FASCICOLO VI FEBBRAIO 1923
NOTIZIARIO
CRONACA DEI MONUMENTI.

SIENA. Siena nell’anno decorso non soltanto ha commemorato Dante in conferenze e discorsi, ma ha voluto lasciare traccia durevole della celebrazione, sia nel porre epigrafi recanti versi danteschi che si riferiscono ad edifici senesi ancora esistenti ed a ligure senesi ancora, per così dire, localizzabili (la casa di Sapìa, la casa della Brigata spendereccia, ed il palazzo de’ Tolomei e Fonte Branda); sia col pubblicare un magnifico volume riferentesi a documenti ed a monumenti di Siena del tempo di Dante; sia infine col curare il restauro di un modesto ma interessante monumento, cioè il chiostro di S. Cristoforo.
Il volume dantesco è riuscito, per serietà di studi e per bellezza tipografica, davvero degno della città e dell’avvenimento che s’intendeva commemorare. Ne accenniamo qui fugacemente per segnalare, nel campo delle ricerche su monumenti e sulla topografia cittadina, gli articoli ivi contenuti: del Chierici sulla “Casa senese al tempo di Dante e sul restauro di S. Cristoforo del Lusini sulla “Topografia di Siena nel sec. XIII” nonchè i mirabili bozzetti a penna del Viligiardi che riproducono frammenti della città, i quali ancora conservano il tipo che avevano al tempo di Dante.
Di alcuni di codesti bozzetti a penna, per cortese concessione dell’autore, diamo qui riproduzione, per fissare il ricordo d’arte nel tempo e nei luoghi, per mostrare lo spirito della città tradotto con singolare evidenza di impressione e di documentazione attraverso t’opera coscienziosa e sapiente di un artista, pel quale le pietre di Siena non hanno segreti, e non ne ha la tecnica del disegno.
Quanto al restauro, felicemente condotto a termine, del chiostro e dell’abside di S. Cristoforo, esso ha rappresentato il ritorno a vita di uno degli scarsissimi elementi architettonici superstiti dell’età romanica in Siena, ove la grande fioritura gotica corrispondente al periodo della maggior fortuna e del massimo sviluppo artistico si è sovrapposta a quella del tempo precedente e l’ha nascosta o distrutta.
E’ riapparso così il bel chiostro, semplice nelle linee e nella costruzione, intorno a cui si aggrupparono nel Duecento gli uffici del Consiglio Generale e della Curia, ed in mezzo ad esso ha ripreso la sua forma l’abside della chiesa coronato dalle tipiche arcatelle lombarde. Ed è così ritornato alla luce uno dei luoghi più caratteristici di Siena. angolo suggestivo e tranquillo, pur nei ricordi di un’antica vita tumultuosa.
Paralleli a questo interessante restauro eseguito in Siena ai sono svolti, sempre a cura della Sovraintendenza ai Monumenti del Scorse, ed in particolare del Sovraintendente arch. Chierici, altri restauri in S. Gemignano, anch’essi occasionali dalla celebrazione dantesca. E di essi parleremo in altra occasione.


ROMA. L’acquisto da parte dello Stato, per una somma di 1.600.000 lire, della chiesa e del convento di S. Adriano sul Foro è ormai un fatto compiuto, di cui va data al Ministero dell’Istruzione ed al Sottosegretariato per le Belle Arti ampia lode. Tra non molto dunque potranno essere iniziati i lavori di esplorazione prima, di liberazione poi, del glorioso edificio della Curia Giulia racchiuso ora ed alterato da tante costruzioni aggiunte.
Le notizie che tuttavia conosciamo di scavi e di rapine già avvenute nel Cinquecento e nel Seicento ci sono di guida per assicurarci di quello che potrà trovarsi e per Suggerirci la sistemazione definitiva. Sappiamo infatti essere l’attuale chiesa di S. Adriano elevata sulla stessa pianta dell’aula, il cui pavimento trovasi, abbastanza ben conservato, nel sottosuolo al piano del Foro, ma il nuovo si è aggiunto all’antico in modo tale che, volendo lasciare ovunque scoperte le primitive strutture, si avrebbero ruderi monchi e smozzicati. Meglio dunque lasciar traccia di tutte le vicende storiche ed artistiche mantenendo in piedi la chiesa ed escavandone e liberandone il sotterraneo.

ANCONA. Dalla Sovraintendenza ai Monumenti delle Marche sono stati recentemente condotti a termine i restauri della bella chiesetta medievale di S. Maria di Portonovo alle falde del Monte Conero presso Ancona. Interessantissimo è l’edificio: per la data del 1034, risultante da un atto di donazione a cui sembra farsi risalire per la conservazione quasi integrale nella forma primitiva, (a cui è stato aggiunto un protiro A, e tolto un gruppo di costruzioni B adiacenti dal lato del mare); per lo schema planimetrico nel quale giustamente il Posti ed altri hanno voluto vedere il prototipo della pianta di S. Ciriaco di Ancona ma, più ancora, pel tipo di arte che vi si trova espressa. E arte prettamente lombarda, nella costruzione delle volte a botte ed a crociera, nel tiburio ottagono elevantesi su pennacchi conici, nei rozzi capitelli, nei particolari delle arcatelle, delle finestre, delle cornici: ma è degno di nota come tutto l’edificio appaia un compromesso tra il tipo planimetrico centrale e lo sviluppo longitudinale. sicchè nel suo studio (del quale il Toesca ha già tracciato le linee) può osservarsi l’innesto tra te tendenze orientali e le occidentali, il passaggio tra le due sponde dell’Adriatico: tra gli schemi di Salona, di Corfù, di Atene, e S. Satiro di Milano, S. Vittore di Feltre, S. Marco di Venezia, S. Ciriaco di Ancona, la cattedrale di Cremona, ecc.
Ma, rimanendo nel campo dei provvedimenti tecnici, e da rilevarsi che il restauro, ottimamente eseguito, deve però essere completato da un’opera essenziale ed urgente, cioè una scogliera che difenda dalla furia del mare il fragile muro di sostegno, già in parte sgretolato su cui si eleva la bella chiesa. A BOLOGNA in una molto discutibile serie di proposte di sventramenti e di sistemazioni interne preparate dall’Amministrazione Comunale, si vorrebbe tra l’altro allargare e proseguire la Via del Rondone il che porterebbe all’abbattimento della chiesa del Buon Pastore, interessante costruzione seicentesca, che presenta una bella facciata su di un ampio portico, dietro la quale si erge a notevole altezza il corpo della costruzione. Occorre impedire la distruzione di un edificio così notevole e caratteristico, minacciato non da impellenti necessità di sviluppo cittadino, ma da artificiosità di tracciati estranei alle nuove tendenze di edilizia.

PESARO Un importante restauro si sta ora compiendo, a cura della Sovraintendenza ai Monumenti delle Marche, nel palazzo della Provincia in Pesaro, che può dirsi uno dei più belli edifici civili della seconda metà del Quattrocento in Italia — sia o no il Delaurana l’architetto, sia o no il Rosselli l’autore dei mirabili ornati delle finestre. Queste riprendono ora la loro proporzione ed il loro aspetto, poichè vien tolta la chiusura che barbaramente ne aveva diminuita la luce; e riavvicinasi alle primitive condizioni la grande sala sulla facciata.
È da augurarsi che nell’interno il restauro prosegua dando con semplici tinteggiature alle vòlte ed alle pareti sobrietà di aspetto alle sale, che così opportunamente sono state destinate a museo civico. Le decorazioni ivi eseguite forse 70 anni fa dal Liverani sono un così orribile esempio di mal gusto e turbano talmente la bella raccolta di arte, che non v’è altro a fare che passarvi sopra il pennellone dell’imbianchino. La formula del rispetto al passato non può essere assoluta e non deve mancare di un senso critico e di un intendimento d’arte nella sua applicazione il che talvolta può recare dubbi e pericoli, non certo nel caso attuale..
Un altro interessante quesito si presenta nei riguardi del coronamento del palazzo, il quale era originariamente a merlatura come dimostra la veduta che è in una tarsia nel coro di S. Agostino in Pesaro, e come confermano documenti della Oliveriana che parlano di teste appese ai merli del palazzo per leggiadra punizione ai congiurati contro Giovanni Sforza. L’attuale cornice in istucco deve essere stata eseguita nel Settecento quando si è spostato il tetto e mutata l’altezza del salone ma pur mantiene forza ed armonia cinquecentesca nella massa e nell’ornato. E’ ora conveniente sopprimerla e ripristinare la cornice merlata?
Di questa, oltre le indicazioni generiche suddette, rimane testimonianza precisa nelle testate delle mensole che ora si sono rinvenute nel restaurare la facciata ma ogni particolare di forma e di proporzioni manca, sicchè nel rinnovarla l’arbitrio sarebbe inevitabile, e forse anche inevitabile la deformazione poichè la posizione attuale del tetto obbligherebbe a linee diverse dalle primitive. Meglio dunque lasciare le cose come sono, malgrado che a Pesaro il desiderio di rivedere il palazzo nel suo antico aspetto suggestivo sia molto diffuso, ed appaia del resto lodevole e legittimo. E gli intendimenti di restauro ed i mezzi finanziari eventualmente per esso raccolti si volgano piuttosto al bel tema della decorazione interna del salone principale, magnifico per ampiezza e per proporzioni, orribile per la goffa forma delle pareti e del soffitto.

G. GI0VANNONI.




NOTIZIE VARIE
IL CINEMATEATRO SAVOIA A FIRENZE.

Nello scorso decembre è stato inaugurato a Firenze il teatro Savoia, eretto ad opera del Sindacato Immobiliare toscano con architettura di Marcello Piacentini. L’edificio e stato costruito usufruendo delle antiche mura perimetrali del cosiddetto “Strozzino”, palazzotto già alle dipendenze del palazzo Strozzi e parafrasante, nei profili della facciata, le rudi e solenni architetture del Cronaca.
Lo Strozzino, che sorge nella zona dove esistè un tempo l’originario antichissimo nucleo della città, era addossato da tutti i lati, tranne quello della facciata e di un breve prospetto laterale, da altri casamenti sicchè, dopo le famigerate demolizioni del 1890, si trovò a rimanere isolato. Le mura nude. di semplice opera muraria, che l’autore del palazzo, il quale non si sa bene chi sia stato mai aveva certamente pensato dovessero vedere la luce del giorno, vennero a costituire uno sconcio estetico nel bel mezzo della città, sconcio per il quale per parecchi anni fu invano invocata una sistemazione.
Più tardi alcuni privati comperarono dal Comune lo Strozzino col proposito di farne, appunto, un cinemateatro. Fu messo anche mano ai lavori, ma questi procedevano assai a rilento. Venne rialzato d’un piano, e non certo con molta consapevolezza delle leggi di armonia e di proporzione, il prospetto della facciata, nonchè quello laterale fu demolito il cortile quattrocentesco, assai bello, e insieme ad esso tutte le mura divisorie, onde far posto al nuovo vaso architettonico. Ma sopraggiunta la guerra i lavori furono sospesi, e sospesi rimasero per un bel pezzo. Fino a quando, cioè, il Gr. Uff. Alessandro Aboaf presidente del Sindacato Immobiliare Toscano dava incarico all’arch. Marcello Piacentini di condurre a termine l’opera su piani totalmente rinnovati.
L’incarico dato all’illustre architetto romano era, per così dire, un componimento a rime obbligate, per la semplice ragione che nella facciata dello Strozzino e nelle sue mura perimetrali egli trovava dinnanzi a sè alcune premesse decorative e strutturali di cui era assolutamente costretto a tener conto, coordinando e conciliando con esse necessità non meno inalienabili delle prime le necessità tecniche proprie al genere di edificio che doveva ideare. Difficoltà non ultima: bisognava considerare – quanto e come la coscienza estetica imponeva che il rinnovato edificio sorgeva fra l’imponente e grave palazzo Strozzi e lo schietto e aereo palazzo Davanzati, due termini di confronto da preoccupare qualsiasi architetto.
A proposito del modo col quale il Piacentini ha superato coteste difficoltà e girato cotesti non lievi ostacoli, si potrebbe ben a ragione ripetere l’assioma di Balzac, che cioè, il maestro si rivela operando dentro i limiti.
Le due serene facciate che il Piacentini ha creato in luogo delle due nude muraglie già addossate agli antichi edifici, basterebbero a provare come egli possieda felicemente quello che è lo spirito essenziale dell’architettura oggi, purtroppo, da pochissimi posseduto in Italia, sommerso dalla faragginosa retorica ornamentista voglio dire quel senso tutto intuitivo e musicale che suggerisce la distribuzione dei vuoti e dei pieni, il determinarsi delle “sonorità” (aggetti) e delle “pause” (superfici lisce). Questa armonia è specialmente difficile a determinarsi quando si tratta di operare nell’ambito dei prototipi del Rinascimento fiorentino, nel quale il giunto degli elementi decorativi è sobrio, casto, delicato; fragile direi quasi – come una coppa di Murano sicchè occorre un gusto onestamente educato e un intuito finissimo per non cadere in quella goffaggine scolastica, rimpinzata e trita che è l’aspetto di troppi edifici sorti in Firenze da sessant’anni a questa parte, sedicenti ispirati al Quattrocento toscano.
Il Piacentini in queste due facciate semplicissime, ma piene di respiro e di nitore come un frontespizio del Giuntini o del Bodoni, ha ben dimostrato di aver vissuto e penetrato lo spirito dell’architettura fiorentina, la cui eleganza e la sobrietà aristocratica della quale solo dai cervelli grossolani è scambiata per secchezza o avarizia. Spirito quello dell’architettura fiorentina che domina e abbraccia i caratteri di ogni stile, sicchè persino il Barocco a Firenze si distingue per un suo proprio carattere più contenuto, più snello e leggiadro. E’ la snellezza e asciuttezza della fronda dell’olivo dei colli fiesolani, il suo colore aereo, la limpidezza e chiarezza e il delicato sapore del liquore che si spreme dalle sue bacche...
L’arte tutta pause e riposi del Brunellesco ha presieduto l’immaginazione del Piacentini nell’ideare questo edificio. Dove, poi, egli ha maggiormente impegnato l’originalità del proprio gusto e del proprio intuito architettonico e, insieme, una notevole ingegnosità tecnica è stato nel risolvere il problema tettonico e insieme decorativo della sistemazione del fianco Sud dell’edificio (si parla ancora dell’esterno), nel quale il vecchio palazzo, separato dalle altre fabbriche che gli si addossavano un tempo, presentava, come direbbe un chirurgo, una profonda abrasione. Il corpo in avanti, in guisa di torre e la conseguente risecatura, ideati dal Piacentini, non sono solamente una “trovata”, ma costituiscono un accento pieno di arditezza e di gusto, in cui lo stile tradizionale è impiegato con geniale libertà. L’angolo è squisitamente decorato, in basso, da una fontana in forma di antica tinozza romana modernamente semplificata, circondata da una rude e massiccia ringhiera in ferro battuto che ne completa e incornicia le linee. Terminerò di parlare dell’esterno ricordando le belle e nobili porte che rivelano la coscienza e il sentimento d’arte col quale il Piacentini ha curato anche gli accessori: delle porte dalle ampie e severe sagome quattrocentesche interpretate e rese originali secondo lo spirito tutto moderno di razionale semplicità. Ed è altresì originale la lanterna sull’angolo Nord, liberamente ispirata ai profili di un pergamo quattrocentesco, forse di quello Donatelliano del duomo di Prato: per quanto non sarebbe ad essa nociuto una maggiore ampiezza e leggerezza di forme e un accento più decisamente decorativo nella modellazione delle piccole cariatidi in forma di figurette adolescenti.
La sala del cinemateatro ha forma di grande e semplice cupola, attorno alla quale ricorrono palchi e gallerie, forma che ricorda per la sua severità certi interni di basiliche circolari paleocristiane, coi loro matronei, nonchè il vaso della cappella dei Pazzi.
Ciò che colpisce subito, affacciandosi all’interno delta platea è quella stessa armonia pacata e severa cui ho accennato parlando dell’esterno, data specialmente dagli ampi “riposi”, dalle vaste zone nude liscie e imbiancate, fra le quali l’architetto ha saputo intercalare la sobria eppure ricca decorazione. Incastonare la magnificenza decorativa nella strutturale nudità, a commento e rilievo di essa, fu il segreto dell’architettura del migliore Rinascimento, cui anche per questo verso, il Piacentini si è ispirato, senza rinunziare a novità di accenti e di motivi. Ogni complemento decorativo è stato da lui ideato ed eseguito con criterio di nobile arte, in stretta aderenza alle premesse architettoniche e, in conseguenza, collocato al suo giusto luogo dai ricchi lampadari a bilancere, in legno scolpito e policromato del Barsi, alla cupola di vetri colorati e opalescenti, aprentesi per via di un silenzioso e obbediente congegno elettrico un vero prodigio di meccanica e d’arte al telone in seta, ricco e intonatissimo, appositamente intessuto da quella maga del telaio che è Lorenza Agresti, la direttrice del Setificio Fiorentino; ai due arazzi in mosaico di stoffe antiche, appesi sotto gli arconi laterali, opera della pittrice PiacentiniTesta; fino agli stucchi nei parapetti dei palchetti e della gradinata e a quelli che fasciano le colonne binate, modellati dallo scultore Gronchi.
Ma ciò che forma il suggello di quell’armonia sono le tre statue in legno dorato e policromato che sormontano il boccascena, opera di Antonio Maraini. Questo artista in cui il gusto decorativoplastico è fatto di una squisita intuizione connaturata ad una mentalità e ad un istinto aristocratici, è fra i rari scultori di oggi che si rendono conto delle relazioni di stretta parentela e di vicendevole dipendenza che passano fra architettura e scultura.
Queste tre Muse del Maraini immaginate con una scettica arguzia di un sapore tutto moderno, erette su tre capitelli in funzione di mensole, sia a cagione della loro impaginazione perfetta entro la superficie dell’arcata, la cui linea ampia e dolce esse secondano coi loro gesti languidi, che per il modellato sintetico e pieno di ritmo, vengono a dominare tutto l’insieme architettonico e ad assommarne lo spirito decorativo bell’esempio in cui la scultura rimane libera ed espressiva, anche obbedendo al compito che l’architettura le assegna. La stessa misura semplice e ricca nei vestiboli, nei corridoi, per le scale, nei ridotti di cui è ricco il nuovo teatro. Sono modelli di ragionevole eleganza e di organica decorazione eseguiti dalla ditta Barai di Firenze i banconi, il luogo di distribuzione dei biglietti, il bar, in cui la nota chiara dell’abete di Norvegia s’intona a meraviglia alle decorazioni scolpite e dorate e d’un gusto singolare e modernissimo, è il cassettonato di un breve passaggio modellato con festoso gusto decorativo, coi segni dello Zodiaco, dallo scultore Gronchi.
Accanto al teatro cinquecentesco monumentale e retorico, a quello settecentesco delle Accademie, intimo, frivolo e lezioso, al democratico politeama squallido ed enorme, e sorto come espressione di una necessità e di un gusto di questi ultimi anni il cinemateatro: di tale ultima espressione e necessità l’arch. Piacentini ci ha dato un prototipo con questo teatro Savoia. Nè vanno dimenticate le pitture fantasiose, bizzarre e divertenti, ispirate ad un gusto e ad una sensibilità cromatica novissimi, di cui il giovanissimo pittore Rosso vero decoratore di razza ha ornato i locali sotterranei del “Bal Tabarin”.
Mi piace concludere con un rilievo oggi molto attuale e cioè, che, se dl quell’armonia, di quella eleganza decorativa, di quella dignità e cura di ogni particolare, cui ho accennato più sopra, è sopratutto da dar lode all’ideatore e direttore dell’opera, il Piacentini, è giusto e utile riconoscere la parte non piccola che in tutto ciò ebbero le maestranze che quei lavori di decorazione eseguirono. Il cinemateatro Savoja dimostra ancora una volta come il nostro paese abbia nella capacità tecnica, nel gusto innato, nell’amore al lavoro dei suoi artigiani e di quelli toscani in special modo un tesoro che, se ben impiegato, può ritornare a darle, come nel passato, il primato nelle arti decorative.

MARIO TINTI.



CONCORSO PER UN PROGETTO D’ALTARE NELLA CATTEDRALE DI BRESCIA.


Tempo addietro una religiosa congrega bresciana bandì un concorso per un progetto di altare da erigersi nella cattedrale di Brescia in glorificazione della SS. Croce, cui quella congrega particolarmente devota. Pochi artisti parteciparono a questa gara, e la commissione giudicatrice, dopo varia discussione giudicò che il concorso dovesse dichiararsi nullo. Assegnò tuttavia due distinzioni, una di L. 2000 all’arch. Giovanni Salvestrini di Torino ed altra di L. 1000 all’arch. Luigi Pellini di Milano. Per cortesia degli egregi autori siamo in grado di riprodurre le due soluzioni vincenti. Il Salvestrini immagina una grande croce dorata (non di ferro scuro come parrebbe far supporre la fotografia) che frondeggia di mille riccioli avanti agli occhi attoniti di un gruppo di beati.
Il Pellini ha fatto campeggiare una croce liscia, di rilievo anch’essa, con inquadratura architettonica d’ispirazione seicentesca.


CONCORSO DELLA “CHICAGO TRIBUNE”

Su tutti i giornali del mondo comparve il bando di concorso per una sede di grande giornale indetto dal quotidiano “Chicago Tribune” con premi che, ai cambi attuali del nostro vecchio continente, risultano pressochè favolosi. E molti architetti d’Europa furono tra i concorrenti, ma chi non potè mandare il progetto in tempo, chi non s’immedesimò delle condizioni richieste dall’ambiente americano. Pur tuttavia segnaliamo che il Saarinen di Helsingfors è riuscito a guadagnarsi il secondo premio e che un premio è toccato all’architetto romano Giuseppe Boni, unico tra gli artisti delle nazioni latine. Il primo premio lo guadagnarono i signori John Mead Howells e Raymond M. Hood newyorkesi, il terzo i signori Holabird e Roche di Chicago. Naturalmente il tipo adottato dai tre vincitori fu il grattacielo, lo Sky Skraper, il quale per piegarsi ad una forma d’arte, scivolò subito nel gotico... o quasi. Il primo e il terzo premio hanno infatti la sagoma di una cattedrale gotica. Ecco la rinascita di uno stile che non sembrava troppo aderente al gusto moderno. Il secondo progetto ha la sagoma di una di quelle torri il cui tipo di transizione tra il romanico e il gotico rappresenta una originale forma d’arte delle contrade nordiche d’Europa.
La nobiltà di concezione dell’arch. Saarinen che, con partito geniale, utilizzava ai fini decorativi l’ossatura stessa dello Sky Skraper, avrebbe meritato maggior fortuna, anche perchè ben si fondeva alle linee massicce dell’edificio cui si sarebbe dovuta congiungere. Viceversa si è preferito il campanile gotico con tutti i suoi inutili fronzoli, con tutte le sue ghimbeglie e i suoi contrafforti vistosi, ma incoerenti. Una spiegazione del verdetto si potrebbe avere dal fatto che il giuriì trovò modo di giudicare centinaia di progetti, venisti da tutte le parti del mondo, in sole 24 ore!



BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO.


Esthétique de l‘ingenieur. Maisons en série. Articolo di LE CORBUSIERSAUGNIER in uno degli ultimi numeri de L’Eaprit nouveau, la brillante ed elettrica rivista francese (29, Rue d’Astorg, Paris, VIII).
L’autore annuncia che in Francia è stato domandato dai deputati Loucher e Bonnevay una legge decretante la costruzione di 500.000 appartamenti a buon mercato, da parte dello Stato. Circostanza eccezionale negli annali della costruzione per la quale occorrono mezzi egualmente eccezionali.
Tutto però è da fare. Nulla è pronto per la realizzazione di questo programma immenso. Sopratutto lo stato d’animo non esiste: lo stato d’animo di costruire delle case in serie, lo stato d’animo di abitarle, lo stato d’animo di concepirle. Manca ogni specializzazione: non vi sono nè officine, nè tecnici specialisti.
Ma se, d’un tratto, lo stato d‘animo della serie nascesse, tutto sarebbe fatto in un batter d’occhio. Difatti, in tutti i cauti della costruzione, l’industria, potente come una forza naturale, invadente come un fiume che precipita al suo destino, tende sempre più a trasformare i materiali bruti e naturali, e a produrre ciò che si chiama materiali nuovi. Essi sono legione: cementi e calci, ferri profilati, ceramiche, materiali isolanti, condotti impermeabili, etc. Tutto ciò però arriva saltuariamente e faticosamente nel cantiere, e costa una mano d’opera enorme per la sua posa. Ciò perchè i diversi oggetti della costruzione non sono stati sériés. Non esistendo lo stato d’animo adatto, non è stato mai iniziato lo studio razionale degli oggetti e meno ancora lo studio razionale della costruzione stessa Lo stato d’animo della serie è odioso agli architetti e agli abitanti.
Qui l’autore fa una ruvida tirata contro il regionalismo. Figuratevi, egli dice, che si vuoi fare pressione sulla Compagnia delle Ferrovie del Nord per obbligarla a costruire sulla linea ParisDieppe, trenta stazioni di stile differente, poichè ognuna di esse è su di una collina che ha tutto un suo carattere, una sua anima.... ecc.
Fatale flauto di Pan!
I primi effetti dell’evoluzione industriale nell’edificio si manifestano in questa tappa primordiale : la sostituzione dei materiali naturali con materiali artificiali, dei materiali eterogenei e dubbi con materiali artificiali, omogenei e provati al laboratorio, e prodotti con elementi fissi. Il materiale fisso deve sostituire il materiale naturale, variabile all’infinito.
D’altronde la legge dell’economia reclama i suoi diritti: i ferri profilati e, più recentemente, il cemento armato, sono pure manifestazioni di calcolo, impiegando la materia totalmente ed esattamente mentre che l’antico trave di legno nasconde forse qualche nodo traditore il cui sospetto ci obbliga ad una considerevole perdita di materia.
Ancora oggi, hélas, si vedono grossi cavalli che portano nei cantieri enormi pietre, e molti uomini che si affaticano a farle discendere dai carri, per tagliarle, lavorarle, montarle sui ponti di servizio, aggiustarle verificandone lungamente, con il metro alla mano, le sei facce. Una tale casa si costruiva, e si costruisce, in due anni. Oggi si potrebbero montare degli edifici in qualche mese! Per una recente costruzione, ho veduto entrare nel cantiere soltanto sabbia e ferretti, grossi come nocelle. Ho veduto muri sottili come membrane, pur sostenenti carichi enormi.
Le cose dunque sono ben cambiate! La crisi dei trasporti ha giovato! S’è compreso che una casa rappresenta un tonnellaggio formidabile. Se si diminuisse questo tonnellaggio dei quattro quinti?
Ecco uno stato d’animo moderno.
I cantieri edilizi debbono diventar officine.
Dopo aver fabbricato nelle officine tanti cannoni, aeroplani, camions, vagoni, etc., ci si domanda: non si potrebbe fabbricar case?
Ecco uno stato d’animo della nostra epoca.
Nulla è pronto, ma tutto potrà esserlo in breve. Nei prossimi vent’anni, l’industria avrà raggruppato i materiali fissi, la tecnica avrà raggiunto i sistemi perfetti di struttura razionale. L’organizzazione finanziaria e sociale realizzerà il problema dell’abitazione, e i cantieri non saranno più cosi sporadici, dove tutti i problemi si complicano, ma immensi, e perfettamente disciplinati.
L’evoluzione sociale fatale avrà trasformato i rapporti tra i locatari e i proprietari, avrà modificato la concezione dell’abitazione e le città saranno ordinate invece di essere caotiche. La casa non sarà più questa cosa enorme che pretende snidare i secoli e che è l’indice della ricchezza: essa sarà un utensile, come l’automobile sta per divenire un utensile. La casa non sarà più un’entità arcaica, pesantemente abbarbicata nel suolo per mezzo delle profonde fondazioni, alla cui devozione s’è instaurato da tanto tempo il culto della famiglia, della razza, ecc....
Se si distaccherà dal cuore e dall’animo della gente il concetto immobile della casa, e se si vedrà la questione da un punto di vista critico ed obbiettivo, si arriverà alla casautensile, casa in serie accessibile a tutti, sana, incomparabilmente più dell’antica (anche moralmente) e bella dell’estetica degli utensili di lavoro che accompagnano la nostra esistenza.
Ma è necessario creare /o stato d’animo d’abitare le case in serie.
Ciascuno sogna legittimamente d’assicurarsi la sua abitazione. Ma poichè oggi questo sogno è irrealizzabile, esso provoca un vero isterismo sentimentale. Fare la propria casa è presso a poco come fare il proprio testamento.
La casa è oggi il coronamento di una carriera..., questo momento in cui si è già vecchi e malandati, preda dei reumatismi e della morte
Così il Le CorbusierSaugnier lancia i suoi concetti di architettura universale, antiregionale.
Molte osservazioni sono profonde e sagge. Indubbiamente ogni casa oggi non può più essere considerata come un sogno personale. Il concetto del sistema, del metodo dovrà per forza imporsi. Non per questo però dovrà divenire uguale in tutto il mondo. Anche questa vantata superiorità dei materiali fissi non è sempre giusta: spesse volte i materiali locali sono più pronti, più facili ad adoperarsi, più economici.
Il problema è di palpitante attualità. Si tratta di risolvere insomma il dibattito tra architettura impersonale, internazionale, fissa, creazione tipica dell’epoca rispondente direttamente ai mutati sistemi tecnici e più ancora ai mutati ordinamenti sociali, e l’architettura ambientale, localizzata, congiunta al passato.
Ma sono poi veramente antitetici i due indirizzi?
È veramente logico parlare di un’architettura matematicamente nuova, scientificamente rispondente ai materiali e agli usi d’oggi, e di un’architettura vecchia non più buona per noi, da relegarsi in soffitta fra i mobili sconquassati e inservibili?
C’è veramente questa distanza, questa separazione netta tra vecchio e nuovo?
Ecco un tema interessantissimo. Noi invitiamo i nostri lettori ad occuparsene e a mandarci le loro osservazioni.
Certe accademie giovano ad eccitare le indagini, le comparazioni; giovano dunque alla cultura.
Il Le Corbusier Saugnier ci offre molti esempi suoi e del ben noto architetto Perret su queste case a serie.
Architettura che potrebbe chiamarsi parallelepipedistica, già tentata del resto dagli Olandesi, da qualche americano e da Joseph Hoffmann (vedi I° numero della “Rivista”, anno I, Il movimento architettonico all’estero). Questi esempi non fanno brutta impressione: sembrano — ma non lo sono — assai meno audaci della teoria. Questo fatto varrebbe a dimostrare, come dicevo prima, che, praticamente, non esiste questa grande antitesi tra il nuovo e Il vecchio, e che si può giungere ad una visione di sana architettura, che non sarà ne nuova nè vecchia, ma semplicemente vera, non per spirito di conciliazione a tutti i costi, ma per logica e naturale valutazione di materiali e di bisogni.

M. P.


WASMUTHS: Monatshefte fùr Baukunst. (Wasmuth A. G. Berlin W. 8).
Si è completata in questi giorni la VI annata di questa recente Rivista, che ha già acquistato tanta notorietà. I sei volumi raccolgono un materiale del più profondo e vario insegnamento. Vi sono trattati gli argomenti più disparati, ma tutti della più viva attualità.
Vi è un bel concorso per un grande Museo di Igiene in Dresda, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Paul Bonatz, Oskar Pusch, Wilhelm Kamper, etc. Progetti di un edificio immenso e monumentale, come si poteva concepire prima della guerra. I tedeschi, i vinti, hanno ripreso già lena, ritornano si grandi concorsi, alle grandi opere!
V’è una diffusa esposizione delle più recenti costruzioni della nuova scuola olandese: un palazzo per uffici e un grandissimo museo all’Aja del noto architetto H. P. Berlage (vedi per questo architetto l’annuario dell’Assoc. Cultori Architettura del 1914), originalissima costruzione a parallepipedi: case per abitazione di J. L. M, Lauweriks, di C. de Bazel del Van t’Hoff, di Margarete Kropholler (una donna), di P. Kramer. Strano, fantastico, sorprendente il gruppo di case costruite da J. F. Staal in Amsterdam. La originalità è tale da far stordire anche Le Corbusier Saugnier. Questo Wohnhauskomplex ha una facciata lunga qualche centinaio di metri e alta 4 piani soltanto. Nessuna decorazione, nessun scomparto: niente zoccoli, niente cornicioni, Tutto l’effetto è affidato alle frequenti rientranze imbutiformi della facciata stessa (create per dar luce alle scale e ai servizi, con eliminazione dei cortili interni) e alle testate arrotondate di queste rientranze stesse, salienti sulla facciata, a foggia di grosse torri. L’insieme ricorda le mura antiche di una grande città.
Ancora più singolare è un altro gruppo di abitazioni dell’arch. J. J. P. Oud. È difficile spiegare questa strana composizione. Mi proverò. Case infinitamente lunghe pure queste, a tre piani, a gradoni, e distaccate una dall’altra, piano per piano. Nello spazio tra due casette contigue ma distaccate tra loro (tre finestre, un solo piano) si eleva più indietro, un’altra casetta uguale alla prima ma con un piano in più. Tra due caselle contigue e distaccate di questa seconda fila se ne eleva un’altra simile, più indietro ancora e con un altro piano ancora. Le coperture delle casette della prima fila costituiscono le terrazzegradoni delle casette della seconda fila, e così via. Ancora egualmente originali le nuove case di M. de Klerk.
Non crediate però, miei lettori, che queste sieno stranezze volute, che rassomiglino ai dolorosi parti dei nostri futuristi. Son tutte costruzioni concepite a fil di logica. Il problema nuovo — casoni immensi con infinito numero dl appartamenti da apparire non noiosi nè insipidi e da offrire tutta la ariosità e giocondità di un villino ad ogni singola abitazione, e più specificatamente, tagliare le facciate a larghe masse corrispondenti ai vari usi interni, alternando grandissime zone piene a zone forate, togliendo ogni differenza gerarchica tra i vari piani — il problema nuovo, dico, è razionalmente risolto con indiscutibile genialità.
Rivedendo i lavori più recenti degli architetti delle altre nazioni, mi vien da pensare che forse questi olandesi sieno più di tutti nel vero. Hanno l’organicità astratta dei francesi, di alcuni americani e della secessione viennese, hanno le arditezze di certi tedeschi (Poeltzig, Margold), ma sono più sani di tutti, e, forse inconsapevolmente, per forza di cose, forse per questa stessa loro sanità, rispecchiano più di ogni altro la loro razza, risentono più di ogni altro del loro passato.
Vi sono ancora alcune città giardino, alcune recenti costruzioni giapponesi, e il grande salone pubblico (per conferenze, concerti, ecc.) costruito da Max Berg in Breslau.
Questo immenso vano, largo ben 95 metri, senza alcun sostegno intermedio, coperto da una serie di costoloni in cemento armato attraverso i quali passa la luce e l’aria, costituisce il più significativo e nitido esempio della nuova architettura del cemento armato. Nulla dl più semplice, nulla di più grande. Ecco l’espressione schietta dell’epoca. Ecco il Pantheon d’oggi.
Si accenna inoltre al nuovo arditissimo tipo di Teatro proposto dallo Strnad (sul quale argomento ci intratteremo quanto prima), e ad alcune decorazioni di interni di Bruno Schneidereit, di F. E. Grimm, di E. Fahrenkamp e di Cesar Klein.
Queste decorazioni, a base plastica e pittoricomurale, sono quanto di più fantastico si possa immaginare. Non fantasia di sogni, ma composizioni indiavolate, pazze. Sembrano nate per virtù della bacchetta di Mefistofele. Angoli e triangoli che ai intrecciano, flore tropicali, fogliami grassi e acuti, danzatrici snodate con atteggiamenti asiatici, mimi stravaganti, pappagalli e animali chimerici. Ma tutto ciò — è bene farlo sapere al nostri duri, duri, duri futuristi — con genialità di trovate e con compostissima armonia, sempre.
L’ultimo volume è completamente dedicato all’ultimo lavoro di Ludovico Hoffmann.
È una casa di cura in Buch, presso Berlino.
Qui nessuna pazzia, nessuna ultraricerca. E’ l’arte serena e tranquilla dell’austero classicista.
Si tratta di un lavoro immenso, cominciato prima della guerra, e terminato ora. Sono più di 40 grandissimi edifici, tutti tra loro riallacciati da giardini, da alberate, da piazze, E un assieme armoniosissimo, equilibrato, serio e gaio insieme.
Riassumiamo. Opere di interesse sommo. Problemi giganteschi, attaccati con coraggio e preparazione formidabili.

MARCELLO PIACENTINI.



Collezione: Il picco/o Cicerone moderno. (Editori Alfieri e Lacroix. MilanoRoma) LUIGI SERRA. Itinerario artistico delle Marche, 1911. AMEDEO MAJURI. Rodi, 1922.
Ecco due grossi volumetti di questa bella collezione che altra volta segnalammo. L’opera del Serra è stata posta sotto gli auspici di quel benemerito “Circolo Marchigiano” di Roma che tanto si adopera per stringere i legami d’affetto fra i cittadini di quella simpatica regione che fronteggia l’Adriatico nostro, e che così forte impulso dà tutte le iniziative che mettono in valore le sue magnificenze artistiche.
Precede una entusiastica presentazione dell’illustre penalista Arturo Vecchini. Dopo di che ha inizio la geniale fatica di Luigi Serra che in poche pagine ha dovuto dar notizia delle opere d’arte di ogni paese. E quante sono e di che importanza! Basterebbero Ancona, Pesaro e Urbino, Ascoli Piceno e Macerata per empire di sè dieci volumi assai più grandi dell’attuale.
La sicura sintesi, l’ammirabile concisione con la quale tutte le opere d’arte sono passate in rassegna, non ci permettono d’indugiarci in particolari senza esorbitare da quello che è il fine dell’opera: porgere una guida itinerario, cioè con carattere indicativo più che descrittivo. Gli studi del Serra, dànno affidamento che tutte queste molteplici indicazioni rappresentano quanto di più scientificamente preciso si possa desiderare.
Il volume del Majuri invece s’estende in utili descrizioni di monumenti e di oggetti, senza peraltro riuscire prolisso, ma riassumendo efficacemente tutti gli studi compiuti dal Gerola e da lui stesso che da anni dirige gli scavi e restauri della mirabile isola mediterranea. Agli architetti interessano sapratutto le poderose costruzioni dei Cavalieri che, intelligentemente liberate e restaurate, sono valida testimonianza di un’arte che prendeva le sue mosse dall’occidente (il gotico franco) e riceveva per così dire un battesimo orientale in vicinanza dei mirabili esemplari islamici e bizantini “Elementi costruttivi peculiari dell’architettura rodiota, spiega il Majuri, sono il largo impiego di volta a crociera per chiese, porticati e ambienti del pianterreno, dell’arco nelle varie sue forme dall’arco tondo a quello ribassato e molto ribassato, il comune uso dei soffitti a travature con o senza mensole di sostegno nei piani superiori, le scale generalmente collocate nei cortili interni degli edifici, le grandi porte ogivali per gl’ingressi principali, le finestre rettangolari o centinate più o meno spaziose e con modanature più o meno riccamente decorate, gli ampi magazzini terreni generalmente a volta in tutti gli edifici civili pubblici e privati adibiti a deposito di mercanzie e di vettovaglie.
Dove peraltro l’arte cavalleresca rodiota manifesta maggiormente il suo peculiare carattere è nel ricco e a volte sfarzoso impiego degli elementi decorativi: per i prospetti architettonici degli edifici; essi sono costituiti da cornici orizzontali svolgentesi sul solo prospetto o lungo tutto il corpo dell’edificio, da ricche modanature che decorano porte e finestre, da mensole, doccioni per lo scolo delle acque e anelli portabandiera, infine dall’impiego diffusissimo di edicole ogivali, combinate, quadrate, spesso riccamente scolpite, destinate a contenere in belle targhe marmoree stemmi, data, iscrizioni e imagini sacre. Questo elegante volumetto, abbastanza bene illustrato, può ritenersi davvero una guida monumentale sicura ed esauriente.

C. C.

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