FASCICOLO X - GIUGNO 1923
PAOLO MEZZANOTTE: La Prima Mostra Internazionale delle Arti decorative a Monza (I)
Questa prima internazionale di Monza vuole, coll’immediato confronto di quanto di meglio l’estero sa produrre, dare la misura di ciò che si è saputo fare in materia di arte decorativa dal 1902 ad oggi. Benchè sia larga e scelta la partecipazione degli stranieri, certo è che l’attenzione e rivolta piuttosto alle sorti dell’arte nazionale nella quale con ansia da tanti occhi si scruta l’apparire di una scuola vitale, il nascere di forme che, collegate alla tradizione o sorte per miracolosa generazione spontanea in questo suolo fecondo, possano senza esitazione definirsi schiettamente e modernamente italiane. Il programma della Monzese, escludente ogni forma di volgarità e di ritorno alle formule del passato, è fondamentalmente simile a quello dettato dal Thovez per la Torinese del 1902: l’influsso della quale però sul rinnovamento dell’arte contemporanea non fu pari alle speranze, come era naturale dato il suo carattere di improvvisazione, di sforzo nobilissimo, ma artificioso non preceduto da congrua preparazione.
Si usciva da un secolo disastroso per le arti italiane, e specialmente per le minori. Nelle figurative, se il primato era perduto, sorgeva di quando in quando dal grigiore accademico qualche nome a testimoniare la perenne vitalità artistica della razza: ma per le arti decorative il disagio era ben più grave e profondo: ogni facoltà creativa sembrava spenta, sopraffatta dalla facilità dell’imitazione dei vecchi stili, non sempre capiti e rettamente interpretati: imitazione tenuta viva dalla consuetudine dei “restauri in istile” di cui s’è fatto e si fa ancora troppo abuso. Chi poi voleva camminare da sè, cadeva in quelle forme bastarde e grottesche, che, prontamente adottate e riprodotte in serie dalla industria, diede in un paese dove per secoli i più modesti oggetti casalinghi avevano assunto linee di grazia squisita, quel pietoso insignificante interno borghese, nel quale lo snobismo e la mania antiquaria delle generazioni venture dovrà molto faticare a trovare qualche motivo di compiacimento. Lunga dolorosa parentesi in una gloriosa tradizione millenaria che ha lasciato il pubblico, che era dianzi il miglior giudice e il più assiduo collaboratore dell’artigiano inconscio come dell’artista creatore, in uno stato penoso di smarrimento, di disorientamento, nell’incapacità di rendersi conto dei tentativi isolati di qualche scarso precursore di più sani indirizzi.
Rimaneva, superstite dal naufragio, accanto ad una ferma volontà di rinnovamento nei migliori, una indubbia perizia tecnica, una ammirevole attitudine, non dimenticata dal nostro artigianato, di incidere, scolpire, formare, colorire in mille guise tutto ciò che può essere materia d’arte; attitudine non sminuita, anzi scaltrita dalle imitazioni e dalle falsificazioni dell’antico. Isolatamente, qualche artista di buon volere già si adoperava per trarne buon profitto, e così, a mo’ d’esempio, nelle vetrate a colori, per merito di pochi, si avevano accenni di fresca modernità, mentre altri tentava con fortuna di piegare la dura materia del ferro battuto a nuove espressioni d’arte. E ancora la grande decorazione murale conservava da noi cultori appassionati e valenti.
Ma fra noi non era traccia di quelle grandi correnti novatrici, per le quali le maggiori nazioni estere, l’Inghilterra alla testa con William Morris e la sua scuola poi la Germania coll’Ollbrich e la colonia di Darmstadt, e via via la Scozia, l’Ungheria, la Francia, la Scandinavia il Belgio, riuscivano ad affermare nelle arti decorative un carattere nazionale e moderno.
L’esposizione del 1902 fu una grandiosa rassegna di queste nuove forze: l’Italia impreparata non uscì tanto male, come si poteva credere, dal confronto colle nazioni più mature. Erano creazioni di personale genialità gli edifici provvisori disegnati dal D’Aronco, che aveva veramente trovata la formula di un’architettura agile e varia vivificata dalla policromia, atta a rivestire con fresca eleganza le ossature di legno e di gesso di una Esposizione desti nata a vivere una sola stagione. E nell’interno delle gallerie, fra le molte cose mediocri, non mancavano buone affermazioni.
Seguì, a breve distanza l’esposizione Milanese del 1906: nella quale fra le gallerie delle macchine e le birrerie, fra i padiglioni per concerto e le montagne russe, trovarono posto ampie gallerie per le arti minori: mostre caotiche e poco selezionate, dalle quali emergeva la fastosa nobilissima sezione Ungherese, mentre la Francia, in un padiglione grandioso, smerciava al facile pubblico il rifiuto della sua merce da esportazione. Nella sezione italiana c’era di tutto, e anche alcune cose buone, oppresse dalla pletora del mediocre e del grottesco.
Con ben diversa misura e scelta prudente frattanto le biennali di Venezia accoglievano e divulgavano, come lo spazio consentiva, alcune fra le migliori manifestazioni nel campo delle decorazioni italiane e straniere.
Ma il risultato generale di queste coraggiose iniziative, quello palese nelle vie o nelle piazze come nelle vetrine delle botteghe e nelle case, fu, apparentemente almeno, poco men che disastroso.
I nobili sforzi dei pionieri del rinnovamento eccitarono l’emula fantasia dei mestieranti faciloni: ed ecco prendere l’aire e dilagare le forme strane e bislacche ripetenti alla nausea il motivo di fiori stilizzati sui modelli mal capiti degli esemplari inglesi o giapponesi, accompagnati da rami o foglie indistintamente incurvantisi a colpo di frusta: e le stesse profilature straccamente, oziosamente serpeggianti svolgersi nelle cimase degli edifici o sostituirvi le modanature tradizionali che trovavano pure una ragione d’essere nella storia delle strutture e nella logica dell’architettura. In quel tempo un venerando insegnante ebbe lodi senza fine per aver proclamato la decadenza dei cinque ordini d’architettura: un altro già esegeta e celebratore dell’arte antica mutò casacca e nella propria scuola si diede a insegnare le forme flosce e balorde, care ai mobilieri mestieranti: che è press’a poco come insegnar niente o peggio. Taluno, che conservava ancora qualche amore al nostro passato glorioso, volle trovare le origini di quel che si pretese chiamare stile (?) floreale: e a Leonardo, per aver immaginato la decorazione della Sala delle Asse, ahimè, ridipinta arbitrariamente or son quasi vent’anni, fu accollata la responsabilità di tante insipide decorazioni arboree, ramificantisi indifferentemente sul soffitto di una sala o sulle pareti esterne d’un edificio o sul coperchio di un portasigarette d’argento. In architettura, la facilità del cemento modellato consentendo ogni capriccio, il nuovo indirizzo, che negando le vecchie formule esonerava dal fastidio della cultura e pareva accessibile alle intelligenze più mediocri, prese un rapido sviluppo: e come il fenomeno dell’urbanesimo accellerava lo sviluppo edilizio delle città, si ebbero degli interi quartieri (valga per tutti il sobborgo di Porta Venezia a Milano) dove la fantasia cede il passo al capriccio banale, la misura, il buon senso all’enfasi grottesca, pretensiosa e villana. L’arredamento interno raggiunse gli apici dei mal gusto: per gli amanti del semplice i mobilieri inventarono, a diffamazione degli anglo-sassoni, quel che dissero lo “stile inglese”: poche insulse decorazioni, prevalenza di linee rigide e stecchite, soppressione di modanature; per risparmiare, si diceva, la fatica dello spolverare: in realtà per economia di lavoro.
Per cambiare si cercò il nuovo nelle riviste estere, e si imitarono goffamente austriaci e germanici, ungheresi e russi, E le rifritture si gabellarono per primizie e novità.
Poi, come reazione contro tutto e contro tutti, vennero, con miglior contenuto culturale e ideale, i programmi futuristi e la confusione fu al colmo.
Nel quadro desolante sono sprazzi di luce: dove il buon seme è caduto in terreno fertile, ha germinato e in questa Mostra di Monza se ne vedranno i frutti. Industrie che sembravano fino a qualche anno fa retrive, ridotte alla sterile imitazione di sfruttati, si presentano ora con intendimenti di geniale modernità cosi la ceramica e il vetro soffiato, Nel ferro battuto, nella oreficeria, nella vetrata artistica, nella mobilia si affermano nuove personalità. Manca di tante buone cose il gusto diffuso, la propaganda. Ma non è questa la ragione principale di queste mostre periodiche?
Diciamo prima dell’arte rustica, di cui si è fatto un gran parlare negli anni scorsi. Da questa si sperava il nuovo verbo, o almeno lo spunto pel rinnovamento artistico. In quel tempo in Russia si esaltava il mugik e la sua mentalità; col risultato politico che s’è visto. All’estero nell’arte paesana si cercavano, per reazione contro l’arte d’importazione, i motivi per un arte nazionale, e su quelli si appoggiavano o dovevano appoggiarsi i novatori, d’Ungheria o di Scandinavia. Da noi apparve poi una circolare ministeriale che pretendeva inco-raggiare tali ricerche. Chi scrive ricorda di avere, tra i primi, tentato una raccolta di arte rusticana negli estremi lembi orientali dell’Italia redenta; e non sa dolersene, benchè le aure non spirino propizie a questo genere di studi
Contro l’infatuazione per l’arte rustica muoveva, qualche settimana fa, dalle colonne di un giornale diffuso, un autorevole critico d’arte, l’Ojetti. L’arte rustica, diceva in sostanza, può avere importanza in paesi privi di una grande arte nazionale: non da noi, dove essa è e fu solo un pallido riflesso delle grandi correnti artistiche che di qui si diffusero per il mondo intero. È curioso vedere sollevarsi, contro tali argomenti, l’apostolo, anzi il pontefice massimo del futurismo, il Marinetti.
Parmi che in materia convenga distinguere ciò che ha solo importanza folkloristica da quel che ha un vero contenuto e significato artistico. Il popolo è un meraviglioso serbatoio delle qualità e delle attitudini della razza che rimangono immutate attraverso le vicissitudini dei tempi.
Non fu notata l’affinità che esiste fra certe figurazioni etrusche e talune ingenue sculture nostre dell’età romania? E per parlare di cose più vicine, il Novati, ricordo, rilevava le simiglianze di segno e di espressione fra le xilografie del quattrocento e le stampe popolaresche del settecento; e, avrebbe potuto raggiungere, le contemporanee. Studiare l’arte rustica è quindi, mi sembra, rendersi conto delle forme d’arte più affini al nostro temperamento e perciò meglio suscettibili di sviluppo; è anche far tesoro delle esperienze di quei nostri meravigliosi artieri, che furono nel mondo i meglio dotati di qualità innate e affinate attraverso un tirocinio plurisecolare.
La fabbrica Richard-Ginori, giustamente elogiata dall’ Ojetti, ha pur basato in gran parte il suo geniale rinnovamento dalla intelligente osservazione di tempi popolareschi vedere ad esempio le belle cretaglie di Mondovì.
Oggi, giustamente, si ritorna a Palladio, a Mantegna o addirittura ai maestri del settecento: accanto allo studio delle forme meglio evolute e perfette del nostro passato gloriosissimo può bene trovare posto la considerazione dell’ingenuità dei primitivi. Ciò che disgusta e offende come una menzogna idiota è piuttosto 1’ingenuità simulata degli artisti provetti, ricchi d’esperienze rotti ad ogni artificio anche disonesto,
Giova quindi osservare con rispettosa attenzione queste povere, ma sincere ma-nifestazioni fiorite dalla fantasia degli umili: le raccolte di Calabria e d’Abruzzo, e quelle bergamasche: e più le belle sale nelle quali l’Arata con amore di studioso e intelletto d’artista ha raccolta e ordinata tanta dovizia di arredi sardi: tappeti e tessuti dalle vivaci coloriture, orecchini, monili, collane, merletti, dove è un riflesso d’oriente e una interpretazione, grave e solenne tutta regionale, in piena rispondenza col severo carattere degli isolani.

P. MEZZANOTTE.

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