FASCICOLO VIII APRILE 1923
GIUSEPPE COZZO: La costruzione dell'Anfiteatro Flavio, con 22 illustrazioni
Uno speciale studio importantissimo attendono ancora gli antichi monumenti nostri, ed è quello che si riferisce alla genialità ed all’originalità dell’arte costruttiva romana per il corso di oltre quattro secoli, in quel periodo cioè, in cui l’Edilizia romana raggiunse lo sviluppo gigantesco che ancora oggi forma la nostra meraviglia.
L’architettura romana è infatti l’architettura delle masse imponenti, A differenza di quella greca che nella perfezione della linea e nella raffinatezza dell’ornato trovava la sua sublimazione estetica, essa cercava la sua perfezione nell’armonia e nella grandiosità delle opere che essa creava.
Ecco il contrasto, la differenziazione costitutiva delle grandi architetture antiche. Quella greca — degna degli Dei dell’Olimpo— profondamente spirituale; in quella romana la manifestazione, l’esaltazione quasi, tutta terrena, della forza e della potenza materiale.
E’ errata e fuori di luogo quindi la preoccupazione spesso seguita fin qui di ricercare nell’architettura romana solo le proporzioni e le applicazioni dell’architettura greca. L’architettura romana che più di tutto domina armonicamente lo spazio, va studiata in sè, sotto un aspetto originale e caratteristico che non ha nessun rapporto con ogni altra architettura precedente o contemporanea.
Parte importante di tale studio dovrà essere, quindi, quello dei problemi tecnici per essa affrontati e risolti.
Lo Choisy, nella sua opera fondamentale (1) ha seguito precisamente questa via; ma il troppo generalizzare, l’aver reso semplice ed unico ciò che è complesso e vario, e fatto prevalere la sintesi all’analisi, ha portato al suo lavoro molteplici inesattezze e deviazioni non lievi.
Più rispondente allo scopo è, invece, l’adozione di un metodo analitico che, studiando monumento per monumento, risalga le fasi del suo sviluppo costruttivo e ricomponga l’organizzazione tecnica che è giunta a così mirabile risultato.
E questo concetto ho voluto ora applicare ad uno dei più significativi monumenti di Roma: all’anfiteatro Flavio.
E’ noto che il concetto della costruzione anfiteatrale caratteristicamente romana deriva dal famoso esperimento di Curione che, sotto il consolato di Cesare, costruì due capaci teatri in legname, giranti su speciali sistemi di rulli. Nella rappresentazione delle commedie i due teatri si voltavano l’una contro l’altra le parti convesse, affinchè il rumore di una scena non fosse di disturbo all’altra. Terminato questo genere di rappresentazione, i due teatri erano fatti girare con tutto il pubblico, e, tolte le scene, venivano a formare un solo teatro circolare con un’arena capacissima per ogni giuoco gladiatorio o venatorio.
Se questo episodio serve a darci — esso solo — la chiara idea dello sviluppo gigantesco dei macchinari e delle armature in legname presso i romani, ci vale altresì per fissare l’origine storica di un antico tipo di edificio, quasi rendendo meccanico il procedimento che in Roma ha condotto dai teatri di Pompeo e di Marcello agli Anfiteatri, di cui massimo esempio il Colosseo.
All’Anfiteatro Flavio pose mano Vespasiano, dopo il suo trionfo giudaico, nell’ottavo anno del suo consolato (77 d. C.) e, lui morto, nell’80 il figlio Tito ne fece la solenne dedicazione. Di quest’ultimo avvenimento abbiamo due testimonianze inconfutabili che valgono anche a stabilire In modo quasi certo come la massa anfiteatrale fosse completamente finita al momento della sua dedicazione o inaugurazione.
Una lapide rinvenuta nel Colosseo stabilisce i loca adsignata in anfiteatro ai fratelli Arvali, membri della nota congregazione religiosa, che nella prima assegnazione dell’anno 80 fatta da Tito ebbero fissati dei posti nel Moenianurn .Summum, nella parte più elevata cioè dell’anfiteatro.
Una moneta antica poi che si trova nel gabinetto numismatico di Parigi, ha nella sua parte dritta la figura di Tito assisa sopra trofei e sul rovescio l’anfiteatro con la Meta Sudante a sinistra, e l’edificio appare tutto completo, munito anche di quell’ultimo ordine pieno, sovrastante ai tre ambulacri, che pure taluni ancora si ostinano a ritenere un’aggiunta più tarda. La iscrizione della moneta corrisponde precisamente all’anno 80 dell’era volgare (fig. 2).
Le due date dell’inizio e della fine dei lavori cosi determinate vengono a fissare i limiti della durata dell’opera in tre o quattro anni, ed è periodo di una straordinaria, quasi incredibile, brevità di fronte all’immensa mole elevata, sicché il problema tecnico dei metodi occorsi per raggiungere tale risultato grandioso acquista straordinaria importanza, e lascia in seconda linea ogni altro quesito riguardante la ricomposizione architettonica dell’interno dell’edificio, i rapporti di tipo cogli altri anfiteatri romani, le strutture accessorie (2).
Primo tema di studio è quello dei materiali adoperati. Principalissimo tra questi il travertino. Esso proveniva dai dintorni di Tivoli, e specialmente dalla località il Barco presso l’attuale stabilimento delle Acque Albule, dalle cui cave, di uno sviluppo frontale di oltre due chilometri e mezzo ed una superficie di cinquecentomila metri quadrati, fu asportato per un volume di cinque milioni e mezzo di metri cubi di pietra.
Parecchi anni fa è stata messa in luce l’antica strada che vi accedeva dalla via Tiburtina; la sua larghezza, di m. 6,70, circa il doppio della via Appia, dimostra come si fosse provveduto al transito di una doppia fila di carriaggi.
Parallelamente alla strada e terminante come questa sull’orlo della cava, vi sono i resti di un acquedotto indubbiamente romano e di una capacità corrispondente a quello dell’antica Marcia; senza dubbio per il servizio delle macchine e delle ruote, e per la necessità del numeroso personale addetto all’estrazione della pietra.
Non tutto però il travertino adoperato nella costruzione del Colosseo è pervenuto direttamente dalle cave. Con il senso pratico ed economico dei romani una parte è stata ricavata da demolizioni di vecchie fabbriche, come risulta osservando la parte interna più alta del muro principale dell’Anfiteatro, dove si vedono, per la caduta delle murature laterizie che vi erano addossate, i residui di interi porticati, con le mezze colonne ricavate dai pilastri, pezzi di trabeazione con relative mensole, grossi architravi, messi alla rinfusa come elementi di un nucleo. Evidentemente sono resti di fabbriche demolite a costruzione avanzata dell’Anfiteatro, e quindi fuori della sua superfice, abbattute probabilmente per la sistemazione degli accessi.
Larghissima parte tra i materiali di costruzione del Colosseo ha pure la pietra tufo, di cui cave antichissime erano sull’Aventino, e sulla riva destra del Tevere, a Monteverde; ed il tufo fu posto in opera in grossi blocchi parallelepipedi, di perfetta lavorazione, oltre a costituire coi suoi frammenti, in conglomerato con la malta, il nucleo dei muri e delle vòlte ambulacrali e quelle rampanti della cavea e delle scale.
A partire dalla copertura del secondo ordine tutte le murature sono in laterizio, della caratteristica struttura romana, in cui i paramenti esterni hanno fattura accuratissima, tanto che perfino negli archi di scarico trovansi talvolta adottati appositi mattoni cuneiformi per rendere più regolare la struttura.
Abbiamo più sopra accennato alla singolare rapidità di costruzione dell’Anfiteatro Flavio. Nel fare, in passato, un computo approssimativo degli operai necessari alla costruzione dell’edificio nel breve periodo che risulta dai documenti storici si è constatato che il loro numero non avrebbe trovato sufficiente occupazione nella superficie in cui è sorto l’Anfiteatro.
Nel risolvere il quesito del come siasi potuto invece impiegare un così enorme numero di operai e nell’esaminare le strutture del monumento ho portato innanzi tutto la mia attenzione su di una singolare disposizione, che lo Choisy aveva notato senza però poterne trarre le vere conseguenze: la funzione cioè di alcuni pilastri parallelepipedi di travertino inseriti nel corpo dei muri radiali.
Esaminiamo la disposizione delle parti in travertino, quale risulta in scuro nella pianta della fig. 12; divisa in quattro settori corrispondenti ciascuno ad uno dei diversi piani dell’edificio,
La pianta del piano terreno e quella del primo piano ci mostrano i muri radiali aventi nella parte massiva quattro pilastri di travertino. Tra pilastro e pilastro è un riempimento di muratura a grossi blocchi di tufo nel piano terreno, di muratura a paramento laterizio nel primo piano.
Per il terzo e quarto piano al disopra cioè del termine della cavea noi non abbiamo il travertino che nel prospetto. Tutte le altre murature interne, in elevazione, sono in laterizio.
I detti pilastri di travertino sono tra loro collegati in alto da grossi arconi costituiti da mattoni bipedali, al disopra dei quali sono impostate le vôlte a botte ad asse inclinato che costituiscono la cavea.
E tali arconi hanno una singolare disposizione esterna che li fa terminare a punta addosso allo spigolo vivo dei pilastri di travertino, senza avere apparentemente un imposta in essi. Ma un’indagine accurata, fatta su tratti in cui l’arco è scomparso ovvero manca un tratto del paramento, mi ha rivelato l’esistenza di un innesto nascosto nell’interno, vero pulvino d’imposta che permette ai mattoni dell’arco di incastrarsi nel vuoto di uno dei conci di travertino. Le figg. 4, 8 e 9 ci mostrano fotografie e rilievi di siffatta disposizione.
Questa osservazione è venuta ad unirsi a quelle che dimostrano all’evidenza essere stato il muro di riempimento completamente scollegato dalla ossatura dei pilastri e degli archi ed eseguito in un periodo posteriore: sia per i blocchi di tufo nel pianterreno, i quali nei piani di posa non hanno vera corrispondenza con quelli del travertino (di cui i pilastri 1, 2, 3, 6, 7 hanno tra loro perfetta ricorrenza), sia per la muratura a paramento laterizio nel piano superiore.
Non v’era più dubbio: i pilastri di travertino, in un certo momento completamente isolati, in tutta la zona sottostante alla cavea, formavano un organismo solo con gli archi rampanti che li collegavano e questi e quelli in un primo tempo sostenevano, in uno scheletro indipendente di archi e pilastri, le vôlte di sostegno della cavea prima che le murature tra i pilastri stessi fossero eseguite.
La spiegazione di questo procedimento è evidente, Si è voluto per esso giungere il più rapidamente possibile alla costruzione del grande imbuto della cavea, sia per valersene come di una immensa rampa divergente verso tutta la periferia in alto, sia per costituire due vastissimi cantieri di lavoro sulla stessa superficie; uno in basso, completamente al coperto per lavorare anche in caso di pioggia, ed uno in alto per la costruzione dal terzo ordine in su.
Nella parte coperta si sviluppava tutto il lavoro per le murature tra i pilastri di travertino, le vôlte rampanti delle scalee, le vôlte perimetrali degli ambulacri, gli intonaci e le opere decorative in stucco, nella parte superiore tutte le opere murarie, relative alla costruzione del podio, della cavea prima, il completamento delle gradinate della cavea media e la costruzione della summa cavea e del portico ligneo terminale.
E’ singolare che questo metodo costruttivo richiami uno schema d’ingabbiature non affatto estraneo alla tradizione romana perchè lo troviamo frequente in costruzione africane (3), ad es. in Timgad, in reticolati di pilastri ed architravi di pietra (fjg, 11). Esso sopravvive nel Medio Evo, in una forma che offre interessanti raffronti con quelle sopraindicate, nelle cosidette case torri pisane del XII secolo (fig. 10) in cui i pilastri in pietra e gli archi ogivali o gli architravi intermedi racchiudono il riempimento della parete in laterizio (4).
Ed è lo stesso concetto, mosso da analogo scopo di sdoppiare l’ossatura dal riempimento e giungere rapidamente al termine della prima per attaccare il lavoro successivo in vari punti, che ritroviamo nelle recentissime costruzioni intelaiate in cemento armato ed in acciaio, che rappresentano l’ultimo portato, il massimo sforzo della costruzione moderna. Per esso la elevazione degli altissimi skyscrapers del Nord—America ha potuto raggiungere una straordinaria rapidità (5) che ci maraviglia cosi come quella ottenuta al tempo dei Flavi al Colosseo. Malgrado tuttavia tale concetto ultra moderno dell’impianto del cantiere e dello sviluppo del lavoro simultaneamente in piani sovrapposti, la rapidità di costruzione dell’anfiteatro non sarebbe stata possibile senza l’ausilio di una completa organizzazione basata sull’impiego di macchine e mezzi provvisionali potenti. E su questo argomento ci si consenta un breve excursus.
In un bassorilievo della tomba degli Atèri (f/g. I5), trovato sulla via Labicana ed ora nel Museo del Laterano ha parte principale una caratteristica macchina elevatoria che ci dà una chiara idea dei mezzi di solleva mento usati dagli antichi, e probabilmente anche per la costruzione del Colosseo,
Essa consiste in una robusta capra a due gambe, tenuta in posizione quasi verticale mediante corde e tiranti assicurate in cinque punti all’estremità superiore del suo albero, coronato da un cappuccio di vimini a difesa delle corde e dei tiranti.
Una grande ruota, probabilmente dai tre ai quattro metri di diametro, è solidale e coassiale con il tamburo di un robusto verricello che avvolge l’estremità dei canapi necessari al sollevamento dei massi, Nella periferia interna di questa ruota degli schiavi camminando ne provocano il movimento rotatorio, Altri uomini poi all’esterno tirando delle corde assicurate alla periferia della grande ruota motrice aiutano il movimento rotatorio ed il conseguente sollevamento dei massi.
E che tali ordigni consentissero degli sforzi capaci dell’innalzamento di carichi considerevoli, fino a qualche tonnellata, è dimostrato da un altro bassorilievo del Museo dl Capua, dove una macchina elevatoria dello stesso tipo, ma rappresentata con minor ricchezza di particolari, è in atto di sollevare una colonna di un tempio.
Queste macchine poderose erano certamente derivazione delle macchine e del materiale guerresco così largamente e cosi sapientemente usato dagli eserciti romani.
A questo proposito è utile richiamare i bassorilievi della Colonna Traiana, che documentando l’importanza assunta dal Genio militare romano come specialità delle armi combattenti, fanno intuire a quale importanza fossero giunte le costruzioni in legname (fig. 14).
Osservando i numerosi ponti che consentono il passaggio dell’esercito di Traiano attraverso fiumi e torrenti, saremo sorpresi dal tipo quasi regolamentare dei cavalletti posti a distanze pressochè costanti; circostanza che induce a ritenerle obbligatorie e corrispondenti ad altri elementi del ponte, di dimensioni fisse ed invariabili. Sui detti cavalletti, poi, dei correnti di sezione uniforme portano un tavolato di regolare fattura costituente il pavimento del ponte. Il riparo e un unico tipo di transenna. Nel tratto di ponte, in alto, e più chiaramente scolpito, si riconosce l’accurata squadratura del legname, e la transenna appare tanto regolare che all’incrocio dei suoi elementi costitutivi, son visibili perfino le borchie che servono certamente di unione.
Tutto ciò fa logicamente supporre che i ponti in uso nell’esercito romano non fossero costituiti con materiale occasionale, ma, come quelli militari di oggi, secondo un tipo regolamentare di cui le legioni combattenti avevano larga dotazione.
E questo pare quasi confermato nella stessa figura dal tipo unico, quasi normale, delle barche da ponte, anche allora adoperate come oggi, per il passaggio di corsi d’acqua profonda, dove era impossibile e malagevole impiantare i cavalletti di sostegno,
Questa digressione vale solo in quanto documenta con lo sviluppo dell’ingegneria militare (6), quella civile che non ha lasciato così larga testimonianza.
Quale sarà stato ora il tipo probabile delle armature in legname adoperate dai romani nell’edilizia?
Essi adoperavano certamente delle impalcature. Una pittura murale del sepolcro di Trebio Giusto sulla via Latina (fig. 17), ci rappresenta un piccolo cantiere con i suoi ponti di servizio tanto simili ai nostri, da farceli ritenere invariati da quei tempi ad oggi.
La perfezione, quindi, delle costruzioni provvisorie in legname, era presso i romani grande come quella della tecnica muraria. E non è privo d’interesse notare come il tipo di pontaggio allora usato nella costruzione (le due dette rappresentazioni del bassorilievo degli Ateri e del dipinto nell’ipogeo di Trebio Giusto lo dimostrano) non dovesse essere dissimile da quello attualmente in uso nella corrente opera di riordinamento dei cantieri, e che i particolari minuti dei ponteggi stessi fossero in tutto analoghi a quelli adottati ora, ed esclusivamente, a Roma.
Analoga la caratteristica delle abetelle, non a rozzo tronco, ma ben squadrate, unite in elementi; analoghi i listelli di olmo, che i muratori romani chiamano ganasse, posti a collegare dette abetelle ed a consentire di salirvi in alto. Lo stesso chiodo ora adottato non offre differenze da quelli che si sono ritrovati numerosi presso antiche costruzioni. Il nome di castello che ancora si dà alla parte più alta e più salda delle impalcature, è il romano castellum.
La sopravvivenza, del resto, non solo degli elementi provvisionali della costruzione, ma degli stessi procedimenti meccanici per il sollevamento ci è provata anche nei riguardi dello stesso apparecchio riprodotto nel bassorilievo degli Ateri.
Il Rondelet nel descrivere e disegnare quelli adoperati per la costruzione di Santa Genoveffa a Parigi, non fa che riprodurci quell’antico tipo; ed ancora nel Museo della Marina al Louvre conservasi un analogo modello di gru (fig. 16), adoperato pel porto di Tolone nel pieno fulgore del periodo Napoleonico dal 1794 al 1824. Agli schiavi erano sostituiti i galeotti, ma la macchina era la stessa di quindici secoli avanti. Passiamo ora a dimostrare quanto l’uso di materiali diversi nella costruzione dell’Anfiteatro fosse subordinata alla possibilità d’impiego delle armature in legno.
Logicamente la costruzione della vôlta sopra il secondo ordine di quella delle gradinate ha impedito l’ulteriore elevazione delle armature provvisionali interne che partivano da terra e che erano assolutamente necessarie per il sollevamento dei grossi massi di pietra; ciò spiega come al di sopra delle suddette vôlte, all’interno, non si riscontrino più che murature laterizie, restando limitato l’impiego del travertino all’innalzamento del prospetto esterno, dove, come vedremo, è stata possibile la costruzione di un solido ponte a sbalzo, cioè con un sistema provvisionale resistente si, ma meno atto al sollevamento di grossi massi di quello adoperato per la costruzione degli ordini inferiori i quali avevano avuto l’intera armatura interna ed esterna,
Ebbene la documentazione di questa minore resistenza del ponteggio superiore è evidentissima, in quanto che, pur essendo il muro dell’ultimo ordine risegato da quello sottostante, esso e anche costituito per la sola metà del suo spessore in travertino, e per l’altra metà da una struttura in malta e pietra minuta.
Riducendo così il necessario spessore dei blocchi di travertino, e quindi il loro peso, si veniva a sottoporre a sforzi meno intensi le armature di legnami, come suggeriva infatti la diminuita resistenza per la parte a sbalzo.
Questa costruzione delle murature delle due ultime zone deve aver proceduto, nel secondo periodo della fabbrica, quasi contemporanea al riempimento tra i pilastri dei due ordini inferiori: il quale, come s’è detto eseguivasi in grossi blocchi tufacei, del peso di quasi due tonnellate ciascuno, nella zona bassa, in muratura ordinaria al primo piano per evitare le grandi manovre e le potenti opere provvisionali.
Quello che colpisce chiunque oggi percorra l’ultimo ordine, è la presenza di pietre sporgenti di circa 30 centimetri (un piede) dalla faccia interna dei pilastri di prospetto (figg. 20 e 21).
Ebbene non vi è dubbio che queste mensole, per le loro dimensioni atte ad una eccezionale resistenza, siano stati supporti di armature in legno. E’ facile immaginare allora i saettoni sorreggenti il ponte a sbalzo impostati su quei risalti (fig. 18).
A circa a sei metri di altezza dal ciglio superiore delle mensole si aprivano in prospetto, nel basamento dell’ultimo ordine architettonico, delle luci rettangolari (prive di ogni altra destinazione) che potevano certamente facilitare il collegamento del ponte a sbalzo interno con quello esterno disposto sull’intera fronte dell’edificio.
Un rilievo esatto dei trentatre pilastri superstiti (fig. 13), induce ad altre considerazioni.
Tra essi ve ne sono alcuni che non hanno i risalti o le mensole; evidentemente era quello il posto di qualcuno dei castelli per l’innalzamento dei materiali, e quindi le loro armature dovevano partire da terra anche nella parte interna, Non essendo richiesto in quel tratto ponte a sbalzo, era superflua, anzi d’ingombro, la mensola.
Nei primi pilastri a sinistra noi vediamo che se le mensole hanno un medesimo aggetto, sono però di dimensioni diverse, e con il piano superiore di appoggio ad altezze variabili.
Tutti gli altri pilastri, a destra, hanno invece il piano superiore del risalto ad un unico livello; anzi è tale la cura nell’ottenere questo risalto, che la mensola non è costituita dal concio intero che sporge dal pilastro, ma spesso ricavata a scalpello da un concio più grande. Inoltre in questo tratto le mensole hanno le dimensioni molto regolari ed uniformi, contrariamente a quella del tratto prima considerato.
In ogni modo tutte le considerazioni suaccennate convergono in un unica conclusione. Che nella prima parte dei pilastri, i saettoni del ponte a sbalzo erano di differente lunghezza a seconda delle diverse altezze a cui erano poste le mensole e poggiavano direttamente su queste.
Nel secondo tratto invece un longarone doveva correre ed appoggiare su tutte le mensole, a sostegno dei saettoni, i quali potevano così essere posti anche in corrispondenza dei fornici.
In questo ultimo modo i saettoni risultavano tutti di uguale lunghezza, e se la fattura accurata dei piani superiori di appoggio nelle mensole, richiedeva più tempo, questo era poi riguadagnato nella maggiore semplicità della preparazione uniforme degli elementi del ponte a sbalzo.
Sono evidenti però due concetti direttivi diversi — quasi la distinzione di due singoli cantieri — nei quali se presiedeva un criterio generale unico di esecuzione, rimaneva per i particolari una certa libertà d’iniziativa ai dirigenti in sotto ordine.
La divisione netta delle due diverse specie di mensole poi quasi fatta dall’asse minore della figura elittica dell’edificio, induce nell’opinione di trovarci di fronte a due dei quattro cantieri, uno per ogni quadrante, in cui si può supporre diviso il Colosseo nel tempo della sua costruzione.
Anche la diversa cura con cui sono stati eseguiti i pilastri in travertino e le murature è un indice di più dell’esistenza di direzioni subalterne, relativamente indipendenti; evidente, del resto, in un’opera così colossale e condotta con indiscutibile rapidità.
In corrispondenza di uno dei cantieri, quello di sinistra, guardando dall’interno verso l’esterno, si può constatare una certa trascuranza delle buone norme costruttive (fig. 20) e dell’accurato collegamento verticale fra i conci costituenti i pilastri, il che non si verifica nell’altro cantiere, ordinato certamente con una maggiore cura coscienziosa.
A chi obiettasse perchè siano state lasciate quelle mensole una volta terminata la costruzione è facile rispondere che questo era un uso quasi costante dei costruttori romani, che ritenevano, con un senso pratico che a noi forse oggi sembrerebbe eccessivo, opera superflua e poco economica sopprimere quegli elementi costruttivi, che erano stati richiesti solo dalle transitorie necessità di cantiere, e che, del resto, potevano ancora in qualche eventuale restauro essere utili,
Informi: il ponte du Gard, il ponte di Narni, ed il ponte Cestio, il Fabricio, il Flaminio in Roma.
Per quanto poi si riferisce alla supposta, ma fondata, ripartizione in cantieri dell’opera anfiteatrale, è opportuno ricordare che lo Stato Romano si valeva per l’esecuzione di opere di pubblica utilità di collegia d’Imprenditori ufficialmente riconosciuti ed ufficialmente organizzati in coorti, sul modello dell’armata, i quali godevano d’immunità e di privilegi speciali, come l’uso di alcuni beni dello Stato, l’esenzione da qualunque carico pubblico o municipale, da tutte le imposte straordinarie, da ogni corvée o servizio militare. In cambio essi non potevano assolutamente rifiutare, senza rinunciare a tutti i benefici, i lavori dello Stato, accettando quelle condizioni di residenza, di esecuzione, di rimunerazione che esso credeva d’imporre.
E verosimile quindi che in un’opera così grandiosa e condotta cosi sollecitamente, vi sia stata un’efficace divisione di lavoro, facilitata dalla rigida e militare organizzazione dello Stato.
Le osservazioni che furono fatte in principio, sulla base delle testimonianze comprovanti l’integrale costruzione dell’Anfiteatro in un unico periodo antecedente alla sua dedicazione, ricevono definitiva conferma dall’esame tecnico della struttura muraria dell’ultimo ordine.
L’altezza ditale ultimo ordine del muro periferico esterno dell’Anfiteatro è di metri 13,90; ed essendo lo sviluppo in lunghezza di circa 540 metri la complessiva superficie risulta quindi di mq. 7500.
Questo muro, che ha uno spessore complessivo di m. 1,90, è costituito nella metà esterna, da blocchi di travertino e nell’interno in gran parte da un conglomerato di scaglioni o frantumi di travertino e malta, che non si ritrova in nessun’altra struttura muraria del Colosseo.
E quindi un volume di circa 6000 metri cubi di frantumi di travertino che sono andati a posto in quel muro, e solamente in quel muro.
Sono i residui enormi dell’immenso cantiere anfiteatrale che non avrebbero potuto trovar posto altrimenti, ed il cui trasporto a rifiuto sarebbe riuscito oneroso ed inutile,
Non si può d’altra parte supporre che una così ingente quantità di questo pietrisco fosse fatto venire espressamente da cave tanto lontane, quando nessuna ragione costruttiva o statica ne richiedeva espressamente l’impiego, in un muro che non doveva resistere che al proprio peso; molto meno una ragione economica, se il materiale non si fosse trovato sul posto e senza nessuna spesa.
Questo rivestimento di conglomerato dell’ultimo ordine del muro esterno anfiteatrale deve essere stato, quindi, eseguito contemporaneamente al resto dell’opera, ed a maggiore ragione, l’intero ultimo ordine in travertino a cui detto rivestimento è addossato.
E questa certezza risolve anche uno dei più discussi problemi relativi all’edificazione dell’anfiteatro.
L’Anfiteatro Flavio, che, finalmente, dopo diciannove secoli, rivela così il metodo geniale della sua edificazione, dà il mezzo di affermare sempre più, quanto ingegno, quanta forza, quanta disciplina fosse nella nostra gente antica. Ed anche per questo è ben giusto che nella immaginazione degli uomini del Medio Evo il grande monumento sia apparso collegato alle sorti della romanità e quasi ne abbia espresso il simbolo grandioso, secondo quanto afferma la nota profezia: “Quandiu stat Colysaeus stat et Roma; quando cadet Colysaeus cadet et Roma; quando cadet Roma cadet et mundus”.

GIUSEPPE COZZO.


(I) A. CHOISY. L’Art de bitir chez les Rontains,
Paris, 1373.
(2) Cf. su tali argomenti DURM. Baukunst der Romer. RIVOIRA. Architettura romana. Milano, 1921, p. 113.
(3) Cf. GSELL: Les monuments antiques d’Algérìe.
(4) Cf. CH. ROHAULT DE FLEURY. Les monuments de Pise.
(5) Cf. G. GIOVANNONI. La costruzione degli skyscrapers nel Nord America, Roma, 1906.
(6) volendo sviluppare altri studi analitici su altre grandiose opere tecniche dei Romani si troverebbero certo analoghe ricerche ed analoghi espedienti per moltiplicare i cantieri e con essi il numero degli operai che lavoravano simultaneamente. L’escavazione dell’emissario del Fucino
intrapresa da Claudio, nel quale, secondo la testimonianza di Svetonio e di Tacito, ben trentamila uomini furono impiegati, ne offre, coi suoi pozzi e le sue grandi rampe di discesa, uno degli esempi più mirabili.
(7) Vitruvio nel lib. X descrive a lungo gli apparecchi di sollevamento basati su sistemi di puleggie con più di una fune di rinvio, e li classifica, secondo il numero degli elementi associati su di un’unica capra, coi nomi di trispastos, pentaspatos, polispatos.
(8) Cf. E. ROCCHI. Le fonti storiche dell’Architettura militare, Roma, 1908.
(9) Siffatte sporgenze nei pilastri del Colosseo furono nel Cinquecento rilevate e disegnate dal Serlio nelle tavole del 3° libro del suo trattato.

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