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ANTONIO MARAINI: Il valore decorativo della scultura di Giovanni Prini, con 20 illustrazioni |
Vi sono sovente artisti nell'opera dei quali la fantasia, il sentimento e l'espressione prendono il sopravvento, nel giudizio che se ne dà, sulla sostanza più strettamente plastica o pittorica. Tale è il caso di Prini cui tutti riconoscono delicato senso elegiaco, ma ben pochi personale maestria tecnica. Perciò sia permesso una volta tanto un arido discorso sulla sua scoltura, anziché sulla sua ispirazione.
Nato in umile condizione a Genova nel 1877, Giovanni Prini, dopo aver fatto le elementari e aver tentato parecchi mestieri, capitò per caso nello studio di uno scultore, dove subito ebbe coscienza della sua vocazione. S'iscrisse allora all'Accademia linguistica e ne frequentò i primi corsi, mentre per vivere andava a tirare il violino in un gran laboratorio di marmi. Ma, desideroso di indipendenza, appena si sentì in grado di far qualcosa da solo, stabilì i suoi trespoli tra le stecche e le cotonate del negozio materno di parasoli. Lì condusse a termine un monumentino intitolato alle Spose del Signore che esposto a Torino nel '99 gli procurò le lodi di Bistolfi e di Pellizza. Questo primo piccolo successo lo scaldò, lo incoraggiò, lo spinse a tentar la fortuna in un ambiente più aperto. E nel '900 venne a Roma. A Roma giungeva povero, povero, ma ricco di sogni. Aveva l'animo di un bimbo buono facile alle lagrime e al riso in un corpo gracile da adolescente. Dallo studio, che era in una bottega aperta sul Viale della Regina, seguiva, inebriandosi dei versi d'un conterraneo, di Ceccardo Roccatagliata, i giochi dei bimbi sul marciapiede, l'andirivieni delle vecchine al sole. E, con un fare impressionista pieno di candore e di spontaneità, trasfondeva in piccoli gruppi l'intenerimento che gli comunicavano tutte quelle vite umili, sperdute sui margini pigri della città, il segreto dei bimbi, i bimbi e la falce, il tesoretto e tanti altri bronzetti dai titoli suggestivi, andarono a ruba appena le esposizioni di Roma li rivelarono, e il nome di Prini, Prinotto come lo chiamavano gli intimi, da un giorno all'altro sortì dall'ombra alle soglie della notorietà, vantato dai critici, amato dagli amici, insignito persino dell'onore d'esser chiamato a Corte per insegnare scoltura alla Regina Elena. Sono passati vent'anni, ma quella soglia che tanti altri meno meritevoli hanno frattanto varcato sulla via dei successi incontrastati, per lui non vuol dischiudersi completamente. È la verità e bisogna confessarla con franchezza. Perchè l'esser stato nominato professore all'Accademia di Belle Arti in Roma, o l'esser sovente destinato a far parte di giurie, sono riconoscimenti ben lontani da quel calore fervido di ammirazione che viene tributato agli artisti, come si suoi dire, arrivati. Il fatto sta, che dopo il primo momento entusiastico della scoperta, il pubblico volubile si staccò dall'artista cui aveva dato l'illusione di un generoso consenso. Se ne staccò perchè egli invece di accortamente sfruttare l'interesse destato dai miti drammi dei piccoli e dei derelitti, s'era dato ad altre ricerche, sospintovi dal desiderio che dentro gli maturava di maggiori voli. E quando il pubblico ha scorto in un artista l'esponente di una data specializzazione, quando cioè si è abituato a richiedergli un certo ordine di emozioni, non sa perdonargli di sviare la sua attesa. Ora Prini, superato il primo periodo della inconscia espansione giovanile, aveva capito quanto distraesse dallo studio disinteressato della forma il letteratume pseudofilosofico, che Bistolfi e Pellizza con le loro lodi avevano incoraggiato in lui, come del resto con il loro esempio avevano diffuso un po' in tutta l'arte italiana, e di questo bagaglio ingombrante voleva disfarsi, per irrobustire la sua plastica nel senso appunto di pura forma. Lotta difficile chè la sua natura emotiva era continuamente trascinata a non appagarsi della sola forma in sè, ma a vedere in ogni apparenza suggerimenti di espressioni, analogie di stati d'animo. E s'intende come questa lotta, nella quale una intelligenza e volontà critiche cominciavano ad operare contrastando tendenze correnti e disposizioni innate, possano aver per qualche tempo provocato ora in un senso ora in un altro, degli smarrimenti. Il primo a rendersene conto era lo scultore, lui stesso, che non poteva ormai più tornare indietro, mentre vedeva la meta dei suoi sforzi ancor molto lontana e ardua a raggiungere. Ma chi seguiva la sua opera notava ogni tanto la bontà del nuovo indirizzo in busti (fig. 1), in nudi (fig.2), in gruppi (fig. 3), in monumenti (figg. 4, 5, 6), dove l'essere umano tendeva a risolversi in un ordine di volumi ben connessi. Fu la coscienza del valore di questi risultati, che pochi amici apprezzavano e qualche raro spirito, come Mestrovich, registravano tra i migliori della scoltura italiana d'un decennio in qua, fu tale coscienza a dare a Prini la forza di resistere a tutte le miserie, tutte le desolazioni d'una vita povera, dimenticata, in mezzo alla difficoltà di tirar su una famiglia numerosa e alla necessità di accettare lavori d'indole quasi commerciale. Sicchè oggi, l'esposizione romana degli Amatori e Cultori di Belle Arti, ravvicinando in una sua mostra personale tra molte altre belle cose (figg. 7 e 18) una replica dell'antico Segreto dei bimbi (fig. 8) a un bozzetto della recente tomba Montesano (fig. 14), che a distanza di anni ripetono in forma tanto diversa lo stesso motivo di tre figure affrontate a colloquio, giunge opportuno a dimostrare il lungo cammino percorso; dal pittoresco dell'aneddoto reso con analisi realistiche, alla astrazione della forma ottenuta con sintesi architettoniche, dalla bonomia spensierata dell'età giovanile, alla gravità meditata dell'età matura, dalla improvvisazione allo stile. Quale sia la formula plastica di tale stile, quale sia cioè la trasfigurazione che l'artista fa subire agli elementi della realtà, siamo ormai preparati ad afferrare. Si guardino per esempio l'invocazione (fig. 9) e le statue per le tombe Bertesi (fig, 10), Caterinic (fig. 11), De Benedetti (fig. 12). In tutte queste opere una è la caratteristica che subito colpisce; la tendenza cioè a tornire il corpo umano in forma di un fusto eretto, senza diversivi di membra che si diramino a interrompere la caduta dei contorni. Il profilo in quanto ritaglio di sagome, in questa scoltura tutta d'un pezzo è abolito. Le figure reclinano la testa, accostano al torso le braccia o le sollevano a continuare del torso la verticalità, riuniscono le gambe o le hanno inguainate da gonne, girano e si chiudono su sè stesse, per rientrare così meglio nel masso primitivo donde lo scalpello le ha sprigionate. E ancora la vecchia massima di Michelangelo, che la statua debba potersi rotolare come una pietra compatta, intesa però con criterio tutto moderno e personale. Quanto moderno e personale lo si realizza meglio ancora nelle opere dove invece di aver a che fare con una figura isolata, lo scultore deve riunirne parecchie. Perchè allora il gruppo gli si coagula per cosi dire simmetricamente addossato in giro ad un asse centrale, come nel Tripode (fig. 15, 16), nel Reliquiario (fig. 17), e nel Vaso mistico (fig.19). E caduta di pieghe, rotondità di nudi, attributi allegorici, assumono la funzione architettonica di creare un ritmo conchiuso di masse curve e rettilinee al quale è difficile trovare precedenti precisi. Il termine ultimo dello stile di Prini è tutto qui, in questa ricerca di istoriare quasi torno torno la superficie d'una colonna o d'un pilastro o d'una sfera, assunti come l'ideale archetipo cui ricondurre ogni scoltura. Arte decorativa per eccellenza dunque che il sentimento vivifica, ma non senza sicure basi formali. Ed io non so quanti, invero, possano oggi comporre con altrettanta sciolta sapienza e originale buon gusto opere di plastica decorativa, sia d'arredo sia monumentale. Quando se ne accorgeranno la disattenzione della gente e la diffidenza delle giurie, che negli incarichi e nei concorsi continuano a dimenticare un simile artista, con la scusa ch'egli è più un poeta che uno scultore? |
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