FASCICOLO V GENNAIO 1923
LIVIO SANTACROCE: Il concorso per tipi di chiesette rurali del Suburbio di Roma, con 40 illustrazioni
Attorno alla città vecchia, al cuore del mondo che serba le memorie sfuggite alla follia demolitrice degli edili contemporanei, pulsa fervida la vita nei nuovi quartieri che di giorno in giorno avanzano i tentacoli verso la desolata campagna. E più in là, candide avanguardie, sorgono e si aggruppano gli umili edifici delle borgate rurali che forse, in un avvenire non lontano, costituiranno i margini della più estesa metropoli. Presto ogni nucleo avrà la sua chiesetta, il suo centro luminoso di convergenza della pietà individuale e collettiva. E si domanderà che sia opera dell’artista riconosciuto, non del manovale capace appena d’erigere il rozzo tabernacolo. Voglia il Cielo che abbiano l’incarico quei professionisti cui l’aridità delle formulazioni tecniche non inceppa gli slanci dell’ideale estetico.
In previsione di tale contingenza e sopratutto per abituare i giovani artisti allo svolgimento di un tema pratico che concilii le esigenze della vita e del carattere di un determinato ambiente con la creazione individuale, l’Associazione fra i Cultori di Architettura bandì un concorso per progetti di chiese e annessi ad uso di parrocchia e di religioso ritrovo, che si presume debbano costruirsi nei centri rurali in formazione della Marranella, Monti di San Paolo, Centocelle (presso la Via Casilina), Tor Sapienza, Pineta Sacchetti. Diciamo subito che il concorso, per numero e per qualità di concorrenti, è ottimamente riuscito. Senza l’allettamento di un premio vistoso che ossessiona e provoca gl’inutili virtuosismi e le grandiosità scenografiche del tutto irrealizzabili, ogni concorrente ha studiato con serenità ed amore il tema ed ha concepito l’opera in piena gioia.
Gli autori del progetto che ha ottenuto i massimi suffragi, gli architetti Mario De Renzi e Romolo Remotti, si sono a lungo addestrati rilevando movimenti di masse e particolari decorativi dalle architetture minori romane del 6 e ‘700 che in ogni momento ci appaiono sotto nuova luce di bellezza.
Forse i due artisti hanno un po’ abusato di questi elementi savraccaricandone la parte culminale della facciata, contorcendo troppo la cartella sulla porta grande, sovrabbondando in contrafforti nei fianchi, ma questo amore eccessivo del particolare non ha offeso la solida, organica concezione dell’insieme. Se agli artisti fosse lecito dar consigli, io direi loro, quando si apprestassero a costruire, di fare un coraggioso sfrondamento di tutti gli attributi esorbitanti, come ad esempio quei vasi sopra il muro di cinta della canonica, gli obelischi in tre pezzi cuciti che stanno sul coronamento della fronte, gli stemmi del portale interno, e sopratutto quelle due orride colonne ai lati dell’altare create in un momento di pigrizia intellettuale.
Più sobrio è il Mancini (2° premio) che ha ideato la chiesa dal corpo ottagonale, non ignota all’ambiente romano. Una innovazione felice è nel campanile a vela che conchiude in alto la fronte, fiancheggiato da candelabri simili a quelli di S. Domenico e Sisto. Un particolare sgradevole è nel recinto della canonica con quei vani ad inferriate che gli dànno l’aspetto di un muro di camposanto. Ed anche non è peregrino il sottopassaggio che ripete vieti medievalismi alla Coppedè. Ma ove si tolgano questi frutti di giovanili entusiasmi, ove si corregga la distribuzione interna dei fabbricati annessi, si vedrà che il progetto del Mancini è cosi solido ed espressivo da meritare grande considerazione.
Il Marchi (che ha diviso col Mancini gli onori del secondo premio) ha presentato due progetti. Del secondo, con quella specie di serbatoio centrale cui è addossato il portico (una stranezza di dubbio gusto), è meglio non discorrere.
Il primo invece ha notevoli pregi d’originalità. Piace quel movimento di curve che stagliano il contorno della facciata e che ben si fondono con la copertura del portale. Ma un po’ vi contrasta la rigidezza del tiburio lombardo ed anche tutti gli altri movimenti di masse murarie non pare ne seguano il ritmo. Indubbiamente si rileva nel Marchi una fertile immaginazione, una grande padronanza nel trattare elementi di vario stile, ma sono sicuro che egli, in un ulteriore processo di chiarificazione, rinuncierebbe a tutto ciò che appare come puro lenocinio disegnativo.
Il terzo premio è stato vinto a parità di merito dallo Jacobucci, da Bianca Minardi e dai consociati WittinchCiarrocchi.
Il progetto Jacobucci che innesta un ottagono quasi battesimale al fronte severo, tutto pietre concie, di una basilica con nartece esterno aperto dal triplice arco del portico d’ispirazione pomposiana e con lo svelto adergersi di una torre campanaria, merita lode ampia per la buona rielaborazione stilistica. La Minardi concepisce una chiesa semplicissima. veramente adatta per una borgata rurale poichè senza dubbio è tratto dalla fresca arte paesana quel grande campanile a vela poliforato che ben si accompagna al portico. La copertura quadrata del presbiterio si direbbe un ricordo del progetto Marchi numero 2.
Il progetto Wittinch Ciarrocchi è una buona rievocazione del barocco settecentesco romano. Se pure non convincono le pilastrate dei fianchi che sino a metà dell’altezza salgono in forma di rozzi massi, è pur simpatica la teoria dei finestroni che equilibrano la gaiezza delle conchiglie alla base con la severità della forte bugna in chiave.
Un diploma d’incoraggiamento è stato attribuito a parità di merito al Lombardini, alla Nera Minardi ed al Vetriani. Il Lombardini ha ripetuto il tipico esempio della chiesa medievale di cui rimane sfogato il portico mentre tutto il resto è oppresso dalle murature lisce con pochi e tenebrosi pertugi. Forte amore di semplicità, ma quanto freddo! La Nera Minardi invece si direbbe che abbia preso il portico del progetto Marchi n. 2, ed indi tramutato l’ampia facciata con campanile della sorella Bianca in una grande fronte di laterizio transfossa da due vani per campane che sembrano inutili dal momento che li presso c’è il vero campanile.
Nudo, semplicissimo, schiettamente paesano è il tipo ideato dal Vetriani che spregia ornamenti all’infuori di due bassorilievi barbarici, di un bugnato nella zona basamentale e di qualche rustico movimento di muro. Umiltà francescana che ci conquide se pure debba riferirsi più ad un paese montano che a una borgata nelle adiacenze immediate di Roma.
Se lo spazio non lo vietasse vorremmo accennare anche a progetti non premiati, poichè tutti i concorrenti si accinsero alla prova con vero impegno. In ogni modo l’esame dei prescelti è sufficiente a dimostrare l’elevatezza d’ispirazione e di criteri artistici che informa questa giovane scuola d’architetti perfettamente consapevole del proprio valore e dei propri diletti. Ed io posso dire d’avere inteso molti atti di contrizione e molti seri propositi di miglioramento in persone che avrebbero potuto a ragione gloriarsi di ciò che avevan già raggiunto. Simile modestia non ostentata in tempo di folle arrivismo, è un sintomo confortante poichè ci fa ritenere che, compiutasi la naturale evoluzione, si avranno domani autentiche individualità artistiche, sempre che anzitempo non vengano soffocate dalla sciatteria della produzione industriale.


LIVIO SANTACROCE.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna all'articolo