FASCICOLO I - MAGGIO SETTEMBRE 1922
CARLO CECCHELLI: Origini del mosaico parietale cristiano (I e II), con 26 illustrazioni
I.

Che la prodigiosa fioritura di mosaici parietali cristiani del IV-VI secolo in Italia non nasca «ex nihilo» ma derivi da precedenti esemplari pagani, è cosa che può facilmente sospettarsi. Le difficoltà incominciano quando si vanno a cercare questi esemplari, giacché è ben noto che l'antichità classica ci ha lasciato gran numero di mosaici pavimentali, ma poche vestigia di parietali. E anche i testi non abbondano. Ciò ha fatto credere ad alcuni che, a prescindere dalla tecnica già da lungo tempo acquisita dagli artisti romani, debbano ricercarsi altrove gli originari motivi decorativi, le peculiarità stilistiche, le creazioni iconografiche messe poi a servigio di una religione che non era d'altronde autoctona. Si pensò all'Oriente e chi additò la regione siro-palestinese che, per varie testimonianze scritte e per posteriori riflessi monumentali dette vigoroso impulso a tutte le forme di decorazione (i monumenti del mosaico però mancano e anche le attestazioni sono relativamente tarde), chi l'Asia minore (per la quale valgono le medesime osservazioni), chi prescelse Bisanzio (centro allora troppo giovane per esercitare un rilevante influsso, almeno prima del VI secolo), chi la civiltà alessandrina (1). A proposito di quest'ultima giova osservare che la sua vicinanza all'Italia e le relazioni continue che vi avevano i Romani, giustificano pienamente l'ipotesi che molto specie nel periodo tolemaico in cui si dette singolare sviluppo alle arti del vetro, sia pervenuto da quella regione(2). Ma l'arte ellenistico-orientale di Alessandria (3) ebbe grande sviluppo anche durante la dominazione romana e d'altra parte nei mosaici pavimentali del nord-Africa si nota di frequente quella organicità di concezione, quello spiccato senso del rilievo, quella pratica visione del mondo irreale che sono felici caratteristiche dello spirito romano. Bisogna quindi credere che in Alessandria si sia celebrato il connubio della civiltà romana con quella ellenistico-orientale.
Lungo sarebbe il discutere tutte le questioni che si connettono con questo fatto, né è nostro compito risalire alle origini dell'arte romana. Quel che ci preme invece di mostrare si è che, agl'inizi del IV secolo, Roma, in quanto a mosaico parietale, aveva già tanto da poter informare di sé la decorazione delle nascenti basiliche cristiane.
Quando l'opera musiva sia salita dal pavimento alle pareti, non è possibile dire neanche per approssimativa. La notizia pliniana sul teatro di Scauro (4) che sarebbe stato decorato nell'ordine medio «e vitro» non fa capir bene se si trattava di veri mosaici a tessere, oppure di crustae vitree stemate ad opus sectile (mosaico di commesso), od anche di piastre smaltate simili a quelle dei palazzi mesopotamici (5).Più chiaro è invece un accenno di Stazio (6) ove la parola vitrum applicata a volte (camerae) e il vago alludere a figurazioni, fanno credere che si riferisse proprio a mosaici. Del resto il mosaico parietale fa già la stia comparsa negli edifizi pompeiani ove però non lo si utilizza largamente come farà più tardi il cristianesimo, ma lo si riserva per certi luoghi su cui si vuole attirare l'attenzione. Riparleremo delle fontanine, ma qui ricordiamo subito una bizzarria: le quattro colonne fasciate di mosaico che ora stanno al Museo Naz. di Napoli. Certo la eccentricità di questa utilizzazione ha un certo sapore di esotismo che pensare a recenti apporti da paesi esteri. E non è inopportuno segnalare che essa va di pari passo con le forme fantastiche assunte dai freschi pompeiani del III e IV stile. Vi è pure un esempio di quadro riprodotto in mosaico su parete: sta nella cosiddetta «Casa di Apollo» in Pompei e rappresenta Achille scoperto da Ulisse nella Reggia di Licomede. È un quadretto di circa 1 metro di lato, messo insieme con tasselli grossolani di pasta vitrea. Come gli emblemata al centro dei pavimenti tassellati, ha t'aspetto di una cosa eterogenea. Infatti una cornice di conchiglie, simile a quella delle fontane e del colombario di P. Hylas, lo isola dalla rimanente decorazione, il che mette in evidenza la sua singolarità e fa credere che non si praticasse ancora il rivestimento d'una intera parete. Ma l'inesperienza dei musivari è palese per altro fatto: la tecnica impressionistica di questa produzione del I secolo è assai lontana dal deciso divisionismo del IV-VI secolo. Pur tuttavia le necessità della materia trattata impongono alcune stilizzazioni e introducono in qualche parte l'uso del contorno, ma è notevole che, per molti caratteri, questo quadro può dirsi il vero precedente delle scene di S. Maria Maggiore in Roma (7).
Dall'osservazione dei cennati resti si deduce che il mosaico non intese in questi primi secoli dell'E. V. di far concorrenza all'encausto. Tutt'al più all'«opus sectile».
È noto che presso i romani il commesso era salito ad elevato grado di perfezione e valga l'esempio delle tarsie della basilica esquilina di Giunio Basso (8). A sostituire una decorazione così sontuosa e costosa non poté adoperarsi che il mosaico, genere molto affine che si prestava ad eseguire con maggior facilità e più luminosa policromia tutte le figurazioni minute, che si adattava meglio alle superfici curve, che infine opponeva maggior resistenza all'acqua. Perciò noi lo troviamo usato di preferenza nelle terme e nelle fontane dove pure abbondano nicchie, absidi, esedre, volte a botte ed emisferiche. L'applicazione alle pareti impose modifiche alla tecnica. La malta d'incastro non fu più costituita dal letto di calce, ma divenne un vero stucco. Le tessere vitree, che nei pavimenti erano usate soltanto per certe gamme di colore presero qui la prevalenza a causa della loro leggerezza e lucentezza.
La nuova applicazione del mosaico ebbe presto un nome: musivum (9) e degli artefici specialisti: musivarii che furono distinti con cura, anche nei documenti ufficiali (10), dai tessellarii dei pavimenti.
Bisogna però credere che facessero il loro primo addestramento in piano, cominciando dalle rigide geometrie usate nel tessellatum monocromo e indi si raffinassero con l'incastrare smalti e marmi per comporre le sinfonie cromatiche del vermiculatum. Vi son casi di coesistenza in uno stesso luogo di mosaici vermicolati nella parete e tessellati nel pavimento, pei quali si stenta ad ammettere che fossero in giuoco due distinte maestranze. D'altra parte l'applicazione alle pareti, se alterò la tecnica non introdusse troppe novità decorative almeno finché fu in auge l'affresco. Fu sufficiente copiare dai pavimenti. Per citare un fatto, non abbiamo sinora esempi delle fantasiose architetture predilette dagli encausti e solo quando questi passarono ad altre figurazioni e ad altri ufficii, se ne valsero i musivarii cristiani che ornarono la cupola degli Ortodossi in Ravenna e di S. Giorgio in Salonicco. Le Sante città di Hyerusalem e Bethlem hanno invece precedenti indubbi negli sfondi di talune scenette di genere che appaiono in mosaici pavimentali romani. Più avanti si additerà quant'altro è passato dal pavimento alle pareti e poi alle volte. Intanto, non ci sembra azzardato dedurre che il titolo di «musivarius» (specie quando la progressiva fusione dei due generi cominciata sotto gli Antonini e i Severi fu avviata al punto, sotto Diocleziano (11), da non potersi talvolta distinguere dove finisca l'uno e dove incominci l'altro) si fosse ridotto da ultimo a qualificare l'artefice raffinato mentre il «tessellarius» spettava al mestierante comune.
Il rivestimento delle pareti e delle volte pose i mosaicisti di fronte ai frescanti, ai marmorarii del «sectile» ai modellatori degli stucchi. I primi, dicemmo, non ebbero molto a temere. A parte le ovvie ragioni materiali, militavano in favore dell'affresco serie ragioni estetiche. L'affresco può essere ammirato da vicino in ogni suo minimo particolare; il mosaico, anche rimpicciolendo all'inverosimile le tessere come si fece seguendo la tecnica dei quadri musivi al centro dei pavimenti (emblemata) riman sempre in prevalenza illusionistico e quindi sommario. L'affresco assorbe la luce e i valori coloristici rimangono in esso intatti; il mosaico, invece, specie nelle pareti, rifrange lai luce e confonde i colori in uno scintillio uniforme non sempre desiderabile. All'affresco è lecito riempire intere pareti a tinta in prevalenza unita con poche esili figurazioni; per il mosaico, invece, è condizione d'essere il vivo contrasto di colori e di luci e l'ampia trattazione dei soggetti.
Gl'intarsiatori di marmi, passati insieme ai musivarii dal pavimento alle pareti, contesero ad essi il campo che conquistarono quando s'avea bisogno di un partito decorativo prettamente architettonico e là dove il mosaico si sarebbe trovato esposto a deterioramento. Tentarono pure con successo la composizione pittorica (ricordo la basilica di Giunio Basso sull'Equilino) ma la sua maggiore schematicità e l'alto costo dovette limitarla assai. Rimase perciò un campo considerevole all'«opus musi vum» che aggredì anche le vite. Qui trovo resistenza negli artefici dello stucco intenti alle loro figurette ai loro motivi zoomorfici e floreali, candidi o rilevati con colori ed oro. Vi furono compromessi come già ve ne erano stati per il sectile, e le prime costruzioni cristiane ne dimostrano, almeno nelle pareti, l'effetto (mosaici e stucchi nel bassorilievo ravennate degli Ortodossi). Ma il campo libero doveva rimanere al mosaico che nelle vôlte trovò la sua sede naturale.
Vediamo ora alcuni esempi di mosaici parietali: il semicerchio inferiore di un'abside nell'oecus della casa rinvenuta sotto l'Arsenale di Susa (Tunisia) ha un mosaico a fondo di cubi marmorei bianchi e disegni in smalti e marmi (12).Figurano un vasto paesaggio marino con numerose barche solcanti le acque pescose. La riva s'incava in darsene semicircolari e un grosso pesce imbocca l'entrata del porto. Il mosaicista ha voluto trattare un soggetto analogo a quello che si ripeteva già nei pavimenti della stessa casa. È stato però più rozzo nella esecuzione e ha più peccato nelle prospettive. Questo resto ed altri minori sono preziosi per dare un esempio delle absidi con mosaici cui accenna qualche documento. Ma spesso manca o è irriconoscibile la parte superiore, per avere un'idea della quale bisogna rifarci con le note fontanelle di Pompei. Esse constano di una nicchia incavata in un frontoncino terminante a timpano. Fronte e nicchia hanno per intero il rivestimento musivo (quasi tutto smalti con pochi elementi eterogenei) in cui è notevole la spartizione degli elementi decorativi in zone ben distinte e cioè: il catino invaso da un'unica composizione, l'esedra sottostante spesso divisa in tre specchi da fasce verticali, il sottarco, la base a ornato continuo, e poi sul frontone: il timpano, i pennacchi fiancheggianti la fascia dell'archivolto e le fasce sottostanti che scendono all'imbasamento, Degno di attenzione è il soggetto del catino dove campeggia o una divinità del mare, o una tazza consacratoria (poculum) o girati d'acanto od altro, ma sopratutto attrae il grande velano a bordi multipli che include queste scene. Lo rivedremo, rovesciato sull'alto di molte absidi cristiane ove figurerà I'Empireo e includerà l'Agnus Dei la mano di Dio, la sacra Colomba, ecc.
Se le fontanine sono esempi di arte profana, esistono tracce di una larga utilizzazione in luoghi sacri. Non intendo riferirmi alle decorazioni di loculi catacombali in S. Ermete, in Ciriaca, ed altrove che ripetono un uso praticato anche in colombarii gentileschi (edicola nel Col. di Pomponio Hylas in Roma). Parlo invece di veri oratori non cristiani, come ad esempio i Mitrei e i sacelli dei Luperci. Un mitreo decorato nell'abside con mosaici di smalto a fondo verde e azzurro fu già visto nell'isola di Capri ma ora non rimane traccia di tale decorazione (13). Esiste invece ancora una nicchia del mitreo di Ostia, (II-III secolo) (14) trasportata al Museo Lateranense. È tutta a tessere di smalto ed ha un fondo turchino, tonalità che prevale anche nelle fontanine pompeiane. Su questa curva di cielo notturno appare una misteriosa figura vestita di candida tunica con angusticlavi rossi. II volto incorniciato di riccioli biondi spioventi sugli omeri e barbato spicca sulla luce di un nimbo bigio chiaro cerchiato d'azzurro. Ha sulle spalle il lembo giallastro di un manto, stringe in mano una roncola e gli va dappresso il fido cane. Lo si direbbe un Cristo o un Martire ed è invece il dio agreste Silvano. Quel che salta però all'occhio è la trattazione della scena. Gli arti della figura risultano stecchiti per una tecnica uniforme, rettilinea dell'ombra. E il drappeggio è appena segnato da righe debolmente sfumate, i lineamenti del volto sono ottenuti con poche righe tessulari brune e con risalti di luce e d'ombra assai mediocri. L'altare campestre a un lato della scena eseguito in cattiva prospettiva e lo schematico albero con rami verdi spruzzati di giallo, farebbero anch'essi classificare il mosaico alla decadenza bizantina mentre invece è della buona epoca imperiale.
Non soltanto ad oratorii di culti esotici s'applicarono i mosaici ma anche a sacelli interamente dedicati ai numi indigeti. Valga il seguente esempio che sfuggi a tutti gli storici del mosaico: L'8 gennaio 1603 fu rinvenuta in Roma presso S. Lorenzo in Panisperna una basilichetta a tre navi divisa da colonne e terminata da un'abside (non è chiaro se rettangolare, o curva) cui precedeva la fronte con l'arco, diremo, trionfale e sott'esso l'altare sopraelevato di qualche gradino. Il Lanciani pensò ultimamente d'identificare l'oratorio con una basilica Crepereia conosciuta per altre fonti. Quasi certamente era un oratorio privato del III secolo e serviva al culto lupercale (15). Infatti vi troneggiava nel mezzo dell'abside (come fanno vedere uno schizzo di anonimo ed altro del Grimaldi, presente alla scoperta) una lupa con i gemelli fondatori. Due figure musive di Luperci colla ferula stavano sui piedritti dell'arco, una figura guerriera (Marte, forse) formata di tessere vitree era in un disco di stucco alla sommità dell'intradosso, flessuosi racemi vitinei partenti da cantari e intramezzati da putti vendemmiatori ornavano tutta la fronte della parete e dell'arco completando la bella decorazione musiva. Le pareti delle navi minori avevano rivestimenti di porfidi e serpentini; della vôlta a botte nulla si sa.
Non v'è bisogno di additare la grande affinità fra questa basilicula ed i posteriori edifici cristiani. Rivediamo in essa l'abside decorata se non proprio nel catino (dal quale potevano essere cadute le tessere), almeno nel semicerchio inferiore, l'arco trionfale coperto di mosaici, perfino il clipeo al sommo dell'intradosso coll'immagine e il simbolo divino. Ed è importante constatare che anche qui era affidata al mosaico la decorazione della parte più veneranda. Nella basilica di Giunio Basso, ove tutto era affidato al «sectile», si vedeva già attuata l'idea dei quadri storici sulle pareti laterali della navata, e con ciò si completa il tipo di sistemazione decorativa che passò alle basiliche cristiane.
Quanto abbiamo detto riguarda la tecnica e il collocamento delle zone a mosaico. In merito ai soggetti rappresentati abbiamo visto e vedremo tutti i temi che integralmente furono acquisiti dagli artisti della nuova religione. Cambiarono, e non poteva essere altrimenti, le principali iconografie, che si trassero dall'arte delle catacombe. Già, sin dalla fine del III secolo, essa aveva trattato le tre scene che prevarranno nelle absidi: il Cristo tra gli Apostoli (Maiestas Domini). il Cristo che dà la legge ai SS. Pietro e Paolo (Dominus legem dat) il Cristo fra Santi. Erano pervenute direttamente dall'arte profana in cui si vede spesso l'imperatore che dà un plico a un suo aiutante, o il medesimo che fa le largitiones, ovvero un filosofo, un poeta, che ammaestra o declama fiancheggiato dai suoi uditori. D'ispirazione pagana era anche la scena della defunta introdotta al paradiso dal Santo protettore (receptìo) che manifestamente ha generato il tipo dell'offertore della basilica preceduto dal Martire del luogo. In uno o due esempi ritorna la figura del Buon Pastore (mosaico scomparso dall'atrio del Battistero Lateranese e fors'anco il mosaico frammentario con soggetto pastorale, in S. Aquilino di Milano. Il soggetto di quest'ultimo ha i suoi prototipi anche in sculture classiche) (16). e in altri si vedono campeggiare le volute d'acanto (Mosaico in Cappella SS. Rufina e Seconda presso detto Battistero) motivo di pura decorazione che già appare in una fontanina di Pompei (casa della Piccola Fontana) e in due absidiole musive di una sala termale del II secolo in valle dell'Incastro e che pure troviamo frequentemente nella scultura classica (cito il conosciuto frammento dell'Ara Pacis e una poco nota transenna, ora nel secondo cortile di Palazzo Mattei).
L'arte delle catacombe era già fortemente impressionistica e, costrettavi dalle esigenze naturali dei luoghi, praticava sin dai primi tempi la divisione delle zone di colore, prediligendo le tonalità più decise. Si trovava quindi in grado d'esser tradotta in mosaici. Così dalla unione della corrente profana e dalla cristiana ha origine l'arte musiva basilicale. Nel IV e nel V secolo essa possiede ancora un classico respiro. Gli ornati hanno una compostezza superba, le figure vi sono costruite solidamente e tendono al rilievo, un audace divisionismo ritrae potenza d'effetti non dalla minuta giustaposizione di mezzetinte, ma dall'audace accostamento di toni marcati, dal far vibrare luci complementari, riflessi, ombre con semplicità di mezzi e con sicura intuizione dell'effetto a distanza.
Più tardi i colori si stenderanno per zone piatte su cui l'ombra stenta a prodursi e appena sbava dai bordi, i quali, per individuare la figura sul fondo, debbon essere fortemente segnati di nero. Traccia di questa naturale decadenza è già nel pavimento teodoriano di Aquileia.
Alle deficienze supplirà in parte l'abuso degli effetti di luce aurea.
Le tessere di vetro con foglia d'oro furono tardivamente e raramente usate dai Romani. Affermare che l'aggettivo aurea della domus neroniana si riferisca alle sue decorazioni in mosaico d'oro è avanzare una ipotesi senza alcun fondamento, Il Furietti pretese di averne trovato traccia nella villa Adriana, costrutta, come si sa, nel II secolo, e il De Villefosse ne rinvenne un cubo nel mosaico proveniente da Utica (ora nel Louvre) che pure si attribuì a detto secolo. Ma più evidenti vestigia se ne hanno nel III. Il Müntz le additò nel Palatino e nelle terme Antoniniane, il Gauckler a Medeina, (Africa) (17). I due noti clipei catacombali di Maria Simplicia Rustica e Flavio Giulio Giuliano (IV secolo inoltrato) (18) hanno le incorniciature di grosse tessere auree mentre i fondi sono di colore. La massa vitrea su cui posa la foglia d'oro è in questi primi mosaici quasi trasparente; più tardi, nota il Müntz, diverrà opaca. La dimensione delle tessere d'oro e di smalto diverrà, dal IV secolo in poi più grande. E la cosa si spiega: finchè il mosaico parietale aveva un uso ristretto ed era considerato come un lusso d'eccezione, gli artisti, poco addestrati agli effetti a distanza, usavano tessere generalmente minute come se dovessero comporre la parte più eletta di un pavimento. Quando il mosaico rivestì ampiamente interi edifici si comprese l'inutilità di questo lavoro troppo raffinato e si guadagnò tempo usando cubi grossi quasi fossero piene e fresche pennellate di colore.

II.

Al nostro rapido studio manca un cenno sulla decorazione musiva delle vôlte a botte e a cupola.
Noi non abbiamo più esempi di vôlte pagane decorate di mosaici, ove si eccettui un rivestimento visto dall'Ashby e dal sottoscritto in un edificio circolare del II sec. nella valle dell'Incastro (presso Tivoli) (19), tracce indirette a villa Adriana, qualche zona di malta e poche tessere ancora a posto nelle vôlte delle esedre delle terme Antoniniane (20), nel vestibolo del palazzo di Diocleziano a Spalato (edificio che, per un breve inciso del quattrocentista spalatino Marco Maroli, sappiamo ben più rivistito di mosaici) (21) e in pochi altri luoghi. Crediamo che la caducità di questo genere di decorazione ci abbia privato di molti esemplari. Tuttavia, da ciò che resta, ci sembra di poter indurre che l'uso più frequente di mosaici nelle vôlte data dalla fine del secondo secolo, che si adoperavano in gran parte delle tessere di vetri colorati, che i fondi prediletti erano il turchino e il bianco, che le tessere a foglia d'oro vi erano inserte con parsimonia (22). Ma quali erano i temi decorativi di queste vôlte? Possiamo farcene un'idea, per quanto incompleta, rievocando quello che è e che fu il rivestimento del mausoleo eretto verso la metà del secolo IV sopra la tomba porfirea di Costantina, moglie del Cesare Gallo. Esistono ancora in esso i mosaici della vôlta anulare. Quelli della cupola furono barbaramente distrutti nel rifacimento del 1620 operato dal Card. Veralli, ma ce ne restano disegni parziali, del Sangallo, di un anonimo del sec. XV (Codex Escurialensis), di Francisco de Hollanda, di Ugonio, di Pier Sante Bartoli (23).
Il concetto ispiratore dell'ornato di questa cupola consistette nel dividerla in settori a mezzo di montanti lungo le nervature ed indi interrompere ogni settore con degli elementi trasversali sì da creare degli spazi quadrati o triangolari da riempire con soggetti minuti. Un simile schema decorativo è indicato in pianta da alcuni mosaici circolari od ottagonali di pavimenti romani. Notissimo quello (trovato nelle terme d'Otricoli) che sta nella Sala Rotonda del Museo Vaticano. Ha bande divisionali decorate da un meandro prospettico (ornato che ritroveremo a Galla Placidia e altrove) e settori attraversati dal giro di una ghirlanda, da una treccia, da una fascia triangolata, da altra fascia di meandri mentre le riquadrature interposte includono scenette marine o di combattimenti mitici. Al centro vi è un disco a scaglie bianco-nere simili a quelle che si vedono sulla citata colonna di mosaico e sulla fontanina della casa del Centenario a Pompei. Senza dubbio la razionale tendenza degli artisti romani cercava molto spesso delle rispondenze tra il motivo del pavimento e quello della sovrastante cupola, e noto che questo genere di pavimenti poteva servire anche se, invece del mosaico, vi fosse nella cupola il tipico cassettonato romano generato dagli incroci di bande orizzontali parallele con radianti verticali. Anzi lo scomparso mosaico della cupola di S. Prisco, basilica presso Capua Vetere, conservava l'immagine di questa più rigida spartizione (24), solo che in ogni riquadro, in luogo dell'incavo a cassettone, eravi una superficie piana di mosaico includente due figure di martiri, o due palombe ai lati di un vaso (è la decorazione delle note colombe pliniane che si rivedrà nel battistero di Napoli), o un fiore stilizzato. Nel culmine tondeggiava un disco (il cui soggetto fu forse interpretato male dal Mazzocchi) circuito da una ghirlanda di foglie e frutta che si ripeteva più ampia alla base della cupola, ove pure s'animava d'un folleggiare d'amorini. Non sappiamo se questa cupola fosse contemporanea o posteriore di un secolo a S. Costanza. Dove per altro si mascherò la crudezza delle bande lisce con leggiadre creazioni. Così il montante era sorretto da una cariatide che sbocciava da un fiorame d'acanto fiancheggiato da due mostri e reggeva una candeliera floreale mettente capo, in chiave, a un velario. Così la zona di base era circuita da un tratto di mare su cui ferveva una pesca condotta da Eroti (motivo che già vedemmo in mosaici d'Africa e d'Italia) mentre le scenette mistiche parevano svolgersi sulla spiaggia. Così la divisione transversale era attuata in atto con volute d'acanto che si riunivano a mo' di tendaggi. Nella cupola del Battistero di Napoli (inizio V secolo?), ove tuttavia la cariatide è scomparsa, la candeliera è sostituita da una banda carpofora, le volute d'acanto divisionali hanno lasciato il posto ad autentici tendaggi. Le scene però sono sempre in basso mentre la zona superiore ha figurazioni simbolico-decorative. Il velano mediano si è aperto per mostrare il cielo stellato. Nel battistero degli Ortodossi (sec. V) in Ravenna torna la divisione a candeliere fogliacee in funzione di supporti del clipeo centrale che lascia, come a Napoli, pendere festonature di tendaggi. Nel Battistero degli Ariani (secolo VI) la candeliera è sostituita dal palmizio.
(Continua)
CARLO CECCHELLI

(1)Vedi specialmente per tali questioni: HARTEL e FR. WICKOFF: Die Wiener Genesis. Wien, 1895, nonchè il Manuel d'art byzantin del DIEHL. Dello STRZYGOWSKI mi basti citare l'Orient oder Rom, Leipzig, 1901.

(2)Fra le contribuzioni che l'imperatore Aureliano impose all'Egitto il vetro figura in primo luogo (VOPISCO: Vita Aurel, ed. Teubner II, 167, 33). In quest'epoca è lecito credere che si trattasse della materia bruta. Cosi i mosaicisti del tardo medio evo si servivano a Venezia.

(3)Non parlerò dell'opus alexandrinum poichè tutti i manuali lo definiscono, ma in realtà non sappiamo con precisione in che cosa consistesse. Forse si accostava all'opus sectile.

(4)H. N. XXXVI, 14 "Scena ei triplex in altitudine CCCLX columnarum; una pars e marmore fuit, media e vitro, inaudito etiam postea genere luxuriae".

(5)Vedi la notizia di Filostrato nella vita di Apollonio Tianeo (ed. Westerman, Paris, 1849, p. I-25).

(6)"Effulgent camerae vario fastigia vitro in species animosque nitent". Silvae I. 5, 42 43 (Balneum Claudi Etruscii). V. pure I'iscr. C I. L. VIII, 1323 (camerarn opere musibo exornavit) e l'ep. 42 I. VIII di Simmaco (novum musivi generis et intentaturn ornandis cameris). La parola "vitrum" rimase per tutto il medio evo a designare il mosaico di smalto, mentre il nome smaltum, che compare per la prima volta nel Liber pontificalis, nella vita di Leone IV (847-855), risulta attribuito ad oreficerie con inserzioni di paste vitree.

(7)Ricordare la distinzione degli stili pompeiani fatta dal MAU. Per il quadretto della casa di Apollo debbo l'informazione alla grande cortesia del prof. Aurigemma il quale anche sospetta che una indagine su parecchi mosaici staccati in passato (p. es. quello delle Grazie ora nel Museo Naz. che è simile come tecnica al descritto) potrebbe accertarne la provenienza parietale. anzichè pavimentale.

(8)I resti di queste famose tarsie sono al Museo Capitolino e al palazzo del Drago in Roma. È noto che il disegno della decorazione della basilica fu rilevato da Giuliano da Sangallo nel libro di schizzi barberiniano (pubblicato dall'HUELSEN).

(9)Nome di sconosciuta etimologia (v. DU CANGE, Glossariv: musivaria ars).

(10)Cod. Theodos. XIII 4, 2.

(11)Vedi GAUCKLER: Musivum opus in Dictionnaire d'Antiquités grecques et rom., di DAREMBERG-SAGLIO lettera M, p. 2108.

(12)Revue archéol., 1897, II, p. 15. (Les mosaïques de l'Arsenal à Sousse).

(13)Notizia che debbo alla cortesia dell'amico prof. G.Q. Giglioli. V. pure CUMONT, Textes et Mon., II, 252.

(14)Annali dell'istituto di corrispon. archeol., 1864, p. 174 e s., tav. L, M, 3; vedi pure B. NOGARA: I mosaici antichi conservati nei palazzi Pontifici, Hoepli. 1910, tavola LXVII, p. 32. Il Nogara fu conscio dell'importanza di questa absidiola quale precedente dell'arte cristiana basilicale. Vedi pure la conferenza dello stesso: Mosaici di Roma Antica, tenuta all'Associazione Cultori d'Architettura il 25 febbraio 1909 e pubbl. in ?Conferenze e Prolusioni? n. 20, anno III, 1909.

(15)Bull. Comm. Archeolog. Comunale di Roma, 1891, p. 305, tav. XII-XIII e stesso Bollettino 1921, III fascic. (articoli LANCIANI).

(16)Per le pitture delle catacombe vedi la nota opere dello stesso WILPERT. Per i mosaici basilicali che menzioniamo vedi la recente opera dello stesso (Die Römischen Mosaiken und malerein der Kirchlichen bauten von IV bis XIII Iahrhundert - Freiburg im Br. , ed. Herder, 1917 - I band.; testo e relativo volume di tavole) da cui sono tratte anche alcune nostre illustrazioni.

(17)Vedi FURIETTI: De musivis, p. 50; MÜNTZ: La mosaïque chrétienne, p. 34-35; GAUCKLER in Bulletin Arch. du Comitè, 1903, p. 419; DE VILLEFOSSE in Bulletin des antiquaires de France, 1893, p. 76. A Pompei, osserva il Müntz, non vi sono tessere auree. Un giallo zafferano sembra tenere il posto. Osservo peraltro che tale sostituzione fu usata anche dai mosaicisti medievali, quando avevano defetto di tessere auree. Vedi ad esempio le vôlte di Albenga e di Casaranello e l'abside di S. Aquilino. L'ENGELMANN crede che pel masaico d'oro non si possa andar più indietro del secolo III.

(18)Provengono dal cimitero cristiano di Ciriaca sulla Tiburtina. Recentemente son passati al Museo Lateranense dalla collezione Chigi ov'erano conservati. Son riprodotti a colori dal DE ROSSI nella nota opera sui Mosaici delle Chiese di Roma (tav. I). Per i colombarî profani v. l'articolo di LUGLI in questa Rivista anno I. fasc. 3, fig. 2.

(19)È forse che lo sappia l'unico esempio di un edificio classico con quasi tutta la sua decorazione musiva ancora a posto. Lo additò per primo l'ASHBY nei Papers of the British School at Rome, III, n. 1, p. 104-105 (vedi anche il The Builder 1911, 15 settembre, p. 305). Io, mercè la cortesia del dott. Lugli e del prof. Iovannoni (quest'ultimo mi accompagnò sul posto) posso darne più ampia notizia. La cupola è tutta a rivestimento di tessere minute di marmo bianco (compreso il foramen dell'alto). Vi sono poi nel cerchio inferiore due absidiole che hanno, solo nel catino, un disegno di volute d'acanto partenti da un tirso centrale. Non potendo dare una fotografia per le condizioni malagevoli del luogo, unisco qui un schizzo del mio caro amico arch. Fasolo. Il fondo fondo di questi catini è bianco. Le volute sono a tesserine di smalti verdi chiari, turchini, azzurri e cosa strana, anche incolori. La malta di adesione è una polverina bianca forse composta di polvere di marmo e calce di travertino. Riguardo l'edificio il prof. Giovannoni mi fa osservare la sua somiglianza con una sala circolare delle piccole terme di Pompei riprodotta dal RIVOIRA nella sua Architettura romana, Milano 1922. Riguardo al genere di decorazione credo significativa la vicinanza della Villa Adriana la quale nel Canopo aveva sicuramente dei mosaici parietali con smalti di cui anzi furono trovati pezzi informi, le cosiddette "pizze di mosaico". Vedi LANCIANI, Guida della Villa Adriana, Roma, 1906, p. 26 e P. GUSMAN: La ville imperiale de Tibur.

(20)Nelle esedre della palestra. Spesso, causa gli agenti atmosferici, si possono trovare per terra delle tessere staccatesi dall'alto. Così afferma RIPOSTELLI: La Via Appia, Roma 1908 p. 427. Anche nei palazzi imperiali del Palatino vi sarebbe traccia di rivestimenti musivi a smalti e marmi tra cui qualche tessera aurea. Ciò a quanto asseriva il MÜNTZ: La mosaïque, cit., p. 35.

(21)Vedi la nota del BULIC in Bull. Di Archeol. e st. dalmata, XXXV, 1912, p. 65, 67. Vedi pure lo stesso Bellettino 1908, tav. XX, fig. 2. I tasselli trovati sono di vetro verde. Il Maroli (1450-1524) asseriva che nei "tria templa" (così designava le costruzioni circolari) "intus tessellarum pictura, qua exornata fuerant, alicubi adhuc visitur".

(22)In S. Costanza per esempio, al dire dell'Ugonio, servivano per alcuni particolari e, specie per le lumeggiature.

(23)Vedi per tutti costoro oltre le citate opere di DE ROSSI e del WILPERT, lo studio dello JUBARU in L'Arte (1904, pag. 457).

(24)Unico ricordo di questo mosaico scomparso è la stampa del MAZZOCCHI: Sanctuarium Campanum. Napoli, 1630, che riproduciamo.


P.S. Visitando recentemente il Museo Capitolino a palazzo dei Conservatori ho riconosciuto un importante mosaico parietale. Rappresenta una nave che a vele spiegate entra in porto. Una figuretta di marinaio risalta per vigorose ombreggiature. Le fiancate, le sarte son tutto un correre di righe policrome. Il cielo è di turchino profondo, il mare è un accavallarsi di varie gamme verdi. Prevalgono le paste vitree e vi ho pure trovato il vetro incolore che notai a Val dell'Incastro. Ma i bianchi, i cenere, e qualche altro tono, sono resi con pietruzze. A posto delle lumeggiature d'oro spicca una pasta giallo viva.
Ho fatto qualche ricerca su quest'opera nel Bullettino della Commiss. Arch. Comunale Roma e ho trovato che se ne parla brevemente nel 1878 (anno VI. serie II. pag. 276) confermandosi che è parietale, che proviene dalla Via Mazzarino (cioè da un edificio molto prossimo alle terme Costantiniane) e che il De Rossi, attribuendolo (non so con quali argomenti) alla casa di Claudio Claudiano, ne prometteva una illustrazione che ignoro se sia apparsa. Circostanze topografiche e lo stile fanno collocare il mosaico al IV secolo. Del resto il gruppo di aristocratici edifici delle adiacenze, scoperti per l'apertura del tratto della Via Nazionale presso la Villa Aldobrandina, aveva altre ricche decorazioni. Nel gruppo in cui fu trovate il suddetto mosaico vi era un ninfeo con le pareti ampiamente rivestite di mosaici figuranti una serie di pilastrelli ai cui collarini si legavano dei festoni floreali. In basso germinavano su fondo giallastro (tessere di pomice dipinte in gialle) dei fiori campestri. Nel mezzo, su fondo turchino intenso, degli aurighi col capo raggiante slanciavano i quattro corsieri dei carri. L'iscrizione di un auriga lo denominava: ALTHONI (v. Bull. Cit., 1877, p. 59 e tav, I-III).

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