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ROBERTO PAPINI: Vetrate, con 13 illustrazioni |
In cima al terzo colle di Stambul è la moschea di Solimano il Magnifico. Su dalla corte vasta, ricinta di mura e folta d'alberi, la gran mole di Sinan si eleva, immensa piramide smussata, coi suoi quattro minareti che bucano il cielo, col doppio ordine delle logge nel ritmo alterno delle arcate maggiori e minori sugli esili steli delle colonne.
L'accavallarsi delle arcate, dei contrafforti, delle cupole, il frastagliarsi dei blocchi che si sormontano, forati da finestre strette nel gran massiccio di pietra grigia, dànno la sensazione di qualche pesante immensità che s'appoggi sopra un nucleo solido e pieno. Invece quattro enormi colonne di porfido e quattro pilastri sono i soli sostegni su cui gli archi acuti si slanciano e le cupole si incurvano a fasciare il gran vuoto. Il tema di Santa Sofia non potrebbe esser ripreso con più equilibrio e con più foga. Ma quel che manca nella Sulemanié in confronto della sorella maggiore è tutto l'oro dei musaici, il calore dei suoi toni gialli e rossigni, la vita di una calda policromia diffusa nello spazio silenzioso. Il gran vecchio Sinan deve essersi accorto di questa inferiorità della sua creazione. E allora nella parete sacra del mihrab deve aver voluto quelle vetrate stupende che bastano da sole a diffonder colore dovunque, a riscaldare da sole l'ambiente composto di pure linee essenziali. Sono i colori combinati con gusto così raro che assumono il valore di smalti preziosi: gli azzurri di zaffiro cupo, i rossi di rubino intenso, i verdi di smeraldo chiaro si alternano nel disegno semplice, che è lo stesso di quello dei più bei tappeti, con motivi di fiori, d'alberi, d'arabeschi, di vasi. Non ho mai visto vetrate più preziose e più vive di quelle. Son l'opera del vetraio Ibrahim l'ubriacone, il maggior maestro di vetri che Stambul potesse vantare. E bisogna credere che i contemporanei lo pregiassero assai se il mondo musulmano, nemico del vino, permise senza scandalo che il più bell'ornamento della moschea più bella fosse pensato ed eseguito fra le allucinazioni del vino. Veramente il valore di una vetrata in un tempio è grandissimo. E, d'altronde l'arte musulmana, così rigida nel divieto di effigiare la figura umana, non poteva cadere in quell'errore illusionistico d'imitazione del quadro per mezzo della vetrata, errore in cui già cadeva quest'arte in Occidente quando le vetrate della Sulemanié venivano alla luce. Scriveva infatti Giorgio Vasari in lode di Guglielmo di Marcillac, press'a poco nel tempo in cui Ibrahim si dava alle ebbrezze del vino, e del colore: "Diede opera alle finestre di vetro nelle quali faceva figure di colorito non meno unite che s'elle fossero d'una vaghissima e unitissima pittura a olio". Cioè la lode maggiore per un maestro di finestre invetriate era allora da noi il riconoscimento della sua capacità imitativa della pittura a olio; e tanto più bella doveva apparire la vetrata quanto più dava l'illusione di un quadro dipinto, coi volti delle figure ben sfumati, coi paesaggi nello sfondo sapienti di prospettiva aerea, con le architetture bene scorciate e profilate come nel vero. Errore che fece decadere rapidamente l'arte della vetrata in Occidente; errore in cui non potevano cadere gli artisti d'Oriente i quali dovevano per necessità liturgiche e rituali mantenersi aderenti alla vera e sola tecnica della vetrata che non vuole deviazioni illusionistiche ma permette soltanto all'artista di disporre i colori in motivi semplici e schematici, contornati di nero, lasciando al sole di dipingere il resto. La storia della vetrata - quando si scriverà perchè è ancora da scrivere - è tutto un alternarsi di grandezze e di decadenze secondo che trionfa l'una o l'altra tendenza: quella che aderisce ai principi del musaico o dello smalto in trasparenza e quella che inclina verso l'imitazione servile del quadro o della miniatura. Da principio, quando compare, la vetrata e un musaico trasparente: i vetri incassati in telai di legno e di stucco altro non rappresentano se non luminosità colorate sottoposte a una legge di armonia dell'insieme: note cioè di colore come note di suono in un accordo musicale. Così nelle chiese coperte di musaici le vetrate hanno una naturale funzione puramente cromatica. E una tecnica ancora rudimentale che ha del grossolano; ma l'arte della vetrata è già perfettamente concretata in un suo proprio modo fino dal nascere e raramente si trovano poi effetti così perfettamente raggiunti come in alcuni bellissimi esemplari del Museo di Palermo. La tecnica si raffina con l'inizio dell'uso del piombo verso la fine del X secolo; nei due secoli successivi l'azzurro, il giallo aranciato, il rosso e il verde sono i colori usati di preferenza. Specialmente l'azzurro profondo e luminoso dà alle vetrate certe lontananze piene di fascino intenso che le epoche seguenti non conosceranno più. Il disegno resta geometrizzato anche nella figura umana; il piombo ha la funzione di collegare i pezzi di vetro ma anche quella di sottolineare i tratti, di dare più accento a una linea o ad una figura, secondo il diverso spessore; i colori puri giocano per accostamenti sapienti; i fogli di vetro tagliati col ferro rovente non hanno l'uniformità esasperante di certi prodotti odierni delle fabbriche: rigonfiamenti, bolle, ondulazioni, vene più scure e più chiare mettono nella vetrata brividi luminosi. È l'età dell'oro, l'epoca in cui i maestri di vetri sono più spontanei e puri. Poi subentra il violetto che spande una sua fredda melanconia nelle vetrate in cui rosso e turchino predominano, finchè sul finire del Trecento compare quel giallo "d'argento calcinato" che s'applica col fuoco della muffola e che preludia tutta una rivoluzione nell'arte della vetrata aprendo l'adito agli smalti d'ogni tinta. Comincia cioè da allora la pittura a fuoco sul vetro. E comincia sotto molti rapporti la decadenza. Poichè nella vetrata che vien dipinta, cioè ritoccata e disegnata oltre il piombo, non c'è soltanto un frastagliarsi del dettaglio che prima non era possibile e un perdersi di quel carattere sintetico nelle linee e nei colori che i pezzi di vetro giustaposti imponevano, ma c'è anche un intorbidamento del vetro a scapito di quella trasparenza essenziale che è il gran fascino delle vetrate pure. Accade cioè un fenomeno analogo a quello dell'affresco snaturato dai ritocchi a tempera, dell'arazzo tessuto con tanto sottile finitezza da imitare balordamente la pittura. Ancora nel Quattrocento i sintomi della decadenza non si manifestano con grande chiarezza: le ghirlande e i festoni che decorano le vetrate con la giocondità delle foglie verdi, dei frutti gialli e aranciati, dei fiori rossi e turchini, fanno dimenticare certo tritume dei dettagli e certa invasione delle architetture nei fondi e nelle cornici. Per quanto un poco snaturata, la vetrata è pur sempre un riflesso della grande arte del Rinascimento e si adorna della nobiltà di quest'arte. Ma appena si entra nel manierismo del Cinquecento, appena i maestri di vetri si vantano di far concorrenza ai pittori - e purtroppo a quali pittori! - il decadere si manifesta improvviso come un crollo. Non solo una causa di questo decadere e la pittura a smalto, ma anche l'uso del diamante che sostituisce verso la metà del Cinquecento la perfezione del taglio alla ruvidezza brutale del ferro rovente e l'uso di quel "vetro squagliato" composto di due vetri di diversa tinta, che permetteva l'impiego del bulino, dello smeriglio e della ruota per cavare effetti di dettaglio minuti e virtuosi. Cioè insomma un'arte che si giovava di soli avvicinamenti cromatici, rilevati dalla trasparenza, decadeva per la ricerca di effetti che non erano i suoi e la decadenza non poteva essere che confermata quando nel Sei e Settecento l'arte del vetraio diveniva sempre più l'arte dello smaltatore, quando i progressi delle innovazioni tecniche vi portavano - è vero - maggior rapidità ed economia d'esecuzione, ma ne compromettevano la solidità e ne snaturavano il carattere. Non valsero i tentativi di rinascita fatti a Monaco, a Sèvres e in Inghilterra, non servi che Ingres, Delacroix o Flandrin, Burne-Jones, Rossetti o Madox Brown disegnassero cartoni e che William Morris tentasse una ripresa nel campo industriale; era nella tendenza pittorica che si nascondeva l'errore fatale. E non si fa risorgere un'arte ormai snaturata se non la si riconduce di colpo alle sue fonti prime. Tale in brevissimi tratti il lineamento storico dell'arte delle finestre in vetriate. Era necessario tracciarlo per rilevare l'importanza di una Mostra della Vetrata che s'è aperta a Roma nel palazzo dei Piceni, accanto a S. Salvatore in Lauro. È la seconda mostra di questo genere in Roma. La prima fu tenuta circa dieci anni fa nel Palazzo dei Filippini alla Chiesa nuova e fu un saggio dei primi tentativi. Con maturità maggiore, con numero maggiore di opere si è aperta ora questa seconda ed è l'affioramento di un lungo, paziente lavoro di ricerca compiuto da quattro artisti: Umberto Bottazzi, Duilio Cambellotti, Vittorio Grassi e Cesare Picchiarini. I primi tre dànno i cartoni; il quarto li traduce in vetro. Umberto Bottazzi espone tre vetrate. Innamorato di motivi vegetali ed animali li semplifica e li stilizza in forme che hanno forte aderenza al vero, contentandosi di giocare più coi colori che con le linee. Nella sua vetrata I tulipani i fiori son chiari, sopra steli esili, armonie delicate nei toni madreperlacei. Nell'altra I cigni scuri passano sull'acqua piena di riflessi caldi mentre una svolata di foglie morte, gialle e aranciate, li segue nel placido nuoto. Nella terza due Farfalle aprono le ali vive di colorazioni preziose nell'aria diafana e bianca dell'alba. Preoccupazione coloristica più che stilistica, ricerca di toni in sordina con qualche squillo di tinte vive. Duilio Cambellotti espone otto vetrate. Egli vi appare col pieno carattere della sua linearità cruda, squadrata, tutta spigoli e linee rette. Il piombo accentua questo prepotente bisogno di conchiudere le forme in netti contorni geometrici che è peculiare del Cambellotti; lo accentua e lo conduce talora fino all'eccesso che è cristallizzazione di figure scheletrite. Ma il buon gusto decorativo lo salva, lo porta ad una energia di sintesi coloristica che raggiunge la più squisita preziosità. Raramente si può arrivare, come nella vetrata in cui Le gazze rubano a volo le pietre preziose, a rendere meglio, fra l'alternarsi dei bianchi e dei neri, la luminosità delle gemme, gocce di colore liquido, lustro, variabile, che fanno gola. In un'altra vetrata egli trasforma le Nubi invernali in figure di cavalli bianchi che incombono sui campi di neve pieni di scheletri di gelsi nodosi; le nubi opaline sono leggere in confronto del tono unito della neve ma la trasfigurazione delle nubi accavallate ha qualcosa di rigido e di fermo che distrae l'attenzione dalla bianca armonia, raggiungendo un effetto più bizzarro che efficace. Meglio è reso nella vetrata Le lucciole il vagare di quei luminosi fantasmi georgici sui prati che assumono i verdi profondi di quando il sole si perde: la concordanza fra forma e colore è raggiunta con poche note, sapientemente. E altrettanto si può dire di quella Fata creatura diafana e trasparente che scherza in un prato coi granati, i berilli e le ametiste, femmina estasiata dal colore. Cambellotti è l'unico che tenta con rinnovata nobiltà la finestra policroma da chiesa. Nell'Addolorata la semplicità tradizionale della figura della Vergine, fra i due vasi di bellissima tinta violacea disposti in simmetria, è rinnovata dallo schematismo del tratto che sottolinea la smorfia del dolore. Ma dove egli raggiunge il massimo di vigore e d'effetto è nella Crocifissione opera potente nella composizione serrata, nella disposizione dei toni cupi in basso, nella distanza espressiva fra Cristo e il gruppo dei piangenti: il manto rubino della Maddalena è la nota dominante della sinfonia cromatica che si smorza fino alle colorazioni brune, sorde del legno della croce. Opera degna in tutto delle nostre più belle tradizioni. Vittorio Grassi espone cinque vetrate. La signorilità dell'arte di questo pittore si conferma; la sua fantasia si giova di accostamenti strani di aspetti reali in modo irreale. Ecco l'Idolo, figura bronzea immobile nella rigidità egizia, che sta per essere investita e sommersa da una curva ondata del mare; il segreto di questa bella vetrata è tutto nel contrasto felicissimo dei toni cupi di bruno, d'azzurro e di viola dell'idolo in contrasto con la liquida trasparenza verde smeraldo dell'onda. Ecco il prisma: sul fondo cupo una fiamma livida avvolge il cristallo nelle mani del giovane bluastro che lo regge quasi adorandolo; fra le spire della composizione avvolte in linee che si snodano dalle ginocchia dell'uomo ai vertici della fiamma, il colore svaria con effetti stupendi dal viola al rosato in una luce fantastica di sogno. Ecco ancora i pesei: scorfani bruni alati come libellule nuotano nella trasparenza liquida attraversata da fili di alghe verdi; bolle d'aria salgono verso il cielo che non si vede; la squisita armonia di una luce da acquario fonde tutte le reali apparenze in una irrealtà di mondi appena intraveduti. E questo è il segreto di un'arte matura che dà pretesti al sogno; per questo preferisco di molto le tre vetrate, cui aggiungo l'altra intitolata Rugiada (più brina che rugiada in quel cielo bianco sul candore delle calle etiopiche), a Le vele adriatiche piuttosto pannello decorativo che vetrata, dove c'è troppa aderenza alla realtà per suggerire qualcosa di più e di meglio alla fantasia di chi vede. Ora vorrei mettere in rilievo alcune caratteristiche comuni a tutte le vetrate esposte nella Seconda Mostra perchè tutte comprese in una unità di esecuzione dovuta alla sapienza e al gusto di Cesare Picchiarini. Tutte cioè sono vetrate pure; in nessuna entra la pittura a smalto se non per brevissimi tratti che hanno lo stesso valore del contorno di piombo. È cioè l'arte della vetrata ricondotta alle sue fonti di musaico traslucido con modernità di motivi, Picchiarini ne dà un esempio schematico nella sua Vetrata romanica: tutti vetri trasparenti in cui la vita è infusa soltanto dalle leggere colorazioni violacee, verdastre, azzurrine leggerissime, date dalle impurità della pasta vetrosa. È l'esempio dimostrativo di ciò che si può raggiungere servendosi soltanto di due elementi: del piombo come linea, del vetro come tono. Quel che avviene in questo schermo trasparente con effetti elementari avviene in tutte le altre vetrate con lo stesso principio, con la stessa purezza di mezzi. Picchiarini ha una tavolozza complicatissima ma schietta: i fogli del vetro. Da questa sceglie, taglia, incastona: il contorno vero egli lo mette docile, flessibile in giro ai colori. La collaborazione fra lui e chi gli fornisce il cartone è concorde, perfetta. Non si sa dove finisca l'intenzione dell'arte e dove cominci la scelta della materia che conduce al resultato finale. Giovarsi degli inattesi effetti d'una vena nel foglio vitreo, d'una gobba, di una bolla, d'una sfumatura di colore nella pasta disunita, è il mezzo che egli adopera per raggiungere effetti inaspettati. Con la stessa sapiente manualità dei suoi antenati di poco dopo il Mille, egli risale, conscio o inconscio, alle origini, ritorna alla vetrata non dipinta, a quella che trionfò nelle chiese romaniche con le sinfonie dei pezzi di vetro soltanto giustaposti. Questo sanno Bottazzi, Cambellotti, Grassi e lo secondano: pensano alla gioia del compagno quando egli traduce le visioni luminose che hanno composto. Certi giochi di colore, certe opalescenze del vetro làttimo, certe preziosità di tono, certi intervalli fra ombra e luce, certi squilli improvvisi, debbono essere inattesi perfino agli stessi autori dei cartoni. Segnalare al pubblico i resultati raggiunti dai quattro artisti è un dovere e un piacere. Di loro si può ripetere con compiacenza che le diciotto finestre invetriate essi le fecero "ricche e molto accomodate, agevolando il modo di fare di quelle pitture che vanno commesse di pezzi di vetri, il che pareva ed è veramente, a chi non ha questa pratica e destrezza, difficilissimo". ROBERTO PAPINI |
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