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G. QUIRINO GIGLIOLI: La tomba di L. Munazio Planco a Gaeta, con 16 illustrazioni |
Nel meraviglioso canto dell'Inferno, nel quale Dante, creata una nuova leggenda dell'ultimo viaggio di Ulisse, celebra la brama del genere umano di conoscere per propria esperienza il mondo, e esorta l'Uomo a sollevarsi dalla vita dei bruti per seguire virtute e conoscenza, è ricordata Gaeta, presso il favoloso regno di Circe, dove Ulisse rimase più d'un anno prigioniero delle passioni. Gaeta, dice il Poeta, non era stata ancora così nominata da Enea: egli infatti leggeva nel settimo libro dell'Eneide il ricordo di quest'altra tappa nel fatal volo dell'aquila da Ilion ai lidi del Tevere, e sapeva che, come Palinuro e Miseno avevano di loro denominato i capi più a mezzogiorno, con un nome che avrebbe oltrepassato i secoli, così la nutrice di Enea aveva lasciato il suo a quest'altra penisoletta che si protende nell'azzurro Tirreno. Leggende tutte; ma che danno un soave profumo di semplicità agli albori della grande storia d'Italia. E ricca di leggende è tutta la bella costa del Latium novum in cui sorge Gaeta; ma non è questo il luogo di ricordarle, come non è il caso di ricordare le illustri vicende della piccola città, il cui doge Giovanni, nel 915 capitanava la spedizione che cacciò dalla foce del Garigliano i Saraceni, annidatisi nel cuore d'Italia; di Gaeta, la cui civiltà, nei secoli bui intorno al Mille, fu faro di luce nelle tenebre del medioevo e che poi, divenuta fortezza principale del regno Napoletano, si arricchì di secolo in secolo di monumenti, segnando con gli assedî suoi memorandi, il suo nome in cento pagine della storia italiana.
Voglio solo rammentare che, nei tempi antichi, Gaeta non esisteva come città autonoma; ma era parte del territorio della vicina Formiae e che ebbe principio solo nel secolo IX, quando i Saraceni, distrussero Formiae e il Vescovo e il popolo formiano trovarono rifugio in quella penisoletta naturalmente forte, creando la nuova città. Al principio della nostra era invece il territorio di Gaeta, celebre per il gran porto naturale, era coperto di ville di ricchi Romani. Tra questi fu Lucio Munazio Planco, il quale, in cima al colle che costituisce la parte più importante della penisoletta, volle erigersi una tomba monumentale. Planco è un nome che impariamo a conoscere dalla scuola nelle opere di Cicerone e di Orazio e questo basterebbe a destare il nostro interesse per il suo sepolcro, che sorge sull'altura, alta solo 168 metri, ma che sembra esserlo molto di più, innalzandosi solenne sul mare. Dalla sua vetta è dato godere uno dei più superbi panorami d'Italia, perchè lo sguardo spazia dal Circeo a Capo Miseno. Ma anche a prescindere da tutto ciò, la tomba di Planco merita tutta la nostra attenzione, essendo uno dei monumenti più cospicui del mondo antico, giunto pressochè intatto fino a noi, con l'epigrafe del superbo suo edificatore ancora a posto. Eppure esso è, si può dire, sconosciuto, più che per la posizione eccentrica di Gaeta, per il fatto che la città era ed è tuttora piazzaforte e il monumento è situato proprio nel mezzo delle fortificazioni, Anzi ora è usato come semaforo della R. Marina, uso che, se ha portato alla costruzione di un'antiestetica sopraelevazione, non ha peraltro intaccato sensibilmente la sua colossale struttura. Mentre quindi si trova, come vedremo, menzionato e rappresentato in antiche opere, è ignorato dalla moderna scienza archeologica tanto che il Rivoira, per esempio, nella sua Architettura romana, testè pubblicata, non lo nomina neppure e, parlandone, si ha quindi quasi la coscienza di fare una scoperta. Pur non potendo ora scrivere su questo monumento quella monografia che sarebbe opportuna, credo far cosa gradita ai lettori della rivista, comunicando le notizie che di esso ho raccolto negli antichi scrittori e gli appunti da me presi sul luogo, quando potei accuratamente visitarlo alcuni anni fa. Ricordato per l'epigrafe sin da Ciriaco d'Ancona, fu disegnato da Giuliano da Sangallo e da Baldassare Peruzzi, ne parlarono gli storici napoletani e gaetani; ma il cenno più importante sull'argomento è quello del De Boissieu (1) nella sua opera sulle iscrizioni di Lione, uscita alla metà del secolo scorso; ma anch'essa per la sua speciale natura provinciale, rimasta quasi ignorata tra noi. Il De Boissieu, nella breve monografia del fondatore della sua città, parla della sua tomba, della quale dà una pianta e riporta le misure che per lui prese un capitano Brunner del 2° reggimento svizzero delle Guardie napoletane, allora di guarnigione a Gaeta. Le misure da lui date in palmi napoletani furono da me ridotte al sistema decimale e controllate con quelle da me prese personalmente sul monumento, prima di conoscere l'opera del De Boissieu, e poi col rilievo ufficiale fatto nel 1885. Mi risultano in massima abbastanza esatte; esattissimo è l'insieme della pianta. L'ho presa quindi per base nel tracciare quella che pubblico dopo averla a sua volta controllata con quella fatta al momento della cessione del monumento al Ministero della Marina, avvertendo che naturalmente, per un elementare dovere di riservatezza, non ho rilevato tutto ciò che si riferisce ai moderno semaforo. La grande costruzione è di forma perfettamente circolare. Posa sulla roccia della sommità del monte e ha un'altezza di m. 13,20, dal piano di posa al cornicione compreso. Su esso sono le tracce dell'attico di circa m. 0,75. La circonferenza esterna è di m. 92,68 e il diametro, per conseguenza, di m. 29,50. Il monumento consta di un grosso muro perimetrale, di m. 2,68, rivestito esternamente di travertino e, dalla parte interna, di un perfetto opus reticulatum. Di tale opus reticulatum sono anche rivestite tutte le altre costruzioni nell'interno del mausoleo. Si entra per una porta, alta m. 2,25, larga m. 1,25, incorniciata da una mostra riccamente modinata e situata sopra lo zoccolo. Vi si giunge perciò per una scala di pochi gradini. L'andito, ha le pareti leggermente divergenti, superiormente e a volta, e sbocca in un corridoio circolare che gira tutt'intorno alla mole. Tale corridoio e alto ben 9 metri, coperto da una volta grezza e in alto, all'impostatura della volta, presenta nicchiette rettangolari (a cominciare da una sopra la porta d'entrata) in numero di otto, distanti tra loro di 45°. A destra dell'entrata, appoggiata al muro perimetrale, fu, in tempi evidentemente medioevali, costruita una scaletta, larga un metro, per accedere alla terrazza superiore, per uso dei soldati di guardia. Ne parla il Gesualdo alla metà del secolo XVIII(2) e esisteva ancora nel 1885; ora ne resta l'arco del pianerottolo superiore, ormai inaccessibile. Dopo la demolizione si è potuto constatare che la scala era stata semplicemente appoggiata al reticolato, senza danneggiarlo in nessun punto. Internamente è il nucleo del monumento, nel quale si aprono le celle disposte a croce, come si vede dalla pianta. Devo però notare che soltanto quelle indicate con le lettere C1 e C2 sono accessibili, vuote e perfettamente conservate, e furono da me visitate. In quella davanti alla porta, che doveva essere la principale, fu costruita la moderna scala del semaforo, che ne ha totalmente mascherato l'aspetto. Al tempo del Brunner e ancora nel 1885 era intatta (3). La quarta cella (C3) è una cisterna. Non ho potuto ispezionarne l'interno; ma dalle piante antiche e dalle presenti governative, sembra sicuro sia perfettamente uguale alle altre, con le sole modificazioni, specialmente alla porta, per poter contenere l'acqua. Questo uso di cisterna già esisteva al tempo del Gesualdo, che ne parla però in modo assai confuso. Infatti egli, dopo aver affermato che il monumento ha tre "cappelle ", come le chiama lui, e non quattro, come aveva scritto il Pratilli (4), soggiunge: «e fuori del luogo che occupano le dette cappelle, l'altro vacuo consiste in una gran cisterna »; quindi, pur ritenendo che tutto fa credere essere la cisterna nient'altro che una cella adattata a quell'uso, non posso non lasciare ancora indecisa la cosa. Le misure della cella C1 sono: profondità m. 4,37; larghezza m. 3,60; l'altezza fino al sommo della volta grezza che la ricopre è di 10 metri. In fondo si apre un nicchione rettangolare di m. 2,70 di lunghezza, in modo da lasciare da ogni parte uno spigolo di m. 0,45. È profondo m. 1,03 e alto m. 3,80. Nella cella si entra dal corridoio per un andito di metri 1,68, alto m. 2,47: la porta è larga m. 1. Lì il reticulatum è limitato, come d'uso, da pilastri di mattoni. Sopra la porta è, tanto esternamente che internamente, un architrave di un sol pezzo, su cui è una piattabanda di mattoni con un arco di scarico, pure in mattoni. La mostra è di pietra lavorata e in alcuni punti splendidamente conservata. Sulla soglia è un gradino alto m. 0,23 dal quale poi si discende nel piano della cella che viene ad essere lo stesso del corridoio circolare. In alto si notano due incavi per i cardini delle imposte: essi sfuggirono al Gesualdo che afferma mancarvi qualsiasi segno dell'esistenza di porte. Identica è la pianta della cella C2, della quale dà anche la sezione. Trattasi di ampie camere sepolcrali, di dimensioni sostanzialmente identiche, che dovettero conservare le ceneri del munifico costruttore e della sua famiglia. Come sia costruito il nucleo, non mi è riuscito di vedere, è verosimile non si scosti dall'uso di farlo in opera a sacco di schegge di roccia locale conglobate dalla calce con i resti della lavorazione del travertino del rivestimento esterno. Non saprei dire se sia compatto, come si trova generalmente in simili costruzioni e come assicurano sul luogo, oppure se vi siano intercapedini vuote. Il dubbio sorge perché il caso esiste in altri mausolei, come in quello detto 'l'Atratina' presso Gaeta, del quale ho in corso un'illustrazione e perché il Gaetani d'Aragona (5) nel parlare della tomba di Planco dice: "internamente è un circolo formante quattro camere, divise da un muro a croce ". Ma l'opera del Gaetani è troppo spesso inesatta per dare soverchio peso alla sua osservazione, che potrebbe essere solo una sua ipotesi, sull'esempio appunto dell'Atratina a lui ben nota. Ne nelle celle, ne nel corridoio c'è traccia di pavimento, come pure nessun indizio dell'esistenza di intonachi, affreschi, mosaici. Come perciò non ricordo neppure le discussioni sull'uso del monumento, creduto da alcuni tempio e perfino terme e le leggende degli oracoli che ci si dovevano rendere; così non mi fermo su quanto dice il Grutero (6) e ripeterono altri, che le celle fossero un tempo ricoperte di marmi splendidissimi e lucidissimi, che riflettevano la luce. Già il vecchio studioso adoperava in realtà il tempo passato e nulla ci autorizza a credere vere le sue mirabolanti affermazioni. Non meno notevole è l'esterno che si presenta interamente rivestito di travertino ed è intatto. In basso è uno zoccolo, di cui dà uno schizzo del profilo, che forma la base, su cui si innalza la mole: la sua altezza è quindi varia secondo il terreno e raggiunge circa m. 2 davanti alla porta. Ho già notato che su esso si apre la porta e che il piano dell'interno è quindi sopra lo zoccolo stesso. La mole cilindrica è rivestita di grandi conci rettangolari disposti a file regolarmente sovrapposte. Termina in alto con un fregio dorico, in cui ai triglifi sono alternate metope, adorna ciascuna di un bassorilievo con simboli guerreschi (corazze, trofei, scudi, elmi, schinieri, ecc.). Sovrasta il cornicione, aggettante circa mezzo metro, benissimo conservato sul lato settentrionale, dov'è la porta, in gran parte mancante dalla parte opposta. Superiormente doveva finire con una merlatura. Ciò fu già notato dal Grutero e, benchè altri scrittori lo neghino, mi sembra sicuro. Si distingue infatti anche presentemente e più ancora si distingueva prima che sul mausoleo fosse situato il semaforo. Ciò suggerì evidentemente l'idea al restauro di Giuliano da Sangallo (7) nel disegno del codice vaticano Barberini, pubblicato da Ch. Hülsen. Il celebre architetto fiorentino dovette visitate il monumento nel suo viaggio a Napoli del 1488-89, e ne schizzò certo la pianta e l'alzata; ma nel codice c'è solo una ricostruzione fatta sugli appunti presi. Infatti vediamo che sui resti della merlatura mette statue e aggiunge arbitrariamente in cima una copertura a cupola, terminante in una base rotonda con sopra un fantastico gruppo, leggermente tracciato nel disegno, di una figura muliebre nuda tra due amorini, preso da qualche antico sarcofago. Prova che il disegno fu fatto posteriormente alla visita al monumento originale, è che l'epigrafe è trascritta da qualche silloge (8). Così nella pianta, esatta nel corridoio circolare interno e nella posizione delle celle, sono aggiunte quattro scalette negli spazi intermedi, che non sono mai esistite. Giuliano da Sangallo, che prendeva appunti per ispirarsene nelle sue superbe creazioni, non aveva bisogno di curarsi dei particolari. Il suo disegno fu copiato da Giorgio Vasari il giovane (1550-1625) in un altro conservato negli Uffizi (n. 4854) e fu riprodotto da Cassiano del Pozzo per il Museo Cartaceo (1640-50), in un disegno ora a Windsor. Se ne servì anche Sante Bartoli per l'opera I Sepolcri Antichi, edita a Roma nel 1697, dove il mausoleo di Planco è a tav. 87, 88; ma egli ha alterato le dimensioni e ha tralasciato, come aggiunta moderna, la cupola che corona l'edifizio. Il Bartoli cita la sua fonte, dicendo di aver tolto il disegno dalla Biblioteca Barberini e dal Sangallo. Del mausoleo la collezione degli Uffizi (n. 420) possiede un disegno di Baldassarre Peruzzi, vissuto dal 1481 al 1536; dovette esser fatto nei suoi anni maturi, pare nel 1519 (9). Il disegno si riferisce al fregio dorico e ritrae una delle metope, con lancia e faretra tra i due triglifi. Ci dà poi un bel profilo del cornicione e i resti del coronamento superiore dell'edifizio. Alla fine del sec. XVIII il monumento fu riprodotto con la sua abituale accuratezza da Carlo Labruzzi, artista romano (1765-1817) che seguì l'Hoare nel suo viaggio da Roma a Benevento compiuto nel 1789. I disegni del Labruzzi sono rimasti finora la maggior parte inediti e ne esistono due copie, quella già dello Hoare, ora dello Ashby in una serie più completa, e quella acquistata alcuni anni or sono dalla Biblioteca comunale Sarti di Roma (10). Sono pertanto lieto di poter presentare ai lettori della Rivista, come primizia di quella collezione che è oggetto di un mio studio particolare, il disegno inedito della tomba di Planco, insieme con quelli di altri monumenti, che servono ad illustrarlo. Altro disegno è quello pubblicato dal Rossini nel 1839, tra le ottanta tavole del suo Viaggio pittoresco da Roma a Napoli (11). Le sue somiglianze con quello del Labruzzi sono tali che è possibile ritenerlo copia, benchè sia sicuro che il Rossini abbia compiuto il viaggio, mentre d'altra parte in cinquanta anni il monumento di Planco, allora così isolato dalla vita quotidiana, non poteva aver subito sensibili mutamenti. In ogni modo per noi questa questione è assai secondaria e ciò che ci preme è la fedeltà delle riproduzioni che è veramente grandissima, come potei constatare io stesso davanti all'originale e come ha confermato ora il Comandante della Difesa Marittima di Gaeta, Leva, il quale con squisita cortesia ha voluto controllare personalmente le mie osservazioni a le mie misure. Voglio perciò esprimere al valoroso e colto ufficiale la mia profonda riconoscenza. Possiamo quindi esser sicuri dell'esattezza in ogni particolare del disegno del Labruzzi, dalla base al cornicione, anche nella determinazione delle parti mancanti. Da ciò si deduce che il mausoleo, nonostante l'uso moderno, è oggi sostanzialmente nelle condizioni di 130 anni fa, per quanto si riferisce all'esterno. Quanto all'osservazione che si potrebbe fare di un restringimento del vano della porta, che più non esisterebbe, dopo un attento esame, sono venuto nella conclusione che gli artisti, in modo veramente non troppo felice, abbiano voluto rappresentare la porta della cella C, come allora appariva attraverso la porta principale e che lo scuro indichi l'ombra del corridoio circolare. Non vale neppur la pena di menzionare disegni, come quello pubblicato dal Maccarelli (12), che non danno neppure una pallida idea del monumento. Dai disegni suddetti si vede chiaramente come doveva essere la merlatura; notiamo la pinna perfettamente conservata che apparisce a destra nel disegno del Labruzzi. Monumenti merlati non sono rari nel mondo antico. A prescindere dalle fortificazioni di città che ne erano normalmente provviste, ricordo alcuni esempi raccolti da G. Boni nell'illustrare il monumento di Tor di Quinto, ricostruito nella Villa Blanc sulla Via Nomentana (13), tra i quali egli cita appunto il mausoleo di Planco. Così era il mausoleo di Cecilia Metella, dove la presente merlatura è, s'intende, medioevale; ma si possono tuttora scorgere i resti della merlatura originaria. Di esso do il bel disegno inedito che ne fece il Labruzzi, quando i resti del castello Caetani erano più conservati e formavano un insieme assai pittoresco. Il mausoleo di Cecilia Metella è ora riconosciuto appartenere alla figlia di Metello Cretico, nuora di Crasso, triumviro con Cesare e Pompeo, ed è datato al tempo di Augusto. Merlato appare un monumento sepolcrale rotondo in alcune terracotte antiche del I secolo (14) e tale è pure quello ritenuto di Corfinia, da Faleri, pure del I sec., ora al Museo di Berlino(15). Il mausoleo invece di età Adrianea, di Adalia, portato come esempio dal Boni e dallo Studniczka, deve togliersi dalla serie perché il Paribeni e il Romanelli che lo studiarono in occasione della Missione italiana in Anatolia, pur riconoscendone sicuro il carattere sepolcrale, sono venuti alla conclusione che i merli siano un'aggiunta posteriore, quando la tomba, come a Roma la piramide di Caio Cestio, fu incastrata nella mura di cinta della città (16) .Sicuramente merlato è invece il monumento di Adamclisi in Romania, che io ritengo sicuramente di età Traianea e che tante relazioni nell'aspetto del paramento esterno ha con una tomba romana rotonda, pur essendo un monumento onorario senza camere nell'interno. Presento la fotografia della ricostruzione in gesso del Niemann che fu esposta nella Mostra Archeologica di Roma, nel 1911(17). Tornando al mausoleo di Planco, nel disegno del Labruzzi e nella stampa del Rossini vediamo delle costruzioni sull'alto del monumento. Il confronto che possiamo fare con un altro disegno pure inedito del Labruzzi, dove è rappresentata la tomba di Cotta sulla Via Appia, detta Casal Rotondo (disegno interessante perchè ci mostra il mausoleo sessanta anni prima degli scavi del Canina), ci permette l'ipotesi che tali costruzioni possano essere i resti del nucleo a sacco, sul quale si impostava il coronamento di tutto l'edifizio(18). Ma d'altra parte alcuni particolari, visibili specialmente nella stampa del Rossini, ci portano alla conclusione, che almeno in gran parte, tali costruzioni siano una superfetazione medioevale e precisamente quei locali ai quali portava la scaletta ora demolite e che mi risulta siano esistite fino alla trasformazione in semaforo, dopo il 1885. Ora tutte quelle costruzioni non sono più visibili sotto i muri moderni. A due metri circa sulla porta, in una lastra di marmo lunga m. 2,30 e alta in. 0,71 (misure del Brunner), è ancora al posto originario e intatta l'epigrafe, circondata da una cornice. È riprodotta nel Corpus Inscriptionum Latinarum, Vol. X, n. 6087 (Dessau 886); e dice L - MVNATIVS - L - F - L - N - L - PRON - PLANCVS - COS - CENS - IMP - ITER - VII - VIR EPVLON - TRIVMP - EX - RAETIS - AEDEM - SATURNI FECIT - DE MANIBIS - AGROS - DIVISIT - IN - ITALIA BENEVENTI - IN GALLIA - COLONIAS - DEDVXIT LVGVDVNVM - RAVRICAM Cioè:Lucio Munazio Planco, figlio di Lucio, nipote di Lucio, pronipote di Lucia, console, censore, due volte imperatore, uno dei settemviri epuloni; trionfò sui Reti, fece con il bottino di guerra il tempio di Saturno, divise in Italia il territorio di Benevento, fondò in Gallia le colonie di Lione e di Raurica (Basilea). La vita di Lucio Munazio Planco è talmente romanzesca, che merita di essere ricordata, non già per scrivere una biografia di questo caratteristico personaggio della fine della Repubblica (19); ma per dare un commento all'epigrafe. Suo padre, di cui Cicerone si dice amicissimo, apparteneva a una nota famiglia plebea. Il nostro Lucio che, chiamandosi come il padre e i nonni, mostra di essere primogenito, nacque verso il 90 a. Cr. a Tivoli, come gli ricorda Orazio nell'ode a lui dedicata, la VII del libro I. Fanciulletto ancora aveva avuto, insieme con i fratelli, un'ottima educazione e, tra i suoi maestri, dovette esserci lo stesso Cicerone, che gli scrive una volta di averlo amato fin da giovanetto, quando già si poteva divinare il futuro suo valore. Infatti, nelle lettere che di lui ci restano, appare che il suo stile è il più ciceroniano tra quelli dei corrispondenti del grande Arpinate (20). Divenuto ben presto eccellente oratore, qualità che gli è riconosciuta da tutti gli storici (21), quando Cesare nel 58 a. Cr., parti per la Gallia, lo condusse seco. Fedelissimo al Grande, ottenne ben presto i più alti gradi e, nell'inverno 54-53 a. Cr., fu mandato ad occupare il Belgio. Mentre suo fratello Tito era immischiato nei disordini che infestarono Roma, Planco, sempre fedele a Cesare, lo seguì nelle guerre civili e dovette esercitare su lui una grande influenza, se Cicerone, scrivendogli una volta, dice la bella frase: omnia summa consecutus es, virtute duce, comite fortuna e un'altra volta, facendogli una raccomandazione, gli ricorda la somma sua grazia e potenza (23). Prova ne è la sua nomina nel novembre 46 a praefectus urbis, uno dei sei magistrati che Cesare lasciò a Roma durante la sua assenza per la guerra di Spagna, perchè governassero in vece sua. Anzi Planco dovette avere una posizione particolarmente autorevole, perchè lui solo e il collega C. Clovius batterono moneta. La sua, coniata dopo la vittoria di Munda, presenta il suo nome unito a quello di Cesare (23). Riproduco in un disegno di Odoardo Ferretti un esemplare del Museo Nazionale Romano. L'urceus sacrificale si deve connettere con la carica di settemviro degli Epuloni, ricordata sulla tomba. Scaduto da prefetto nell'ottobre 45, ebbe da Cesare il proconsolato della Gallia e fu designato console per il 42, insieme con Decimo Bruto. L'assassinio del Dittatore lo trovò quindi in Gallia, dove, dalle Filippiche di Cicerone, risulta che prima del dicembre 44 aveva avuto la prima acclamazione ad imperatore. Allora cominciò un attivo scambio di corrispondenza fra lui e Cicerone, che ci è pervenuta. Non è il luogo questo di ricordare tutte le azioni e le incertezze di quel terribile periodo dal 15 marzo 44 all'estate 43 a. C. Nell'agosto 43 la fortuna cominciava a volgere decisamente avversa ai congiurati. Ottaviano giovanetto entrava in Roma e iniziava la sua mirabile ascensione. In quell'estate Planco eseguì per decreto del Senato forse il più memorando atto della sua vita: la fondazione, al confluente del Rodano con la Saône, di una grande città, per sistemarvi gli abitanti di Vienna, fuggiti dinanzi agli Allobrogi: Lugudunum, come dice l'epigrafe di Gaeta e conferma Dione, detta poi Lugdunum e infine Lyon. Lione è ancora la seconda città della Francia e fu presto fiorentissima per la posizione così sapientemente scelta: divenne capitale della Gallia, da essa detta Lugdunensis e associò Planco ai suoi numi tutelari. Geniale è pertanto l'ipotesi del De Witte (24) che il personaggio riprodotto vicino alla sicura immagine del genius di Lione, in un disco di terracotta del III secolo, rinvenuto a Orange, sia appunto L. Munazio Planco. In esso avremmo quindi conservata, sia pure in modo assai rozzo e sommario, la sua effigie, copiata forse da un suo monumento. Deve porsi in quegli anni la fondazione di un'altra città, detta Raurica nell'epigrafe gaetana, Augusta Rauricorum, sul Reno, il moderno villaggio di Augst, che nel XVI secolo conservava ancora i resti di antichi edifizi, tra i quali un anfiteatro e che fu l'origine della prossima fiorente città svizzera di Basilea. Questa infatti è fiera del suo fondatore e non senza commozione vidi nel cortile del Rathaus riprodotta ai piedi dello scalone l'epigrafe del mausoleo di Gaeta. Essa è sormontata da una singolare statua del Cinquecento che riproduco, come caratteristico esempio di come allora si raffigurassero i personaggi di Roma antica. Disubbidito all'ordine del Senato di combattere Antonio ; anzi pacificatosi con questo, quando il 27 novembre 43 fu stretto tra Ottaviano, Antonio e Lepido il secondo Triumvirato, Planco fu di Antonio l'amico e il consigliere. Redatte le liste di proscrizione, quando ciascuno sfogò i propri odi e dovette dare pegni di fede, Planco, come Lepido, dovette sacrificare il fratello. Subì Lucio tale crudele necessità e anzi aiutò segretamente il fratello a fuggire, o siamo in presenza di un efferrato delitto, come sembrerebbe dalla frase di Velleio Patercolo ' (26) Certo il fatto sollevò indignazione e, quando agli ultimi di dicembre i due consoli Planco e Lepido, avviandosi ad assumere la carica; ebbero in Roma gli onori del trionfo, i soldati, giocando sul bisenso di germano, canticchiavano: de germanis, non de Gallis duo triumphant consules! Per questo trionfo c'è la difficoltà della differenza tra l'epigrafe di Gaeta e la menzione ufficiale nei Fasti Capitolini, come pure in quelli Barberiniani (26). Mentre infatti qui si dice che il trionfo fu sui Galli, sulla tomba è scritto che fu sui Reti. Anche il Pais non sa chiarire la cosa, benchè sia sicuro che Planco trionfò una sola volta. Forse sulla sua tomba egli volle correggere l'equivoco, forse, essendo ormai divenuta così romana la Gallia, la capitale della quale lo venerava quale fondatore, gli sembrò inopportuno ricordarne il nome. Asceso al consolato con M. Emilio Lepido, che aveva preso il posto di Decimo Bruto, Planco trovò una posizione terribile. Le proscrizioni avevano prodotto un vero macello, 300 senatori, 2000 cavalieri erano stati uccisi. Planco, con la legge Munazia, cercò di far perdonare agli scampati. Intanto si festeggiava l'apoteosi di Cesare, la vittoria di Filippi; ma le truppe erano sempre più insolenti. Dopo Filippi vollero terre e, cosa inaudita, nella stessa Italia. Planco fu incaricato di distribuire le terre di Benevento ai veterani, a quanto pare, della legione VI Ferrata e XXX. Dopo il consolato, accesasi la guerra civile tra Antonio e Ottaviano, ritornarono per Planco anni agitatissimi. Dopo l'assedio di Perugia, mentre Antonio era preda di Cleopatra, accorse con Fulvia ad Atene, dove incontrò il triumviro, mossosi da Alessandria. Mentre Fulvia moriva di dolore a Smirne, Planco, tornato con Antonio in Italia, assistette alla sua riconciliazione con Ottaviano. Poi accompagnò Antonio in Oriente, dove ebbe cariche eminenti. È dubbio il suo governo dell'Asia, certo ebbe, nel 35 a. Cr. quello della Siria, provincia importantissima e riservata ai grandi personaggi. Essendo poco probabile credere col Drumann che la sua seconda acclamazione a imperatore sia avvenuta durante la guerra di Perugia, Planco dovette averla in una delle azioni di quegli anni, probabilmente, come pensò il Borghesi (27), nella spedizione in Armenia del 34 a. Cr. con Antonio. Certo si è che sulle monete che Planco coniò col nome suo unito con quello di M. Antonio, egli si dice imperator iterum (28), titolo che, come s'è visto, è ricordato anche sull'epigrafe della tomba. Tali monete quindi non possono essere dell'anno 40; ma di qualche anno dopo. In Siria, Planco si rese odioso per la sua avidità e le sue estorsioni e pare si sia straordinariamente arricchito. Fuggito davanti a un'invasione di Parti, andò ad Alessandria, dove visse nella splendida corte di Antonio e di Cleopatra. Fu lui a proclamare questa vincitrice, nella folle gara di splendidezza col suo amante, per aver sciolto nell'aceto una perla preziosissima, fu lui a danzare da mimo, vestito da Glauco. Ma la fortuna di Antonio precipitava, specialmente quando, dopo aver tentato di liberarsi di Cleopatra, ricadde nella sua rete; le orgie seguitavano e Planco, che nel 32 sulla strada di Azio aveva giurato a Efeso con altri personaggi di liberarsi dall'Egiziana, si decise alla fuga col cognato Tizio. Giunto a Roma passò a Ottaviano e gli rivelò l'esistenza del testamento di Antonio, depositato dalle Vestali, che confiscato e letto, suscitò immenso scandalo. Il suo ardore contro Antonio, che pur tanto lo aveva beneficato, fu così spietato, che, mentre Velleio lo bollò coll'appellativo di traditore per malattia (morbo proditor), sappiamo che in Senato fu da Coponio chiamato pubblicamente vigliacco. Le rivelazioni intanto avevano commosso il popolo e fu decretata la guerra; ma Planco, così severamente giudicato, ci appare in una luce assai diversa nell'ode famosa che Orazio proprio in quei giorni gli dedicava, invitandolo a dimenticare le belle città greche e a preferire un angolo d'Italia, rumoreggiante d'acque e fresco di vegetazione, la sua Tivoli. « Come il vento che porta le tempeste - gli dice il Poeta - sovente radduce il sereno, così tu caccia il dolore che t'ingombra l'anima. ». Le guerre civili erano finite: Roma rifioriva nella pace, Planco pensò di restare lontano dalla politica, godendosi le ricchezze accumulate e mietendo nuovi allori come avvocato. Riconciliato del tutto con Augusto, questo testimone di tante vicende, che poteva vantare di aver avuto la fiducia e l'affetto di Cesare, trovò un avvenimento che lo rimise in auge, tra i più grandi personaggi di Roma. Fu nella seduta del 16 gennaio dell'anno 27 a. C. Ottaviano, ormai capo incontrastato e venerato dello Stato, si voleva dare un nome che cancellasse le memorie del passato e fosse augurio per l'avvenire; ci fu chi pensò a quello di Romolo; Lucio Munazio Planco propose quello di Augusto che fu accettato (29) e così suo fu il pensiero di quell'appellativo col quale Ottaviano è noto nei secoli e che, diventato sinonimo di Imperatore Romano, denota ancora nella nostra lingua quanto c'è di più nobile e di più degno. Nell'anno 22 a. C. un'altra carica fu occupata da lui, la censura, con Paolo Emilio Lepido. Planco doveva essere allora settantenne e questa fu l'ultima sua carica pubblica. L'epigrafe di Gaeta ricorda che Planco costruì col bottino di guerra il tempio di Saturno. La notizia è confermata da quanto dice Svetonio, che nomina appunto tale opera tra quelle fatte dai principali cittadini per stimolo di Augusto per abbellire Roma di edifizi o nuovi o restaurati o adornati (30). Il tempio di Saturno, esistente dal principio della Repubblica, fu di quelli rifatti e nel Foro Romano, per giudizio di tutti gli archeologi (31), possiamo ancora ammirare, nell'altissima base di travertino, un evidente resto della ricostruzione Planciana, sulla quale sono le otto colonne del restauro del Basso Impero. Nelle vicinanze del tempio fu trovata l'epigrafe L. Plancus, L. f. cos | imp. iter. de manib, accolta dal Mommsen nel C. I. L. (VI 1316), che non abbiamo nessuna ragione per non credere autentica e come tale è citata dallo Hülsen. Ma allora, come ben osserva lo Jullian, la data del 42 che questo e altri mettono per la ricostruzione Planciana, deve essere abbassata a dopo il 36, per la menzione della seconda acclamazione a imperatore. Ciò concorda con Svetonio e quindi credo che l'opera debba essere datata dopo il ritorno di Planco a Roma nel 32 e anzi intorno agli anni della sua censura. Le manubiae quindi devono riferirsi ai suoi governi orientali e erano forse un modo abile per giustificare le ricchezze accumulate. Alla datazione suddetta l'epigrafe di Gaeta non porta nessun contributo, perchè gli avvenimenti della vita di Planco vi sono registrati senza alcun ordine cronologico. Giunto così, per una sorte riserbata a pochissimi dei grandi personaggi delle guerre civili, alla vecchiaia, Planco dovette pensare alla costruzione della sua tomba monumentale che l'epigrafe fa datare a dopo l'anno 22 a. C. per la menzione della censura. Ricordiamo che, anche in questo, Augusto aveva dato l'esempio con il suo mausoleo, innalzato nel Campo Marzio l'anno 28 a. C. Il nostro scelse la sommità del colle della penisoletta di Gaeta, e non poteva fare scelta migliore, perchè mentre là domina solenne e isolato e non è confuso con i mille monumenti intorno a Roma, è visibile dall'Appia, che era la via delle tombe per eccellenza ed era la più grande arteria dell'Italia antica, congiungente Roma con l'Italia Meridionale e l'Oriente. Ma a Gaeta è, come dissi, assai probabile che Planco avesse avuto prima di pensare al mausoleo, la sua villa. Resti di una villa romana del suo tempo esistono tuttora sulla collina, presso il santuario della Trinità; sono sostruzioni e cisterne, nello stato in cui si trovavano nel 1789, quando le ritraeva il Labruzzi, nel disegno, pure inedito, che pubblico. L'attribuzione di esse a Planco negli scritti locali ha molte ragioni a suo favore; dal Gesualdo sappiamo che prima del 1536 (e egli, coscienzioso storico locale, certo ne aveva le prove) le rovine si estendevano assai maggiormente e furono distrutte o sepolte dai potenti bastioni costrutti intorno a Gaeta per ordine di Carlo V. Non lungi da queste rovine, allo stesso piano di strada; ma nella fronte a mezzogiorno del colle, esiste un antichissimo monastero, poi reclusorio militare. Tale monastero è dedicato a S. Michele Arcangelo e noi possiamo seguirne la storia dalla sua fondazione da parte di Docibile I, hypata di Gaeta, alla fine del secolo IX. Orbene, nelle carte del tempo o poco posteriori la chiesa è detta Sancti Michaeli Archangeli in Planciano (32) e la località è chiamata loco planciano, nome corrotto poi, come notano i dotti illustratori dei documenti, in Palanzano. Dunque fino al Mille si conservava chiara la memoria della Villa dell'illustre Romano, in quanto che la terminazione è proprio quella che prendevano i fondi. La presenza di quattro celle, come la tomba doveva avere originariamente, mi fa sorgere il pensiero che Planco abbia voluto provvedere a tutta la sua famiglia di cui era capo. Oltre il disgraziato fratello Plozio, ucciso nelle guerre civili i cui resti chi sa se furono mai ricuperati, Lucio Planco aveva due fratelli (oltre alla sorella maritata a Tizio) Tito, di cui abbiamo parlato e Gneo che fu pretore nel 43 a. C. e tanto lo aiutò nelle vicende delle guerre civili. Inoltre conosciamo un figlio Lucio, che fu console nel 13 della nostra êra e nel 18 fu mandato a Germanico come capo di un ambasceria del Senato che ebbe singolari avventure (33) . Sulla triste sorte della figlia Plancina, moglie di Calpurnio Pisone, il console dell'anno 7, la quale, incolpata della morte di Germanico, si uccise dopo la morte del marito, sappiamo da Tacito ogni particolare e non è d'uopo indugiarsi: da tale narrazione rileviamo che ella era allora in lutto di una sorella (34). Dalla storia dei figli, e dai casi loro occorsi parecchi anni dopo la morte del padre, sappiamo come la famiglia di lui, per censo e per dignità, occupasse una posizione cospicua. Tornando alla tomba, è dunque seducente il pensiero che riserbando a sè la cella principale potesse destinare le altre tre ai fratelli e al figlio. Costruita la tomba da vivo (e l'epigrafe al nominativo ne è testimonianza, come pure la mancanza di ogni indicazione sulla durata della sua vita, dato che sarà stato scritto sull'urna) Planco vecchio e stanco di tante vicende deve essersi ritirato a morire a Gaeta. La sua tomba, più fortunata di quella del Cesari, è restata intatta nei secoli e ha tramandato il suo ricordo ai posteri. Non occorre davvero segnalare l'importanza del monumento, nella storia dell'architettura sepolcrale romana. Senza paragonarlo col colossale Tumolo del Cesari, che aveva nel Campo Marzio un diametro di ben 88 metri; ricordo che, per data, è coevo alla tomba di Cecilia Metella e a quella di Cotta giù da me citate e al sepolcro dei Plauti ancora esistente presso il Ponte Lucano, sulla Via Tiburtina. Il sepolcro di Planco, con il suo corridoio circolare e le quattro celle, è tra tutti i mausolei romani quello che più conserva nella pianta l'aspetto del tumulo etrusco a più camere, dal quale credo che queste tombe romane direttamente derivino. Basti confrontare la pianta del nucleo centrale con quella dell'antichissimo tumulo della metà del VII secolo a. C., di Montecalvario presso Castellina in Chianti (35). Perciò la sua importanza è grande e mi riserbo di ritornare altrove sulla questione: qui basti di avere richiamata l'attenzione degli studiosi su questo mirabile monumento. G. Q. GIGLIOLI. (1) DE BOISSIEU. Inscriptions anciennes de Lyon, 1854. (2) E. GESUALDO, Osservazioni critiche di Erasmo Gesualdo sopra la storia della Via Appia, di D. Francesco M. Pratilli, Napoli, 1754, p. 32 segg. (3) Il DE BOISSIEU dà le misure del Brunner: profondità della cella (compresa la nicchia di fondo) m.5,75; larghezza m.3,75; lunghezza dell'andito di accesso m.1,79. Tali cifre si ottengono calcolando il palmo napoletano = m. 0,264. Ora siccome anche per gli altri dati si trova una certa inesattezza (il diametro del mausoleo è infatti per lui di m. 27,90; l'altezza della porta principale di m. 2,11), così si può concludere affermando che anche la cella C doveva essere sostanzialmente identica a quelle C1 e C2. (4) Nella famigerata opera sulla Via Appia, p. 143. (5) O. GAETANI D'ARAGONA. Memorie storiche della città di Gaeta, p. 237. (6) GRUTERUS. Inscriptiones antiquae, I, II, p. 439. (7) CH. HÜLSEN. Il libro di Giuliano da Sangallo, cod. Vaticano Barberiniano latino 4424, 1910. I disegni del Mausoleo sono a foglio 7 v, testo p. 14. (8) Infatti noi troviamo che, dopo le abbreviazioni è scritta la spiegazione per esteso, così: L LVCIVS MVNATIUS L F LVCI FILIVS, ecc.Il Sangallo dovette quindi avere dinanzi un manoscritto che diceva: L (Lucius), MVNATIVS L F (Luci filius), ecc. Per gli errori di trascrizione si capisce che tale manoscritto doveva essere in minuscole. (9) Il disegno a quanto mi risulta, è inedito; ringrazio la Direzione delle Gallerie di Firenze, che si è compiaciuta di farmene fare apposta una bella fotografia. Esso fa parte del gruppo dei disegni peruzziani che formavano un taccuino di viaggio ricostruito dal Bartoli (A. BARTOLI, I Monumenti antichi di Roma nei disegni degli Uffizi di Firenze, Vol. II (1915), p. 37 e segg.). (10) Lo ASHBY segnalò i disegni del Labruzzi nello scritto: Dessins inédits de C. Labruzzi. nelle Mélanges de l'École Française de Rome, XXII, 1903, p. 375. (11) ROSSINI. Tav. 55. (12) Le Cento Città d'Italia: Gaeta, 1893. (13) G. BONI. Un monumento romano ricomposto sulla Via Nomentana, in Archivio Storico dell'Arte, II serie, III, 1897, p. 54. (14) Not. Scavi, 1896, p. 462. (15) Beschreibung ant. Skulpt, n. 992. (16) F. STUDNICZKA. Tropaeum Traiani, 1904 ; R. PARIBENI e P. ROMANELLI. Studi e ricerche archeologiche nell'Anatolia meridionale, in Monumenti dei Lincei, XXXII, 1914, fig. 3, col. 40 segg. (17) TOCILESCO-BENNDORF-NIEMANN. Das Monument von Adamklissi, 1895: GIGLIOLI, Catalogo della Mostra Archeologica, II ed., 1911, p. 74-76. (18) CANINA. Via Appia, p. 144 segg., tav. XXXVI; RIVOIRA. Arch. Rom., p. 13, fig. II. (19) Un saggio di tale biografia fu scritta da ÉMILE JULLIAN. Le fondateur de Lyon, negli Annales de l'Université de Lyon, 1892. Vedi anche, oltre il citato scritto del Boissieu: DRUMANN Geschichte Roms, s. v.; KLEBS. Prosopographia Imp. Rom., II, p. 390; W. STERNKOPF. Plancus Lepidus und Laterensis in Mai 43. (20) CICERONE ad famil. ep., X, 3; XIII, 29. Sulle lettere di Planco esistono scritti speciali: L. BERGMÜLLER. Latinität der Briefe der L. Munatius Plancus (Progr. Gymn. Regensburg, 1896; A. RHODUIS. De Syntaxi planciana (Progr. des Gymn. Bautzen, 1894), ecc. (21) P. es. Hieron, Chr. ad a. Abr. 1992. (22) CICERONE, ad fam., XIII, 29. (23) BABELON. Monnaies de la République Romaine, II, p. 237: GRUEBER. Coins of the Roman Republic in the British Museum, 1910, I, p. 537, tav. LIII, 13. (24) J. DE WITTE L. Munatius Plancus et le Génie de la Ville de Lyon, In Gaz. Arch., 1884, p. 257, tav. 34. (25) VELL PAT. II, 67. (26) E. PAIS. Fasti triumphales Popoli Romani, 1920, p. 17, 285; VELL PAT. II, 67. (27) BART. BORGHESI. Op. II, 285. (28) BABELON. Op. cit. II, 239. (29) SVETONIO, Augusto, 7. (30) SVETONIO, Augusto, 29, Cfr. VELL. PAT. II, 89. (31) CH. HÜLSEN. Il Foro Romano, 1905, p. 67. (32) Codex Diplomaticus Cajetanus, I, p. 105; documento del 958, riferentesi a una lite tra i figli naturali di Docibile II; oltre alla frase riferita c'è terra pertinentia de Sancto Angelo qui dicitur in Planciano, Cfr. I, 125, documento del 964, ecc. Le prime menzioni del monastero sono in documenti dell'899 e 906 di Docibile I. (aeclesia beati Michaelis Archangeli quod noviter aedificavi). (33) TACITO. Ann., I, 39. (34) TACITO. Ann., II, 71 e segg., VI, 26. (35) L. PERNIER. Not. Scavi, 1916, p. 265, fig. 2. |
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