezzo ai mobili, di gusto mediocre, di legno tinto a colori spesso sgradevoli.
La sezione Toscana riconosce da sè le proprie manchevolezze, giacchè in luogo di compendiare gli sforzi di tutta la re-gione, risulta daI volonteroso concorso di pochi industriali ed artisti. È però assai dignitosa e notevoli sopratutto le saporose sculture decorative dell’Andreotti e del Maraini e i mobili della bella sala disegnata dal Giovannozzi, calda di colore e di gu-stosa modernità.
La Calabria dà prova della migliore vo lontà di fare: le tappezzerie e i ricami di gusto antico sono quanto di meglio si os-serva nelle sale, che si vorrebbero com-poste con miglior gusto e scelta più severa.
Nella sezione Romana le nobili compo-sizioni di classico sapore del Limongelli e le leggiadre terrecotte policromate del Prini poco si legano ai mobili d’incerto carat-tue e delle forme inutilmente pesanti del Cambellotti, del quale preferiamo le vetrate o i giocattoli della deliziosa “Sala dei bam-bini” ordinata dal pittore Ortona.
Nella sezione Abruzzese belle stoffe ru-stiche e bei tappeti di Pescocostanzo e maioliche dei Cascella.
La Lombardia, a parte Bergamo, che ha tre salette di non grande significato, non ha un~ sezione vera e propria che ufficial-mente la rappresenti, ma allinea una serie di mostre di artisti e ditte isolate: mostre in generale non pretensiose, ma intonate e composte con senso pratico.
I mobili (Giannotti e Zaccari, Paleari e Monti) rispondono alle buone tradizioni della antica industria regionale. La “Fa-miglia artistica~~ o meglio un gruppo dei suoi soci presenta una saletta, deliziosa, che dovrebbe figurare una “cucina rustica” per un artista di pochi quattrini: nella quale tuttavia, me lo consentano gli egregi amici del geniale consorzio, mancano gli attributi della rusticità e tutta l’attrezzatura di una cucina.
La Liguria per la lamentata astensione dei suoi mobilieri, non ha mostra di grande im-portanza: ben rappresentata la secolare nobi-lissima industria della maiolica che meri-terebbe di essere rianimata da un soflio di più fresca modernità.

Nonostante dunque le mende e le lacune, la visione anche rapida della sale italiane offre molte ragioni di conforto, Non se n’ha più quella impressione d’improvvisazione frettolosa colla quale si usciva dalla mostra torinese del 1902, quando artisti e indu-striali vennero invitati a rinnovarsi d’un tratto ed a spogliarsi di tutta la zavorra del passato tradizionale, pena l’esclusione.
La mostra di Monza dà un quadro con-vincente, se non completo, del parecchio cammino percorso e dà chiare indicazioni di quanto si potrà ottenere dalle nostre abi-lissime maestranze.
I mobili formano certamente il ramo più importante e più significativo dell’arte deco-rativa: l’arredamento della casa rispecchia il gusto medio di un popolo e, come si èripetuto, dà la misura del grado di pene-frazione dell’arte nella vita domestica. Così avviene che i nostri mobili riflettano lo stato d’incertezza dello spirito italiano nei riguardi dell’indirizzo artistico. Le tendenze più sva-riate sono rappresentate a Monza; le in-dustrie di Lombardia, ad esempio, oscillano fra la continuazione delle forme che val-sero memorabili successi al Quarti (Monti) la imitazione di stili storici, ravvivata da spirito di modernità (Brunelli, Paleari) e lo studio di schemi arieggianti il medioevo e l’oriente (Zaccari e Giannotti) non senza qualche richiamo agli ungheresi. Si distinguono, in genere, per solidità di costru- zione e senso di praticità. Lo stesso può ripetersi a un dipresso dei mobili del Ve-neto, di cui si è detto e di quelli già lodati di Toscana.
L’arte deI ferro battuto s’è diffusa ed ha in ogni provincia cultori di merito, A Roma il Gerardi, il Bellotto a Venezia e moltis-simi in Lombardia, dove il Mazzucotelli ha fatto scuola, Non amiamo le lodi ste-reotipe e il Mazzucotelli da anni non manca di encomiatori: ma se non tutti! i pezzi da lui presentati sono, per disegno, di valore uguale (superflue ci paiono, per esempio, le vere da pozzo ricordanti le inferriate per davanzale da lui esposte nel 906 a Mi-lano) si deve pur convenire che nessuno lo uguaglia nella conoscenza intima, pro-fonda della tecnica del ferro, ch’egli piega e foggia a suo piacere ad espressione d’arte, senza mai alterare o forzare il carattere ch’è proprio della materia. Si confronti la stia figurina, robustamente stilizzata, circo-scritta nel breve spazio & una insegna che è nella sala dell’arte sacra, con quelle model-late daI Bellotto (al quale non si vogliono negare i meriti, principalmente di compo-sizione) nella grande cancellata a primo piano e si vedrà quale distanza separa l’arte dall’artificio. Nella sua scuola all’Umani-tana il maestro ha formato una serie d’al-lievi, che vanno acquistando una propria personalità: il Bernotti, che preferisce alla lavorazione costosa del masseflo di ferro quella più agevole della “piattina” Iami-nata (deliziosi i pezzi pér lui disegnati daI Greppi) il Rizzarda che ha una sua mostra varia e ricca e da ultimo il Saporiti.
Nella vetrata, per virtù di pochi l’italia s era già affermata vittoriosamente da ven-t’anni, La ditta Beltrami, che prima si libe-rava dalla tradizione dei vetri del Bertini, è validamente continuata dal Buffa, mentre ne e uscito il Grondona e qualche altro, Il Buffa ha una interessante vetrata a sem- plici legature, il Grondona una grande com-posizione vigorosamente disegnata e chia-roscttrata a bistro. Per il Bassi, il Codenotti ha dato un buon cartone. Una rivelazione e data dalla “bottega di Pietro Chiesa” che affronta con genialità le tecniche più diverse, su cartoni forniti da vari artisti, Roma ha le vetrate del Picchiarini su di-segni di Duilio Cambellotti e di Vittorio Grassi, abilmente composte a semplici le-gature, secondo il modo più in voga.
Nell’oreficeria c’è un notevole risveglio: valgano per tutti i gioielli di gusto elettis-simo del Ravasco e le argenterie deI Brozzi.
Nei vetri soffiati le maestranze Mura-nesi si limitavano, fino a qualche anno fa, di ripetere stancamente, senza alcuno sforzo di ricerca, gli antichi leggiadri modelli: ed avevano alle calcagna i rivali di Boemia, mentre il Tiffany in America, e in Francia il Gallé, e le vetrerie di Nancy creavano piccoli fragili capolavori di fantasia e di colore. Oggi finalmente quest’arte negletta ridottasi alla pratica industriale, ha attratto l’attenzione degli artisti. E fu primo lo sve-dese Lerche, ceramista e scultore origina-lissimo, dl cui rimpiangiamo la perdita re-cente, a rivelare tutte le possibilità de! vetro soffiato: ne abbiamo, a Monza, una raccolta di pezzi soffiati dei fratelli Toso. Poi Io Zec-chin, poi il Balsamo Stella, poi il Cadorin: e suI loro esempio il Cappellin e Venini; il Barovier, V. Toso e i fratelli Toso hanno genialmente rinnovata la loro produzione. Nelle nuove creazioni converrà che i mae-stri muranesi non rincorrano forme più adatte ad altra materia, quale il cristallo di Boemia. Vorremmo anche che degli og-getti di uso destinati non solo alla gioia degli occhi, ma anche all’uso pratico, non si dimenticasse il pratico ufficio: cosi nei bicchieri esposti alla mostra della mensa si dovrebbe pure poter bere…
Notiamo, per la loro singolarità, i ten-tativi di accoppiamento deI ferro coI vetro del Barovier: Il Balsamo Stella, veneziano residente a Firenze, si prova con fortuna nei vetri incisi a ruota,
Terraglie e majoliche, d’ogni foggia e d’ogni valore: tutte le provincie d’Italia sono in gara. Predomina però l’ossessionante imitazione dei vecchi modelli. Occorre, oltre alla perfezione degli impianti e all’abilità dei ceramisti, una direzione artistica mi-gliore. SI segua l’esempio della ditta Ri-chard—Ginori, di tutte forse la più potente. Già ridotti a ripetere senza originalità modelli sfruttati, nel desiderio di raggiungere una diversa nobiltà estetica, assumeva una doz-zina d’anni fa quale consulente artistico il giovane architetto Baroncini, di cui mi è ca-ro rievocare la memoria: caduto questi da prode nei primi mesi di guerra, assumeva in suo luogo di recente rarehitetto Ponti, dise-grìatore e coloritore pieno di brio; e cretaglie e terraglie, majoliche e porcellane, furono, come ognuno vede, genialmente rinnovate: oggi questa produzione è quanto di meglio in materia possiamo contrapporre all’estero.
Le stoffe di seta o di cotone, talune bel-lissime, esposte da ditte svariate, sono per lo più ligie agli antichi disegni. Il Cadorin è tra i pochi che, nei suoi velluti contro-tagliati eseguiti dal Rubelli, si attenga al programma della mostra. Notevoli, anche dal lato della tecnica originale, i vivacissimi tessuti della signora Ottolenghi Wedekind: che però, se le informazioni sono esatte, sono fabbricati in Germania.
Molti, moltissimi merletti e ricami; nei quali è però raro qualche abito di novità. “L’Aemilia Ars” si è un poco addormen-tata sui successi di un ventennio fa: nuoce sopratutto, alle sue trmne delicate, la di-sposizione in una vecchia vetrina di dete-stabile gusto floreale. I noti gustosi arazzi dello Zecchin hanno fatto scuola e abbon-dano le stoffe ricamate a colori sgargianti e disegni carlcaturali.
Ma in altri campi c’è molta strada da fare: si osservino gli alabastri di Volterra. Fa pena vedere tanta abilità manuale, e sopratutto una materia cosi nobile e cosi facilmente suscettibile di applicazioni d’arte. cosi miseramente sciupata. E oggetti e sta-tuine d’alabastro vanno per i due emisferi a rappresentare l’arte Italiana.
P. MEZZANOTTE.

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