FASCICOLO I SETTEMBRE 1923
GUIDO CALZA: Le origini latine dell'abitazione moderna (I)
Un senso di sorpresa e fors’anche di incredulità susciteranno le ricostruzioni di case ostiensi dovute all’arch. Gismondi degli scavi di Ostia e all’arch. Lawrence, alunno della British School of Rome, perchè esse, basate su nuovi dati di fatto tratti dalle rovine esistenti, dànno nuovi e insospettati tipi di abitazioni.
Le case ostiensi sono - c'è bisogno di insistervi? - case romane. Non si può neppur lontanamente supporre che Ostia, emporio commerciale della repubblica e dell’impero, vissuta dunque della stessa vita di Roma e in continuo contatto con questa per la brevità della distanza e per la frequenza dei rapporti, abitata da una popolazione varia per ricchezza, per razza, per gradi sociali quanto varia era la popolazione romana, abbia per sè creato o copiato, adottandolo su vasta scala, un tipo di casa che Roma non conoscesse e non usasse.
L’abitazione ostiense è dunque l’abitazione della borghesia e del popolo di Roma. Se hanno bisogno di usarla i sessantamila abitanti di Ostia, non può farne a meno la capitale del mondo antico che, nell’Impero, supera il milione. È infatti appunto il tipo della casa ostiense che permette su poco spazio un vasto agglomeramento di abitanti; è soltanto la casa ostiense che può raggiungere i sedici e diciotto metri di altezza consentiti dalle leggi romane; e soltanto sulla casa ostiense che noi possiamo rianimare la vita dell’antico inquilino quale ci viene tratteggiata dai satirici latini.
Se noi vogliamo dunque dare delle testimonianze archeologiche ai passi del Digesto e di poeti come Marziale e Giovenale e in genere di tutti gli scrittori che ci parlano delle case d’affitto, noi ci accorgiamo che la casa romana che tutti abbiamo ricercato, studiato ed esemplificato sulle rovine di Pompei, non s’accorda con quei dati letterarii. Essa è un tipo di eccezione, Non che la casa pompeiana non sia mai stata e non abbia continuato ad essere per molti secoli la domus romana per eccellenza; ma per le sue stesse caratteristiche tettoniche non potè essere adottata per un abitato vario ed esteso quanto fu l’abitato di Roma imperiale e di altre città, come Ostia, che addensano entro un breve circuito di mura, folta popolazione varia di ceto e di ricchezza.
Tutti sanno i principii a cui piuttosto rigidamente s’informa la casa pompeiana e che possono ridursi a tre: sviluppo orizzontale, illuminazione interna, fissità tettonica dei vari ambienti. Intendo dire che:
lo sviluppo del tipo pompeiano è essenzialmente nella pianta e non nell’alzato essendo gli ambienti superiori limitati al primo piano e non mai sopra tutta la superficie del piano tetra; che l’illuminazione è data quasi esclusivamente dall’atrio cioè da un pozzo di luce più o meno scoperto cosicchè le finestre in facciata, quasi sempre foggiate a feritoia, sono una eccezione; e infine che le singole parti della domus vestibulum fauces alae, tablinum, triclinium, oecus, cubicula, peristylium, ecc,, sono tettonicamente e architettonicamente stabilite disposte e congiunte in modo che l’inquilino non può variarne nè la disposizione nè l’uso.
Nè si può dire che i nuovi esemplari di case pompeiane venuti in luce in questi ultimi anni, modifichino sostanzialmente queste caratteristiche, a tutti note come fondamentali della casa romana. Perchè, se gli scavi condotti da Vittorio Spinazzola con sagace intuito e con ottimo metodo vanno davvero rivelando una nuova Pompei, nella quale con cura scrupolosa e con appropriatissimi mezzi tecnici ogni elemento caduto e disperso torna a riassumere la sua funzione originaria, la casa pompeiana e però rimasta, anche dopo questi scavi, sostanzialmente la stessa. Una casa, cioè, che cerca di adattarsi alle poche esigenze dei pompeiani con qualche miglioramento apportato al tipo fondamentale: come, ad esempio, l’uso di qualche balconcino e di qualche apertura in facciata e anche la creazione di alcuni ambienti superiori limitati al prospetto della casa, Ma nulla più che questo. E poichè, appunto per la maggiore accuratezza dello scavo pompeiano odierno perfino le tegole dei tetti tornano alloro posto, nessuno può ormai dubitare che Pompei riveli un unico tipo di abitazione totalmente estraneo nell’insieme e nei dettagli al tipo ostiense che rimane quindi senza raffronti nella cerchia pompeiana.
Sono dunque le nuove case di Pompei che non consentendo più dubbi sulla compiutezza del loro organismo tipico, rimettono esclusivamente alle case ostiensi la dimostrazione del tipo opposto di cui annunciano soltanto la necessità.
Il tipo ostiense è infatti caratterizzato, come le nostre abitazioni moderne, dallo sviluppo verticale e cioè dalla sovrapposizione di più piani su tutta l’area del caseggiato; dall’illuminazione esterna per mezzo di facciate su strade e su cortili interni aperti, e infine, dalla totale assenza di caratteristiche struttive dei vari ambienti nei singoli appartamenti in modo che l’inquilino può ricevere, mangiare, dormire, nell’uno o nell’altro degli ambienti del suo appartamento, variare insomma l’uso delle stanze secondo la sua volontà, non obligato da costrizioni di pianta e di tettonica.
Ma l’importanza delle costruzioni ostiensi non sta soltanto nella rivelazione di un tipo di abitazione romana che già contiene i capisaldi della nostra moderna, ma nel presentarci motivi architettonici che ignorati o mal noti fino ad oggi, noi ritenevamo prodotti dell’architettura posteriore.
Gli esemplari ostiensi qui raccolti e descritti documentano le origini latine dell’abitazione moderna e aprono un interessante capitolo dell’architettura privata romana.

Altezza dette case. - La conservazione del primo e secondo piano quasi generale nelle rovine di Ostia e l’esistenza di alcuni gradini che conducono al secondo piano, attestano con certezza l’esistenza per le case ostiensi di un piano terra e di due piani superiori.
Ma poichè con questi si raggiunge soltanto un’altezza da 10 a 12 metri, dobbiamo noi supporre che le case ostiensi finissero con il tetto o con la terrazza del secondo piano? Dati letterarii e archeologici provano invece il contrario. Abbiamo infatti disposizioni legislative nel diritto romano che limitano l’altezza degli edifici privati a circa 18 metri (1) i quali limiti non possono raggiungersi che con una sovrapposizione di 3 piani oltre il pianterreno. Di più le espressioni, che possono si considerarsi esagerate ma che non possono interamente rifiutarsi, di autori antichi i quali parlano di straordinaria altezza delle case romane; onde per esempio la commiserazione per il povero cliente che deve salire 200 scalini per arrivare nella sua stanza d’affitto, e l’espressione di Cicerone che caratterizza Roma caenaculis suspensa atque sublata cioè sospesa e sollevata dai suoi piani di case, in contrapposto a Capua città pianeggiante e con abitazioni basse. Cosicchè acquistano un valore maggiore le testimonianze archeologiche ostiensi, come lo spessore dei muri che mantengono la stessa larghezza (cm. 60) dalle fondamenta all’innesto del all’inizio del secondo piano, che ne attesta senz’altro secondo piano; l’abbondantissimo cumulo delle macerie cadute sopra la linea del crollo cioè un terzo e un quarto; l’estetica stessa dei caseggiati che limitati tuffi a due soli piani risulterebbero bassi e tozzi; la larghezza delle strade non dovuta soltanto a ragioni di viabilità facile, ma anche a necessità edilizie; e infine il non esservi nessun ostacolo e invece tutto il vantaggio a costruire tre o quattro piani superiori anzichè due, in case di affitto destinate a speculazione privata e a raccogliere quindi il maggior numero di affittuari. Cosicchè si può esser certi che molte delle case di Ostia e moltissime delle case di Roma raggiunsero i limiti di 16 e 18 m., e le ricostruzioni presentate dagli architetti Gismondi e Lawrence sono quanto all’elevazione forse inferiori certo non superiori alla realtà.
Tetti dette case. - Un altro elemento che deve essere subito chiarito è quello della copertura di queste case: se esse avessero cioè tetto o terrazza.
I dati letterarii sono su questo particolare assai scarsi, Però l’esistenza di .solaria = terrazze sulle case e sui portici, è certamente provata. Qualche dipinto, come ad es., quello della casa di Livia sul Palatino, ci offre una veduta di strada con case a terrazza. Ma probabilmente le terrazze non si estendevano su tutta l’area del caseggiato. come spesso accade ora nelle nostre case, ma si limitavano ad una parte di esse. Più verisimile è quindi il supporre anche per le abitazioni di tipo ostiense, l’uso più generale di una copertura a tetto così come è generalmente raffigurato l’abitato di città antiche su rilievi e dipinti.
Ugualmente scarsi sono a questo proposito i dati tratti dallo scavo, perchè, pur essendo assai considerevole in Ostia il cumulo delle macerie del crollo, è ben ovvio che durante il lento abbandono e il lento disgregarsi della città i primi a scomparire siano stati i materiali delle coperture. E del resto, poichè in più punti è evidente la violenta esportazione perfino della cortina laterizia della muratura, è facile immaginare che quando Ostia non era del tutto crollata si siano portati via, per utilizzarle altrove, le tegole dei tetti che negli scavi fatti costituirono un ritrovamento sporadico ed eccezionale. Nè lo scavo può suggerirci nulla qualora ci siano state terrazze probabilmente rivestite di cocciopesto, perchè nessun elemento potrebbe esser rimasto a provarlo.
Che la copertura sia stata interrotta il Ruskin direbbe esteticamente animata - da cappe o comignoli per l’emissione del fumo, e accertato da trovamenti di tegole con un foro circolare nel centro di circa cm. 20 di diametro con bordo rialzato. Constatiamo però che il fumo di queste case non ha lasciato alcuna traccia di sè: non nelle murature che non hanno alcuna canalizzazione per esso, non nelle pareti interne ed esterne che non conservano annerimenti di sorta.
STRUTTURA ED ESTETICA DELLE FACCIATE. Le costruzioni private ostiensi sono tutte in cortina laterizia, sostituita talvolta negli interni e nelle facciate secondarie da opera reticolata con legamenti a mattoni. Mentre internamente riscontriamo abbondanti traccie di intonaco, su queste fronti in laterizio non ce n’è mai traccia e tutto prova che, almeno nella grandissima maggioranza, gli edifici non dovevano essere intonacati. Del resto, anche a Roma, l’emiciclo del Foro di Traiano, non è intonacato sulla facciata, ma soltanto nelle calotte delle nicchie e gli intradossi degli archi. Anzitutto gli ingressi delle case sono contraddistinti da lesene o colonne in cotto sorreggenti un frontespizio triangolare con una cortina cosi accurata a mattoni arrotati che non può pensarsi sia stata ricoperta da intonaco (fig. 3, 4). Nè intonacati erano certo i listelli di mattone che talvolta rilevano ed accentuano, unica e semplice decorazione la sagoma delle porte e delle finestre. Ma c’è di più: in moltissimi archi delle porte e delle finestre di facciata sia interna che esterna sono rimaste evidentissime traccie di color rosso minio sicchè bisogna ritenere che questi archi fossero dipinti, e poichè la cortina delle parti piene è in mattone talvolta giallo talvolta rosso marrone, è evidente la semplice e sobria policromia di queste facciate ottenuta col materiale stesso della costruzione, lasciando a cortina viva i pieni e rubricando gli archi e gli aggetti della muratura (listelli, lesene, colonne, frontespizi, ecc.).
In conclusione ci sono due tipi di policromia: una ottenuta con la rubricazione (esempi, la casa di Diana (fig. 9) e gli Horrea Epagathiana, ecc.); l’altra invece usando materiali di differente colore e di differente natura, come ad esempio il portico di via della Fortuna (fig. 21) che ha il fregio eseguito con mattoni gialli mentre il resto è in mattone scuro, oppure alternando al mattone alcune sagome in travertino (di cui oltre a molti esempi ostiensi va ricordato quello dell’emiciclo del Foro di Traiano) e anche incrostazioni in pomice (fig. 6, 10, 11), Un’altra forma di decorazione fu riscontrata in un frammento di balcone del tipo dei balconi di casa di Diana, in cui erano incastonate nel guscio intonacato due fondi di ciotole color rosso che ci fanno ricordare le decorazioni a pietre colorate dei campanili romanici. Mentre fino adesso l’esempio più antico di simili decorazioni si è creduto fosse la Torre di S. Apollinare Nuovo, a. 850878. (Rivoira, Arch. Lombarda, pag. 49, fig. 52).
L’usanza così diffusa di questa cortina laterizia che vien ravvivata da qualche tono di colore e dalla decorazione in cotto e cosa assolutamente nuova nell’architettura romana: Ostia ci ricorda piuttosto qualche città della rinascenza come Ferrara, con in più un sobrio impiego di policromia.
Elevati su più piani i caseggiati ostiensi contengono uno o più corpi di abitazioni contraddistinti dal numero delle porte d’ingresso e delle scale che vi danno accesso. Così, ad esempio, il caseggiato dei dipinti (fig. 12,13, 14, 15, 16) si compone di tre gruppi di abitazioni delle quali una d’angolo ha facciata su due strade. Tre scale, cioè una scala per ogni gruppo di appartamenti, servono a salire ai piani superiori, e un passaggio coperto riunisce con la strada il cortile giardino della facciata posteriore.
A tre tipi principali possono ridursi le facciate esterne delle case ostiensi: tipo a finestre, quando cioè la casa abbia anche al piano terra appartamenti (fig. 12, 13, 22) il tipo a portici, cioè case con porticati e botteghe che si aprono sotto di esso e appartamenti superiori (fig. 1, 2); infine il tipo a botteghe con appartamenti superiori (fig. 7, 9, 17).
Esamino ora partitamente i singoli elementi della facciata.
Finestre. - Essendo esse in questo tipo di casa un elemento fondamentale della costruzione la quale, al contrario della domus, e sotto il dominio delle facciate, il numero e la distribuzione delle finestre è in accordo con il numero e la distribuzione degli ambienti a cui danno luce (fig. 8, 12, 17). Di forma rettangolare e di misura normale, esse sono disposte sopra ciascun piano con una simmetria non rigidissima ma tale però da formare una linea non interrotta di aperture presso a poco uguali tra loro. In qualche casa (fig. 12,15) la parete di un ambiente a doppia altezza che comprende cioè anche il primo piano (metri 6) è divisa in sei finestre - tre sopra e tre sotto - legate in una trifora. In qualche stanza che prospetta su facciate interne, la finestra assume proporzioni maggiori. Piccole finestre sono quelle dell’ammezzato delle botteghe o quelle che servono a dar luce alle rampe delle scale.
Traccie evidenti conservate negli intonachi interni permettono di stabilire che i vani di queste finestre erano foderati da cassettoni in legno ai quali erano applicate le chiusure con protezione di lastre di selenite di cui parecchi avanzi furono rinvenuti negli scavi. Le finestre hanno poi un arco di mattoni a monta molto depressa e lo spazio compreso tra il sesto dell’arco e la sua corda è occupato da muratura ottenendo cosi la linea orizzontale (fig. 18).
Il davanzale delle finestre è alto circa due metri negli ambienti a piano terra sulla strada; cosicchè non si può affacciarvisi dall’interno nè guardar dentro dall’esterno, (fig. 18). Di altezza normale sono invece i davanzali delle finestre, sempre molto larghi, dei piani superiori (fig. 8).
In un solo caso questa regola suggerita da ovvie ragioni di sicurezza e dal carattere della vita casalinga antica non dissimile, del resto, dalla nostra, subisce eccezioni; quando cioè come nella casa dei dipinti il piano terra di una delle facciate non era vÔlto su strada; allora (fig. 15, 17) il davanzale basso dava possibilità di star seduti accanto alla finestra partecipando alla vita esteriore di questa area privata tenuta a giardino, in modo che l’affittuario pur restando nella sua stanza godeva dell’esterno quanto il ricco signore godeva del peristilio nella più ricca abitazione di tipo pompeiano. In sostanza per ciò che riguarda le finestre il caseggiato ostiense ci appare nell’aspetto esteriore in tutto simile alle più comuni e semplici facciate degli odierni casamenti.
Balconi. - Un elemento introdotto sia a variare la monotonia delle facciate a sole finestre, sia ad utile sbocco degli appartamenti, è quello dei balconi che Ostia rivela ormai per la maggior parte del suo abitato.
L’esistenza di balconi - peruda, maeniana - era letterariamente nota per le case romane ma archeologicamente conosciuta soltanto per la presenza di qualche balconcino a Pompei. Ostia ne ha rivelato fino ad oggi tre tipi. Il più semplice è appunto quello pompeiano, in legno, formato da un piano di travi orizzontali distanti circa un metro uno dall’altro, incastrati nella muratura e sostenenti un semplice impalcato di legno di questi rimangono ad Ostia soltanto gli incastri nel muro (casa in via di Diana). Una seconda forma è data da una serie continua di volte a botte sostenute da grandi mensole di travertino incastrate fortemente nel muro in corrispondenza dei muri trasversali. Serve di coronamento una semplice cornice di mattoni, sporgenti circa cm. 20; il parapetto, di cui non rimangono traccie, poteva forse essere in muratura; il piancito è formato da un piano di tegoloni bipedali rivestiti di cocciopisto. I due esempi che rimangono in via della Fortuna e in via di Diana (fig. 21) e nella Via Nova alle pendici del Palatino verso il Foro (fig. 20) e quello più su sul Clivus Victoriae permettono di supporne fatto largo uso in Ostia anche nei piani superiori, cosicchè appaiono nella ricostruzione del Gismondi e non in quella del Lawrence. Certo, la foggia di questi balconi preannuncia forme e motivi dell’architettura più tarda.
Un terzo tipo ha la forma di un grande guscio con la linea d’imposta orizzontale e le generatrici dell’intradosso parallele a questa linea. Quando la linea d’imposta taglia a metà l’apertura di un vano, allora il guscio viene lunettato per sviluppare liberamente il motivo delle finestre (fig. 8, 9). Il coronamento di questo terrazzo è costituito da una cornice di mattoni e il piancito è in cocciopisto; il frontalino del gocciolatoio è formato da piattabande con le imposte in corrispondenza del piedritto del guscio, oppure il frontalino ha la forma di una gola dritta. Non rimane alcuna traccia del parapetto.
Non occorre far osservare che nell’architettura romana non si era mai data una esemplificazione così completa dei vani tipi di balconi, che almeno negli esempi conservati non sono limitati ad un solo o a un dato gruppo di ambienti ma formano invece un terrazzo continuo sulle facciate della casa. Data poi la grande abbondanza di questi balconi nelle case ostiensi, è naturale supporre che le case con portici avessero, al di sopra di questi, dei terrazzi in forma di loggiati sostenuti da pilastri o da colonne come li ha immaginati il Gismondi (fig. 1).
Questi balconi dovevano nella maggior parte dei casi sostituire i portici in quelle strade che erano troppo strette per avere portici sui due lati della strada stessa.

(Continua).

GUIDO CALZA.

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