FASCICOLO VIII APRILE 1923
Notiziario
CRONACA DEI MONUMENTI.

ROMA. Ponte Nomentano. - Il pericolo che in una precedente nota avevamo segnalato pel caratteristico ponte romano ha ormai cominciato a tradursi in atto. Una casa alta e massiccia è già oramai quasi interamente costruita presso il ponte e ne turba la visuale e lo soffoca e lo divide dalle pendici del Monte Sacro. Dei nostri disperati appelli nessuno di coloro che ne avrebbero avuto il dovere si è efficacemente curato nè il Comune di Roma nè la Sovraintendenza ai Monumenti.
Quando la costruzione della cittàgiardino dell’Aniene è stata stabilita in quei paraggi, implicitamente il suggestivo quadro del bel ponte turrito, isolato in mezzo alla campagna solitaria, era condannato senza speranza ed, in fondo, era inevitabile che fosse così. Ma nello sviluppo invadente della città moderna il problema, per chi vuoi salvare i monumenti ed il loro carattere, sta non già nella inutile opposizione alla fabbricazione nuova, ma nel determinarne nettamente i limiti, sta nel sostituire alle originarie condizioni estrinseche, un ambiente più ristretto, il quale isoli il monumento in una cornice e lo renda quasi indipendente dalla costruzione nuova che solo miracoli d’Arte potrebbero rendere congeniale.
Per Ponte Nomentano la soluzione era relativamente semplice: impedire la fabbricazione in una alquanto ampia zona valliva circostante, e piantarvi alberi, e creare così un verdeggiante parco, traversato dall’Aniene, collegato col prato che dovrebbe estendersi sui Monte Sacro; cioè sulla piccola adiacente collina ove si localizza e si restringe la ben nota tradizione romana così significativa pei nostri tempi.
Orbene se per Monte Sacro qualcosa si è fatto ed una zona breve di rispetto è stata stabilita, da salvarsi dalla fabbricazione, per le adiacenze immediate del Ponte la completa inazione ha dato già i risultati che ora si deplorano.
Ed altra non piccola preoccupazione si presenta. L’arginatura del fiume recentemente eseguita a monte ed a valle ne cambia radicalmente il regime idraulico di piena, poichè raccoglie tutta la portata dell’acqua e le impedisce di dilagare e di attardarsi nella pianura. Or sarà il piccolo arco adatto per queste nuove condizioni, il piccolo arco che per tanti secoli ha visto fluire il corso naturale del vecchio Aniene? I pericoli, i quesiti sono gravi e possono superare di molto il danno attuale. Chi ha il dovere nobile ed arduo di curare i monumenti di Roma non indugi più oltre a provvedere!

g. g.



FERRARA. - La Bella Casa Romei esempio tipico di architettura civile del sec. XV entra in una nuova fase di restauri, e noi siamo lieti di offrire in proposito qualche notizia.
Costruita nella prima metà del secolo XV. adornata di “poggioli” e di loggie intorno al 1450, la casa di Giovanni Romei, passò nel 1491 alle suore clarisse del Corpus Do mini. Da queste, dopo i lavori di decorazione delle stanze del piano nobile per opera dei Filippi intorno al 1550, passò nei 1882 al Comune di Ferrara e da questo alla Sovrintendenza dei Monumenti di Bologna. I primi restauri ai tetti furono eseguiti nel 1910, ed alla fronte del primo e del secondo cortile qualche anno di poi, riaprendo nella loro luce vera le finestre archiacute e quelle a monta ribassata, con cura degna di elogio, sotto la direzione del dottor Giuseppe Gerola.
Per iniziativa dello stesso sovrintendente il Ministero della Pubblica Istruzione autorizzò nel 1916 il restauro degli affreschi della Sala delle Sibille, a cui attese con perizia il prof. Giovanni Nave. Il terremoto di Rimini tolse a Casa Romei il suo restauratore, il quale aveva dato mano a fare assaggi per rintracciare le antiche decorazioni delle stanze superiori, le piccole porte archiacute e le finestre.
Il periodo di sovrintendenza dell’architetto Ambrogio Annoni, portò alla sostituzione di certi puntelli lignei, di vecchia data, nelle arcate del “poggiolo”, con altri sostegni opportunamente connessi.
L’attuale sovrintendente comm. Corsini che si prepara a formare il progetto di consolidamento dell’edificio, ha provveduto a chiudere con nuove impennate le finestre che ne erano sprovviste.
Il lavoro più urgente, come diceva il comnm. Corsini, è quello delle nuove fondamenta di sostegno delle loggie di settentrione, che sono posate su d’una conduttura d’acqua coperta da una vôlta.
Segue il restauro della “Sala delle Sibille” i cui freschi singolari appartenenti alla seconda metà del secolo XV, la pongono fra gli esempi interessanti di pittura decorativa di casa signorile del rinascimento.

Bibliografia: D. ZACCARINI. Passeggiata attraverso Ferrara. Serie II, 1918 e D. ZACCARINI. Casa Romei e la vita privata ferrarese nel sec. XV. Ferrara. Studio Editoriale Ferrarese MCMXXII.

FERRARA. Palazzo di Lodovico il Moro. - E’ del 1495 la prima notizia di questo palazzo che costruì Antonio Costabili oratore Estense a Milano, per incarico di Ludovico il Moro. Nel 1502 era già terminato tutto il corpo centrale del fabbricato con due loggie che guardano a settentrione sul cortile d’onore, ed a mezzogiorno sul giardino. In quell’anno erano pronti anche i marmi che servirono a costruire l’altro fianco dello stesso cortile d’onore.
Assai fu discusso sull’autore di questo palazzo che, quantunque non finito, è il più maestoso che esiste in Ferrara.
Se i documenti d’altra parte non ci dessero il nome di Biagio Rossetti architetto ducale al tempo di Ercole I d’Este, le caratteristiche costruttive sarebbero sufficienti per dimostrare come sia questo appunto il capolavoro dell’architetto ferrarese a cui si deve il tracciato dell’Addizione Erculea (1492) che diede a Ferrara il vanto di chiamarsi “prima città moderna d’Europa” (Burckardt Jacob, La civiltà del rinascimento in Italia), ed i molti palazzi e le chiese di quell’epoca.
Nel 1556 furono bruciati da un incendio il tetto ed i soffitti dell’ala che dà sulla Ghiaia, e l’uno e gli altri furono ricostruiti dal cardinale Ippolito II. Dal Costabili il palazzo passò agli Scroffa ed ai Calcagnini indi a due recenti proprietari che lo cedettero allo Stato.
I primi lavori di rifacimento del tetto sotto la direzione abile del comm. Corsini sono ormai compiuti. Ora si attende alla ricostruzione di un’arcata di sostegno del muro che poggia sulla vôlta dell’Aula Costabiliana e delle fondamenta dell’aula stessa.
Per la primavera sono preannunciati i restauri delle due loggie del cortile d’onore e del piano dell’intero cortile, e quelli delle pitture insigni di Benvenuto Garofalo giovane, dell’aula Costabiliana. Recentemente la Società Benvenuto Tisi di Garofalo ha bandito un concorso fra artisti ferraresi per la ricostruzione ideale della facciata, per preparare gli artisti allo studio dell’architettura locale.


D. ZACCARINI.




Bibliografia: G. AGNELLI. Ferrara e Pomposa; ADOLFO VENTURI. Studi dell’Arte Italiana. Vol. VII, p. III; Architetto ADAMO BOÀRI. Il ‘Bramante, ‘Biagio Rossetti e i1 Palazzo di Ludovico il Moro in “Gazzetta Ferrarese” 1° giugno 1914; G. G. REGGIANI idem in “Gazzetta Ferrarese” ~ II giugno 1914; EUGENIO RIGHINI idem in “Gazzetta Ferrarese” II marzo 1914; F. TIBERTELLI DE PISIS in “Rivista” 21 settembre 1916; EUGENIO RIGHINI. Quello che resta di Ferrara antica, Vol. III; UGO VASÉ in “Domenica dell’Operaio” 9 ottobre 1921.





NOTIZIE VARIE



NUOVE TENDENZE NELL’ EDILIZIA MILANESE.


IL PALAZZO KÖRNER.

Un progetto dell’architetto Giulio Arata per la costruzione di un vasto edificio per abitazione di altezza notevolmente superiore alle consuetudinarie ha acceso in Milano un interessante dibattito circa la opportunità di ammettere nelle nostre città storiche e monumentali l’erezione di edifici altissimi secondo l’uso americano.
La questione non è nuova: e già venne sollevata e risolta in senso negativo, quando il defunto ingegner Achille Manfredissi nel 1911 presentò un progetto di fabbricato a quattordici piani, ricordante le linee ascendenti dei grattacieli americani.
Questa volta al dibattito presero parte viva i giornali cittadini e le Società tecniche e colturali quando l’intervento inatteso del Presidente del Consiglio, che inviando un caloroso telegramma di adesione chiese senz’altro la prelazione dell’ultimo piano dell’edificio costruendo, giovò colla grande autorità del nome, a risolvere molti dubbiosi io favore dell’ardita iniziativa: la quale ottenne alla fine l’invocato assenso anche dall’autorità comunale.
Assenso ottenuto e quasi strappato non senza contrasti, anche vivaci così la milanese Società degli architetti, pur non dichiarandosi in massima contraria ai “cosidetti grattacieli” per ragioni estetiche, giudicò inammissibile la costruzione Arata dove era stata progettata, in margine al Parco, a cui potrebbe togliere o limitare “la speciale caratteristica sua di igiene e di estetica, che è quella delle lunghe visuali e dell’ampio orizzonte”.
Anche il vecchio Collegio degli ingegneri ed architetti si occupò dell’argomento in due laboriose sedute di assemblea e prescindendo dal merito intrinseco del progetto e considerando l’argomento da un punto di vista più elevato all’infuori dal fatto contingente, estese la discussione ai più generali e vitali problemi dell’edilizia cittadina. In particolare dichiarò ammissibile per gli edifici sorgenti alla periferia della città la concessione di altezze superiori a quelle consentite dagli attuali regolamenti, ed anche, in via di eccezioni, accettabili con alcune riserve esperimenti simili a quelli del progetto Arata, mentre nei quartieri interni ritenne conveniente mantenere con rigore le restrizioni attuali.
Nonostante la comune credenza e la sua fama di città tutta moderna Milano nel suo centro è città ricca di memorie e di monumenti ed ha nelle strette arterie dei vecchi quartieri un suo aspetto caratteristico che non conviene alterare. L’esecuzione dei diversi piani regolatori, voluti dalle passate amministrazioni e destinati a dare aspetto di modernità al centro cittadino portò sempre, insieme con innegabili benefici, a qualche doloroso sacrificio così i piani dell’amministrazione Berretta portarono alla deplorata scomposizione della Piazza dei Mercanti, e colla demolizione di antichi edifici nella piazza del Duomo, alterò le visuali per cui era stata creata la fronte della cattedrale.
Anche la formazione di via Dante richiese l’abbattimento di qualche palazzo patrizio e la nuova male ideata trasversale, oggi ancora in piano regolatore, che dovrebbe da Piazza della Scala sboccare sul Corso Vittorio Emanuele di fronte a San Babila, portò già, in una prima fase di esecuzione, alla distruzione di un gioiello d’arte, San Giovanni alle case rotte (di cui venne promessa allora e mantenuta mai, la ricostruzione cogli avanzi, chissà se e come conservali) e, se proseguita, porterebbe a ben altre rovine: la demolizione del complesso storico e monumentale di via Omenoni e di piazza Belgioioso. Sicchè vien fatto di pensare, se non fosse stato meglio adottare, quando ancora si poteva, il progetto patrocinato da Napoleone e steso nei primi dell’ottocento dall’ing. Antolini, che, abbandonando gli antichi quartieri, spostava il centro cittadino verso il Castello E formava, del grandioso costruendo Foro Bonaparte il nucleo della città nuova: e ciò non solo per considerazioni storicoartistiche, ma sopratutto per ragioni d’indole tecnica ed economica e nell’interesse di un più razionale sviluppo della città. La quale oggi soffre, per essersi voluto conservare ad ogni costo la originaria disposizione radiale, che sembra tradurne l’origine celtica e appare più adatta per piccole città di provincia, che per una metropoli quale vuol divenire Milano, a ciò chiamata dalla potenza delle sue industrie quanto dalla sua privilegiata posizione geografica.
Oggi nei quartieri centrali le vie principali, sufficienti una volta ad un traffico ancora limitato, appaiono congestionate e ingombre e dalle amministrazioni comunali si escogitano provvedimenti per ripartire nelle zone più esterne e meglio favorite quell’eccesso di attività che rifluisce verso il centro. Scuole e mercati emigrano alla periferia grandioso degli edifici destinati agli studi superiori sono eretti o si stanno erigendo a grande distanza da piazza del Duomo. Provvedimenti parziali e un poco tardivi, che non muteranno gran fatto le condizioni delle zone interne, dove il moltiplicarsi degli studi commerciali e professionali, il sistemarsi degli istituti bancari e i mille richiami di ritrovi o divertimenti richiedono una sempre crescente densità di alloggi e rendono sempre più malagevole la circolazione nelle strade tortuose.
Ben diverso è l’aspetto dei quartieri eccentrici, sorti senza eccessive preoccupazioni d’estetica e su piani mediocremente studiati, col criterio semplicista dl formare vaste piazze e lunghe vie diritte e spaziose: criterio certo ineccepibile dal punto di vista dell’igiene e della viabilità.
Ora sembrava logico in questi quartieri, dove al costruttore e all’architetto si è lasciata piena facoltà di sbizzarrirsi nei più assordi capricci, permettere ai fabbricati una certa libertà di sviluppo verticale. Al contrario è per la zona interna che i regolamenti igienicoedilizi del 1911 consentivano, senz’altri limiti, un’altezza di fabbricati pari ai cinque quarti degli spazi prospicenti la fronte sicchè un edificio che presentasse la fronte normale all’asse di una via poteva raggiungere altezze fantastiche intercettando le visuali e limitando cosi nell’interno la già scarsa disponibilità di aria e di luce. I primi esperimenti dl applicazione posero in luce l’assurdità della concessione che venne ben presto ritirata: limitandosi l’altezza degli edifici a 24 metri in ogni parte della città: mentre nella zona esteriore era ulteriormente limitata alla sola larghezza del sedime stradale.
Per la zona periferica della città i tecnici milanesi Invocano ora minori restrizioni per l’altezza dei fabbricati, che verso viali larghissimi, quali il corso Indipendenza, o la Circonvallazione nuova, potrebbero, senza inconvenienti di natura estetica o d’igiene, raggiungere altezze di 25 a 30 metri, ed anche, dove sia giustificato da ragioni estetiche, ritengono ammissibile qualche ragionevole eccezione, così da consentire la costruzione di edifici di grande sviluppo in altezza, quale il palazzo Körner. Il quale, chiamando a concorso per l’eccezionalità della sua mole tutti gli accorgimenti della tecnica e dell’arte, potrà offrire all’ingegneria milanese un nuovo campo di esperienze e di osservazioni.
Dal punto di vista economico il risultato delle prove è però facilmente prevedibile: il colto degli alloggi sarà indubbiamente superiore a quello delle case comuni. E’ illusione di inesperti attendere da edifici altissimi all’americana la risoluzione del problema degli alloggi. Nella stessa America la costruzione dei grattacieli non è ritenuta con veniente per la formazione di abitazioni, osa piuttosto di studi commerciali, che si vogliono raggruppare in determinati quartieri, dove il costo delle aree raggiunge altezze fantastiche: oppure ha luogo a scopo di réclame, per la sede di un grande giornale o di una ditta industriale.
Si potrà quindi rassicurare chi teme veder da noi moltiplicarsi a gara fabbricati mostruosi, lontani dallo spirito di misura delle nostre architetture tradizionali, così da alterare il tipico aspetto delle nostre città per ridurle a somiglianza di quella di una qualsiasi improvvisata città americana. A Milano come altrove l’edificio a grande sviluppo verticale potrà ritenersi qualche volta conveniente in qualche limitata zona centralissima; ma quivi, urtando le ragioni economiche o demografiche contro quelle dell’igiene e dell’estetica, dovrà logicamente essere esclusa da qualsiasi ben consigliata amministrazione cittadina, che solo l’ammetterà, in via d’eccezione, nelle zone più eccentriche, quando, in opportuna ubicazione, possa colla imponenza delle masse o la varietà pittoresca dei particolari, aggiungere decoro al quartiere. Occorre lasciare, nei quartieri nuovi, una ragionevole libertà all’architettura moderna, all’infuori delle giuste limitazioni nei riguardi dell’igiene, Della sicurezza, della possibilità dei servizi: né si deve limitare di proposito lo sviluppo ascendente degli edifici solo perchè le architetture più tipicamente nostre hanno fin qui predilette le linee piane, come all’arte classica. La possibilità di soluzioni nuove, non si deve escludere a priori, ne si deve ritenere senz’altro che queste debbano irremissibilmente volgere al brutto, come e avvenuto troppo spesso negli ultimi decenni.
Frattanto il progetto dell’Arata appartiene alla breve espressione d’arte ad una si gran massa di muratura traforata ad intervalli obbligati dalle numerosissime aperture volute dalle esigenze di un fabbricato d’abitazione, è affrontato con genialità e sbrigliata fantasia, e troverà, non ne dubitiamo, nella fase esecutiva una soluzione degna del giovane autore.

P. MEZZANOTTE.


IN TEMA DI GRATTACIELI.


Nel fascicolo VI del II anno abbiamo pubblicato i tre progetti premiati al concorso internazionale bandito dalla “The Chicago Tribune” per un nuovo grattacielo da costruirsi in Chicago quale sede del grande giornale. Illustriamo oggi altri 12 progetti tra quelli classificati migliori da ultimo quello del nostro amico architetto Giuseppe Boni, che ottenne, unico italiano, una menzione. Abbiamo anche voluto ricordare ai nostri lettori alcune fantasie del Filarete (vedi Filarete, scultore e architetto del sec. XV per ANTONIO MUNOZ e G. LAZZARONI, ediz. W. Modes, Roma, 1908) vero e proprio precursore del grattacielo che creava questi edifici per la sua città ideale.
E giacchè siamo in questo argomento, oggi assai palpitante, alle parole saggie del Mezzanotte vogliamo aggiungere queste nostre poche considerazioni, col desiderio di suscitare discussioni e polemiche, e col fine di inquadrare le visioni delle nostre Città, e quindi i piani regolatori e i regolamenti edilizi, in ambiti più vasti e aperti, non soggiogate da uggiose e rigide tirannie.
Il grattacielo è nato in America per ragioni prettamente economiche. Il costo altissimo dell’area ne spiega la genesi. Il grattacielo è in America usato soltanto nelle City, cioè nel centro più intenso di vita delle Città, ed è esclusivamente adibito ad uso di ufficio di alberghi, mai di abitazioni private. L’area nei centri di NewYork e di Chi cago era, ed è, fortemente costosa (arriva perfino a milioni di lire per mq.): ciò spinse, e spinge, a sfruttarla nella maniera più intensa, moltiplicando il numero dei piani, e dividendo così il costo dell’area per un maggior numero di uffici.
Le costruzioni dei grattacieli, data la loro altezza (il Worworth, l’ultimo costruito in NewYork in questi ultimi anni è alto circa 180 metri e consta di ben 55 piani:
è tutto in marmo di Carrara) sono specialissime, e formate di grandi gabbie metalliche costituenti lo scheletro generale, che è poi rivestito di marmo, o pietra, o muratura. È evidente come tale costruzione (e in specie le fondazioni) sia costosissima, e solo giustificabile quando il prezzo dell’area è molto elevato. Vale a dire la utilità economica del grattacielo comincia quando il maggior costo dell’area (in confronto dei costi normali) supera il maggior costo di questa speciale costruzione (in confronto dei costi delle costruzioni normali).
Ciò avviene in America, ma ancora è ben lontano di avvenire da noi, dove il costo dell’area, anche nei centri più importanti, come a Milano e Roma, non è mai arrivato alla modesta cifra dl tre mila lire a metro quadrato. Manca quindi la base logica e la economica, per propugnare la costruzione dei grattacieli in Italia. Ragioni generali ed estetiche anche sconsigliano tale tendenza.
Per quelle, imitare oggi, in Italia, dopo più di 60 anni, e certamente con mezzi inferiori, ciò che si è creato e fatto in America, non è bello nè opportuno.
Per le ragioni estetiche, queste nuove costruzioni, (che, come abbiamo detto, non potrebbero sorgere che nei centri) a carattere prepotentemente verticale - e quindi nordico -non potranno non alterare la fisionomia antica delle nostre Città, sia nella chiusezza degli ambienti sereni e armonici, sia nelle vedute panoramiche.
Vedere accanto ai nostri palazzi cinquecenteschi e seicenteschi, larghi e riposati nelle loro dolci linee orizzontali, quei colossali casellari, non potrà davvero far bene come non potrà che ferirsi la vista lontana di un grattacielo disegnarsi sul cielo accanto al Tiburio del Duomo di Milano o accanto alla Cupola di Michelangelo.
Niente grattacieli, dunque, in Italia nè le ragioni economiche li suggeriscono, nè quelle estetiche li permettono.
Ma questa discussione ha però questo di buono: che spezza il pregiudizio burocratico degli attuali regolamenti edilizi, che obbligano in maniera fissa ed eguale per tutte le strade di tutte le Città, le altezze degli edifici, così da creare, come pur troppo è avvenuto, la più desolante e stupida monotonia.
La bellezza di certe antiche strade, di Roma e dl Firenze per esempio, è tutta, quasi esclusivamente, dovuta alle varie altezze dei fabbricati, a quel succedersi pittoresco di tetti alti e bassi.
Un più sano criterio potrebbe limitatamente ammettere maggiori altezze nel centri senza alterarne le condizioni igieniche, e sopratutto ammettere, anche eventualmente caso per caso, la massima varietà.
La Casa Köerner che si è progettata a Milano non è un grattacielo. E’ una casa più alta delle altre, rientra quindi esattamente nell’ambito di queste considerazioni generali. Solo le condizioni igieniche ed estetiche locali possono deciderne l’opportunità o meno.

MARCELLO PIACENTINI



PER LE SCUOLE Dl ARCHITETTURA

E IL TITOLO DI ARCHITETTO.

L’Associazione Artistica dei Cultori d’Architettura in una recente assemblea ha approvato alla unanimità il seguente voto:

“L’Associazione esprime il voto affinchè l’approvazione da parte del Parlamento della legge nell’esercizio professionale dell’Ingegneria e dell’Architettura sia accompagnata e sia resa efficiente da una regolare sistemazione dell’insegnamento superiore architettonico
“e che, cioè, la Scuola Superiore già esistente in Roma abbia, nella definitiva approvazione del DecretoLegge che la istituì, assicurati i mezzi per un funzionamento non stentato, per uno sviluppo progressivo rispondente all’importanza del suo compito: che, oltre ad essa, altre scuole si istituiscano, con analogo criterio, ed analogo carattere universitario in altre città d’Italia, a cominciare da centri artistici importanti come Firenze e Venezia che un regolare coordinamento venga studiato fra tutto l’insegnamento artistico e tali scuole superiori; e che infine ai consigli delle scuole suddette sia, pur con le massime garanzie di serietà, e sotto il controllo del consiglio superiore della P. Istruzione e di quello delle Belle Arti, data facoltà dl assegnare lauree dl Architetto civile per equipollenza di titoli in quei casi di eccezione in cui la genialità di un artista abbia saputo trionfare dei mille ostacoli che nel passato erano posti dalla mancanza dl un regolare ordinamento degli studi”.



PER GLI UFFICI DELLE ANTICHITÀ

E DELLE BELLE ARTI.


Altra volta ci siamo qui occupati delle direttive di una riforma degli Uffici adibiti alla tutela delle Antichità e delle Belle Arti, che ora si sta preparando e che noi abbiamo giudicato dannosissima in particolare agli interessi della difesa dei monumenti. Siamo lieti ora di riportare il voto espresso con diretta competenza soli’ argomento dai funzionari appartenenti al ramo tecnico e scientifico inscritti al Sindacato impiegati Statali Antichità e Belle Arti, riuniti in Firenze in una recente adunanza:
Riaffermati i principi della loro organizzazione, i quali nobilmente mirano alla maggior fortuna ed al decoro della Patria italiana, essi
“Considerato che l’attuale suddivisione delle Soprintendenze corrisponde in massima ai bisogni della tutela del patrimonio artistico, salvo meglio determinare alcune rispettive attribuzioni;

Considerato che funzione degli uffici è non solo curare direttamente la tutela del patrimonio artistico, ma suscitare consensi ed energie locali, che coadiuvino lo Stato nel suo còmpito, sollevandolo anche finanziariamente dall’onere derivante dalla tutela stessa, come la pratica ha già dimostrato; fanno voti che
“I) sia mantenuto l’attuale triplice ordinamento (Soprintendenze Archeologiche, dei Monumenti, delle Gallerie e oggetti d’Arte) con la divisione territoriale e la dislocazione compiuta nelle leggi 1907 e 1909;
“2) che per ragioni di decentramento amministrativo e di maggiore agilità degli organi esecutivi, e per un più efficace coordinamento di programma e di opera si istituisca un Consiglio Regionale da riunirsi a periodi determinati senza che i singoli membri abbiano diritto a competenze speciali, composto dei Soprintendenti e di quei funzionari scientifici e tecnici che il Ministero crederà opportuno di aggregar loro in numero e con le modalità da stabilirsi;
“3) che gli introiti degli Istituti della regione siano destinati a formare il fondo comune per il finanziamento di tutti gli Istituti ed Uffici Archeologici della regione stessa come dispone la legge del 1907;
“4) che i proventi degli Uffici di Esportazione siano pure destinati a tal fondo, considerando che tali proventi derivano dall’esodo di oggetti generalmente appartenenti alla regione stessa, e che ne viene di conseguenza depauperata;
“5) che una parte dei proventi della tassa turistica e di quella di soggiorno applicata in tutta quanta la regione, sia pur destinata a tal fondo, considerando che proprio dalla migliore manutenzione delle bellezze naturali, dei Monumenti, delle Gallerie, dei Musei, degli Scavi Regionali dette tasse possono avere ed hanno maggiore incremento”.


A FIRENZE, per idea del critico d’arte e pubblicista Mario Tinti, il quale da vari anni si va occupando del problema di una possibile rinascita delle arti decorative in Italia, è stata cresta una corporazione delle arti decorative.
Questa corporazione, nata in seno alla Federazione dei Sindacati Nazionali, ha per segretari due giovani anch’essi non ignoti nel campo dell’arte: Raffaello Franchi e il pittore Primo Conti.
Ci piace riportare, dai manifesto lanciato agli artisti e agli artigiani d’Italia i seguenti comma riassuntivi, nei quali si compendia tutto un vasto programma:
1. la collaborazione e l’affiatamento degli artisti per la rinascita delle arti decorative italiane e la formazione di un nuovo gusto nazionale;
2. l’elevazione artistica e tecnica degli artigiani;
3. la collocazione e la esportazione della buona arte decorativa italiana;
4. la tutela dell’estetica nazionale sia negli edifici pubblici che in quelli privati offerti alla vista del pubblico;
5. la fondazione di cooperative di lavoro e di commercio per l’arte decorativa e l’architettura italiana;
6. la creazione di uno studio, accessibile alla consultazione tanto del pubblico quanto degli artigiani, e in permanente funzione di ammaestramento per la mano d’opera, di collocazione di modelli, imprese di lavoro, ecc.
Notiamo con simpatia la germinazione spontanea ditali organismi intesi a rinnovare coraggiosamente il movimento sindacale con l’innesto degl’interessi intellettuali e artistici su quelli puramente economici.
E’, questo, un segno non indifferente di quel grado di maturità pratica e spirituale a cui sembra giunta l’Italia per opera delle ultime generazioni valorizzate dal fascismo. La corporazione delle arti decorative che, per il suo spirito italianissimo potrebbe ricordare la carta della Reggenza del Carnaro di Gabriele d’Annunzio e particolarmente la decima corporazione “fatica senza fatica”, si differenzia sostanzialmente da quella per un’aspirazione a concretarsi in un ambito volutamente più limitato, con atti quotidiani modesti e pratici, in una specie di ordine naturale.
Per decorazione la Corporazione vuoi comprendere ogni intuizione estetica che trovi la realizzazione nelle arti plastiche e figurative.



BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
ARTE DEL RINASCIMENTO



G. GROMORT. L’Architecture de la Renaissance en Italie, Paris, 1922.


Di trattati di carattere sintetico sull’Architettura italiana del Rinascimento avevamo finora, non contando i minori, il Burckhardt ed il Durm; chiaro, acuto, geniale il primo, ampio, ordinato, quasi sempre preciso (per quanto è possibile allo stato di conoscenze ancora incomplete) il secondo. Vi si aggiunge ora, a qualche distanza, questa Histoire abrégée del Gromort, di cui è recentemente apparsa l’ultima edizione.
Il libro dei Gromort ha tutti i pregi ed i difetti tanto caratteristici delle congeneri opere francesi. La trattazione corre armoniosa, piana, serrata, logica, priva di dubbi faticosi e di gravi ricerche analitiche, rendendo semplice e chiaro ciò che ha invece la tormentosa complessità delta vita reale dl costruzione e di arte. E questo criterio sommario comincia ad annunziarsi nelle classificazioni; le quali, occorre dire, sono sempre il punto debole di chiunque abbia voluto studiare con metodo unitario un fenomeno cosi vario come è quello del Rinascimento architettonico italiano, in cui un solo periodo ed una sola scuola hanno un vero carattere stilistico compatto.
Ed ecco infatti la divisione nel primo Rinascimento, di scuola fiorentina, diretta o derivata, nel Rinascimento romano, dal 1500 ai 1550, e nel Rinascimento tardo, romano anch’esso, dal 1550 ai 1650. A chiunque oramai apparirà manchevole questa nuova applicazione di una vecchia suddivisione. Come infatti considerare toscano tutto il primo periodo, e non accentuare la quasi totale indipendenza della scuola lombarda che invadeva tutta l’Italia con le sue schiere di artefici dello scalpello, maestri nella finissima ornamentazione? Come aggregare alla scuola michelangiolesca romana il Palladio e lo Scamozzi, che possono dirsi diretti, se pur tardi, continuatori dell’arte bramantesca? Come non avvertire le due tendenze che si affacciano in questa architettura romana dell’ultimo periodo (per cui il Gromort conserva ancora l’epiteto di decadente) e che proseguono in tutta l’arte barocca? Come infine considerare questa chiusa repentinamente nel 1650?
Nelle attribuzioni di date e di vicende e di autori ie imprecisioni e gli errori sono forse un po’ troppo numerosi. E invero un po’ tardi nel 1922 non accorgersi delle enormi aggiunte alla piccola facciata primitiva di palazzo Pitti, ovvero dei due periodi costruttivi che hanno dato l’affetto attuale al nicchione del Belvedere attribuire a Francesco di Borgo S. Sepolcro il palazzo dl Venezia, a Baccio Pontelli il cortile del palazzo di Urbino, a Meo del Caprino S. Agostino in Roma, a Bramante la porta laterale di Como e non avere alcun dubbio che la loggia di Verona sia di fra Giocondo, il palazzo Giraud e la Cancelleria di Bramante, il palazzo Uguccioni a Firenze di Raffaello, il palazzo Sacchetti di Antonio da Sangallo, il sansovinesco portico di S. Maria in Domnica di Raffaello, il palazzo Farnese a Piacenza tutto di Vignola, ed affermare raffaellesca l’idea del palazzo del Tè in Mantova; e stabilire nettamente le date degli edifici complessi, il palazzo di Venezia nel 1455, il palazzo Farnese nel 1530, l’esterno dl S. Pietro nel 1546, la Sapienza nel 1526, e mantenere ancora per la costruzione di S. Pietro le solite inesattezze, come di ritenere la pianta conservata agli Uffizi quale piano definitivo dl Bramante, da lui proseguito nella attuazione iniziale, non rendersi preciso conto della fase raffaellesca, dire Peruzzi direttore dei lavori dopo il 1520, non avvertire la grande modificazione al disegno michelangiolesco introdotta nella cupola....
Per l’egregio autore dunque la critica moderna e lo studio sui documenti compiuto negli ultimi 40 anni son passati senza lasciar traccia. Egli ignora i contributi portati dal Rossi, dal Milanesi, dal Bertolotti, dal Luzio, dal Müntz, dal Pastor, dal Paoletti, dallo Gnoli, dal Beltrami, dal Malaguzzi Valeri, dal Budinich, dall’Hoffmann, dai due Frey, dal Geymüller e da tanti altri ricercatori accurati sui monumenti e sugli artisti italiani di quel tempo; e si è invece fermato al Vasari, al Letarouilly, forse al Clausse….
Tuttavia se queste deficienze fanno da un lato porre la Histoire abrégée del Gromort tra le tante ricompilazioni superficiali, siano esse opere di divulgazione per gli studenti e pel pubblico, ovvero rapide e brillanti “passeggiate in Italia”, occorre d’altro lato riconoscerle due grandi meriti che la rendono attraente ed utilissima.
L’uno è quello della bellezza e della chiarezza delle numerose illustrazioni architettoniche, in parte raccolte in tavole sintetiche sul tipo del trattato del Fletcher. E un materiale ampio, ben scelto e ben collocato, e rappresenta (anche se derivato da rilievi precedenti, del Laspeyres, del d’Espouy, del Reinhardt) il vero trattato pratico ed evidente, ben più del testo. Certo sarebbe stato bene che si fosse pur in questo uscito dallo schema tradizionale, e si fosse volto lo sguardo anche ai minori monumenti, come le semplici case d’abitazione e le chiesette secondarie, ed ai centri meno noti d’Arte, come Bologna, Parma, Ferrara, Ascoli, Lucca, Pienza, Carpi, ecc. Ma non bisogna domandar troppo. Anche dal punto di vista prettamente artistico, una raccolta organica sull’Architettura italiana della Rinascenza è ancora da fare.
L’altro grande merito, che rende davvero simpatica la lettura del libro, sta nella elevatezza di concetti e nella nobiltà di espressione con cui è scritto, nel felice coordinamento tra l’ambiente storico (un po’ di maniera forse ma inteso con larghezza di coltura e di idee) e le vicende artistiche, e sta altresì nella giusta comprensione dello spirito d’arte italiano sicchè molte belle pagine fanno perdonare la imprecisione e la incompletezza dei dati. Ed è doveroso constatare nell’Autore un senso di equità, nell’ammirazione di tutto quel nostro meraviglioso periodo e nel l’assegnazione del suo significato stilistico, che non è molto frequente nei suoi compatrioti, troppo spesso miseramente preoccupati di abbassare il Rinascimento italiano per non ammettere la paternità, che a lui risale direttamente, dell’Architettura francese sotto Luigi X.

G. GIOVANNONI.



ARTE MODERNA VARIA


Das Unbekannte Spanien - BaukunstLandschaft Volksleben, di KURT HIELSCHER. (Edito da Ernest Wasmuth A. G. Berlin) 1922.

È un magnifico (ed economico) volume sulle bellezze paesistiche, naturali ed architettoniche della Spagna. Dopo una breve spiegazione, si svolgono sotto i nostri occhi 304 pagine a gran formato, riproducenti fotografie che sono altrettanti splendidi quadri, tanto sono bene tagliate e vivacemente illuminate! Tutte le meraviglie scintillanti di Granada tutte le dolcezze di Sevilla sono qui ricordate con visioni nuove, tutte inedite. Anche l’architettura rustica (che ha tanti punti di contatto con la nostra) e i costumi sono insuperabilmente illustrati.
Questo libro equivale ad un bel viaggio.
Libro d’oro per una biblioteca.

Cottage designs (Premiati nel Concorso bandito dal Royal Institute of British Architects con il concorso del Governo).

Questi concorsi, banditi dopo guerra, sono stati illustrati dallo stesso Royal Institute (9 Conduit Street, Regent Street. W. London) in un bel volumetto. Si tratta semplicemente di casette economiche, composte di 4, o 5 camere ciascuna. L’opera interessa innanzi tutto perchè rappresenta quanto di meglio è stato fatto in Inghilterra in questi ultimissimi anni, e in secondo luogo perchè rende chiara la tendenza oramai definita per i nuovi quartieri di abitazioni a buon mercato, tendenza basata sulla costruzione di casette simili tra loro, ma raggruppate armonicamente. Non quindi casette allineate in schiere interminabili, come se ne sono fatte tante da noi, nè casette isolate, meschine e dispendiose insieme.
Ma quattro, cinque, sei, al massimo sette casette uguali riunite in un tutto organico. Un semplice abbaino speciale in quella di centro dà all’insieme il senso dell’unità. Alcune casette, due o tre centrali, arretrate rispetto alle due estreme, che fanno come da testata. Di tali raggruppamenti del resto ve ne sono infiniti esempi, e con piccolissime variazioni -insensibili rispetto alla spesa - questi architetti inglesi sono riusciti a creare quartieri semplicissimi e giocondi.
Quanto da imparare!
Un altro volumetto sullo stesso argomento e dello stesso interesse è pubblicato dal Daily Mail.
Il celebre giornale Londinese ha anche esso bandito un concorso tra gli architetti inglesi per disegni di case idea/i.
I risultati sono identici a quelli del concorso di cui ho parlato qui sopra.

M. P.

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