FASCICOLO III - SETTEMBRE OTTOBRE 1921
GUSTAVO GIOVANNONI: Un quesito architettonico nel chiostro di Monreale, con 26 illustrazioni
Il mirabile chiostro che è certo uno dei maggiori capilavori dell’ arte italiana dei secoli XII e XIII, e che mostra ancora nella più bella e vivace espressione i fiori ivi raccolti da tutte le regioni d’Italia, pre-senta nella composizione architettonica ai nostri occhi di gente moderna una "anomalia", davvero singolare. Al disopra delle sottili, elegantissime colonne, disposte ap-paiate ovvero, negli angoli, riunite in gruppi di quattro, comincia la struttura muraria massiccia e sporgente delle arcate, imme-diatamente e bruscamente sovrapponendosi agli abachi dei capitelli. La costituiscono conci di rozza pietra tufacea, che appare esternamente nei due larghi archivolti so-vrapposti, decorati da incrostazioni di lava a disegni geometrici; e nelI’intradosso delle arcate un grosso cordone di pietra è unito ai conci e ne segue l’andamento fino a terminare in basso non già poggiato su di una cornice di imposta, ma pensile, nettamente tagliato da un piano orizzontale e sporgente in falso.
Questo apparente contrasto di tipo e di aspetto, questa disposizione inorganica di un elemento così importante hanno dato molto da pensare a taluni studiosi, guidati da quei preconcetti e da quei pregiudizi di ordine storico o di ordine estetico, che così spesso fanno divenire, a scapito della realtà e della esatta conoscenza dei monumenti, troppo complesso quello che è semplice, troppo semplice quello che è complesso. Primo tra tutti, il Gravina, a cui pur si deve una davvero interessante illustrazione del monumento e degli altri che vi si rian-nodano (1), ha proposto un’ipotesi: la zona superiore sarebbe superstite di una costru-zione antica, appartenente al tempo di S. Gregorio Magno; l’inferiore invece, del periodo di Guglielmo II, si sarebbe sosti-tuita con le sue esili colonnine di marmo ai grossi pilastri su cui le arcate del VI secolo erano appoggiate. Vi si sarebbe so-stituita mediante un abile e paziente lavoro di puntellatura, di demolizione e di accu-rata posizione in opera.
Nelle arcate di Monreale sarebbe, in altre parole, avvenuta una trasformazione non molto dissimile da quella effettivamente subita nel Seicento dai portoni dei palazzi romani, quando la necessità di allargarne la luce per consentire il passaggio alle car-rozze portò spesso a tagliare gli stipiti di porte esistenti, o foggiando a mensola il raccordo, o riprendendo con diverso motivo la zona basamentale.
L’assurdo di tale ipotesi del Gravina, sia nell’attribuzione di tempo e di stile della parte superiore, sia nelle modalità del la-voro difficile ed ozioso della sottomurazione, sia infine nel goffo disegno pseudo-gotico secondo cui il Gravina ricompone l’antico portico, appare davvero evidente; e lo ha dimostrato così perspicuamente il Boito nel suo studio sulle chiese siciliane del Medio Evo (2), che non occorre davvero ritornarvi. Ma pure non sono mancati studiosi egregi, quali ad esempio, il Damiani ed il Salinas (3), che alla fantastica supposizione hanno an-cora prestato fede; non sono mancati e non mancano coloro, i quali, pur ammettendo tutto il chiostro sorto in un solo periodo, seguitano a domandarsi il perchè di un così grave squilibrio di massa, e seguitano a ritenere quella disposizione terminale del cordone interno degli archi quale una singolare anomalia: o tentativo o pentimento.
Non è, come vedremo, nè l’uno, ne l’altro. Ma è naturale che così sembri a chi considera il monumento col proprio criterio personale, o chiude i propri studi entro la porta del monastero e non guarda al di là; potrà questo osservatore locale compiere miracoli di analisi, determinando ad esempio la successione dei vari periodi costruttivi in cui il chiostro, cominciato dal lato adiacente alla chiesa sotto il regno di Guglielmo il buono, man mano si svi-luppò nel paziente lavoro dei benedettini; potrà classificare con minuta osservazione l’opera d’intaglio che mirabilmente germoglia nei duecento capitelli del chiostro ed assegnarla alle varie maestranze, od addirittura alle varie mani di artefici; ma le ragioni vere, i veri caratteri dell’orga-nismo architettonico gli sfuggiranno sempre se non unirà lo studio a quello di altre opere prossime o lontane e non cercherà di risalire le correnti d’arte che le hanno determinate.
Limitando per ora siffatti raffronti ad elementi vicini per tempo e per luogo, tre chiostri siciliani si presentano: il chiostro di Cefalù e quello degli Eremitani in Palermo, il chiostro della Trinità della Magione anche in Palermo, Per tutti e tre, come pure per quello di Monreale, i dati sto-rici sono abbastanza precisi e sicuri. E di vero la storia artistica siciliana di questo periodo, parte per la fortunata conserva-zione delle fonti archivistiche, parte per la sapiente elaborazione di studiosi quali il Rocchi Pirri, l’Amari, lo Starabba, il Sa-vagnone, lo Spata, il La Lumia, il Patricolo, ecc., ha su quella di qualunque altra regione d’Italia nel Medio Evo il grande vantaggio di una documentazione ben de-finita ed attendibile; sicchè non mancano, come invece mancano ad esempio per la architettura lombarda, i capisaldi certi a cui riannodare induzioni e raffronti stilistici.
Quasi coevi fra loro sono il chiostro degli Eremitani in Palermo e quello del duomo di Cefalù (4). Il primo era già costruito (secondo i diplomi di fondazione pubblicati dal Rocchi Pirri) nel 1148 (5); il secondo deve essere di poco più tardo della costru-zione della cattedrale, che può ritenersi ter-minata intorno al 1145. Ambedue dunque sono anteriori al chiostro di Monreale, come, del resto, è già stato in parte notato seguendo la via dello studio elementare nello sviluppo stilistico (6). Contemporaneo o alquanto posteriore e invece il chiostro della Magione, aggiunto alle chiese di S. Maria del Cancelliere e della Trinità della Magione forse dopo il 1171 (2), per opera di quel Matteo d’Ajello che è una delle più salienti figure del tempo dei Guglielmi, attraverso le cui vicissitudini egli e l’arcivescovo Gualtiero rimasero, secondo quanto dice Riccardo di S. Germa-no, "quasi duobus columnis firmissimis".
Orbene col modello, tanto più bello e più vasto, di Monreale i due primi chiostri hanno a comune il motivo generale delle massiccie arcate ad ogiva, formate da semplice o da doppio archivolto, rette da colonnine sottili; e neanche interviene in essi ad ingentilirne la massa quella elegante decorazione a disegno geometrico di incrostazioni marmoree che ristabilisce l’equilibrio con l’introdurre l’ornato ed il colore a frastagliate la superficie e ravvi-vare l’effetto. Quanto al chiostro della Magione, di forme alquanto più rigide e secche di quello monregalese, l’analogia appare nella disposizione del contrarco interno uscente in sporgenza e tagliato netto al suo nascimento, cioè appunto l’ "anomalia" notata per Monreale. Era fino ad ora tale disposizione appena visi-bile, poichè tutte murate erano le arcate superstiti del chiostro; appare ben evidente ora che se ne è iniziato il restauro a cura della Sovraintendenza ai monumenti della Sicilia ed in particolare dell’egregio So-vraintendente Arch. Valenti, al quale devo l’interessante rilievo riprodotto alla fig. 5-6.
Tale concordanza assume dunque il va-lore di un argomento decisivo per battere in breccia l’assurda ed artificiosa ipotesi del Gravina o qualunque altra analoga; col mostrarci infatti, a breve distanza di tempo e di luogo, la ripetizione dello stesso sche-ma costruttivo e morfologico, ci prova essere questo dovuto non ad una combinazione accidentale, ma a voluta espressione stilistica nel concetto d’insieme e perfino nei particolari. Forse ad esempio, per chi os-servi solo il chiostro di Monreale potrebbe presentarsi la supposizione che fosse inten-dimento degli artefici di rendere men brusca la sporgenza del contrarco raccordandola e foggiandola a mensola con una lavorazione sul posto che poi di fatto sarebbe mancata; ma anche questa modesta ipotesi secondaria va esclusa dalla testimonianza ora indicata, chè certi casi specialissimi non si ripetono due volte.
La spiegazione del quesito va dunque cercata non tanto nel monumento, quanto nello stile a cui questo appartiene; e non è difficile trovarla. Ma come sempre av-viene per le questioni stilistiche, nelle quali è tutta la complessità di una vita di co-struzione e di arte (a cui troppo spesso noi sostituiamo il semplicismo delle for-mule), la trattazione mal si costringe in breve spazio, sicchè forse le sono termini insufficienti le poche linee di queste note…
Un’osservazione occorre premettere, per sdoppiare nettamente nel chiostro di Mon-reale il generale tipo architettonico dalle forme ornamentali. L’arte della scoltura decorativa è rimasta bene spesso nelle opere medioevali e nelle loro propaggini (come del resto era già nel periodo romano) ben distinta da quella del muratore e dello squa-dratore di pietra: diverse le maestranze, diverse le tradizioni, diverse le influenze e le correnti stilistiche. Quando in un unico monumento venivano ad associarsi, cia-scuna recava seco la sua espressione; nè esisteva a coordinare i vari concetti l’unità direttiva di un architetto, nel senso mo-derno che noi diamo alla parola.
Così quando nel chiostro di Monreale la munificenza di Guglielmo II e la tenacia dei monaci vollero erigere un’opera ma-gnifica che lasciasse indietro qualunque altro edificio dello stesso genere, da ogni parte dell’Italia meridionale e centrale fu-rono chiamati artefici a scolpire colonne e capitelli; ed ecco il marmorario Romano figlio di Costantino, ecco i maestri pugliesi affini all’arte di Bartolomeo da Foggia, ed i maestri che lavorarono in Santa Restituta in Napoli (8); ecco tutte le fiorite eleganze dell’arte romanica e dell’arte neo-campana, le ricerche audaci nelle rappresentazioni fi-gurative. Ma i muratori e gli apparecchia-tori della pietra furono invece artefici locali e, pur coordinandosi al lavoro dei marmorari, seguirono nello zoccolo e nelle arcate le forme ed i procedimenti tipici, in quel momento, dell’architettura siciliana.
Non diversamente, per citare un esempio che ha con questo una analogia significa-tiva, nel cortile dell’attuale Episcopio di Algeri, (9) i capitelli delle colonne, le porte, le cornici, appartengono alla più pura arte del nostro Rinascimento, sono opera diretta di artisti italiani, mentre le arcate a ferro di cavallo del duplice portico ed il loro rivestimento sono di schietta arte araba, di cui solo la regolarità stanca rivela un epoca relativamente tarda (fig. 7).
E l’arte architettonica del chiostro di Monreale, e più in generale di tutta la Sicilia nei secoli XI e XII, è anch’essa essenzialmente arte araba. Molto invero sulle caratteristiche e sulle derivazioni di codesta arte si è discusso, e le discus-sioni si sono tradotte nei nomi più sva-riati, di cui quello che ha avuto maggior fortuna è stato il Normanno-siculo (10); ed ancora certo non può dirsi pienamente definito il complesso tema stilistico. Ma pure man mano che gli studi storici ci testimoniano i molteplici rapporti tra la civiltà araba e la siciliana interceduti non solo nei duecento anni di dominazione, ma anche in un lungo periodo successivo, i raffronti artistici determinano intanto sempre più le grandissime influenze che collegano l’architettura siciliana nel tempo della sua mag-gior fioritura con quella delle popolazioni musulmane di tutto il bacino del Mediterra-neo e specialmente dell’Egitto. Palermo non ha più traccie del castello degli Emiri e delle trecento moschee vedute nel X se-colo da Ibn Hankal, ma ha gli archi, le stalattiti, i pennacchi, le cupole, le creste traforate di coronamento, le riquadrature parietali, gli archi a bugne, gli archetti in-trecciati, i musaici e gli intarsi policromi, che, pur rivestendo talvolta organismi co-struttivi di tipo occidentale come la basi-lica, il chiostro, il campanile, sono arabi o derivati dall’arte araba: nella Cappella Palatina, nella Cuba, nella Zisa, in S. Gio-vanni degli Eremiti, nella Martorana, in S. Cataldo, in S. Spirito, ecc.
Man mano che questa diretta parentela sempre maggiormente si afferma nella co-noscenza dei monumenti, perde terreno la tesi dell’influenza normanna, che si con-fina in qualche particolare d’intaglio in pietra, od in qualche elemento della dispo-sizione generale, come nelle due torri laterali alla facciata delle chiese o come nella galleria superiore nel transetto della cattedrale di Cefalù. E non è improbabile che col tempo si scorga che forse mag-giori son stati gli influssi siciliani nell’arte francese che non i normanni nella sicula, e che ad esempio, nel campanile della Trinité a Caen o più tardi in quello della cattedrale di Angoulème c’è una deriva-zione dal tipo che si afferma in quello della Martorana in Palermo; che nei tim-pani di porte decorate di ornamenti geo-metrici nelle chiese di Normandia, come fra le altre a Beauvais (11), si ritrova il mo-dello in tante chiese di Sicilia e dell’Italia meridionale; che infine, in particolare, lo speciale motivo di ornato a zig-zag, finora ritenuto caratteristico dell’arte normanna, sia invece di origine orientale, e che i tanti esempi che se ne possono citare in Nor-mandia (a Caen, a Cerisy la Forêt, a Loupiac, ecc.), od in Inghilterra (a Durham, a Norwich, a Bristol, ecc.), non siano che una derivazione terziaria, attraverso quella secondaria dell’architettura siciliana (12).
Ma, ritornando all’Arte araba ed al nostro quesito, un rapido sguardo ai mo-numenti di tutti i tempi e di tutti i luoghi che segnano l’affermarsi della potenza e della religione musulmana (15), basta a per-suaderci che non solo nel tipo dell’arcata è frequentissimo il concetto dell’arco che inizia in strapiombo, ma che, più in ge-nerale, lo sporto dei piani superiori sugli inferiori, nell’ insieme delle facciate come in ogni particolare architettonico, è una caratteristica abbastanza comune, sia pure illogica ed anticostruttiva, di quei monu-menti. L’arco a ferro di cavallo così frequente nell’architettura spagnuola, ed il tipo, costruttivo o decorativo, dell’arco ad ogiva formante la figura dell’W sono di questo concetto le più tipiche espressioni stilistiche.
Esempi che dimostrano tale asserto po-trebbero citarsi a migliaia: in monumenti grandiosi od in umili case, in edifici antichi od in opere recentissime ove la tradizione sopravvive, in schemi semplici ed in mo-delli a brusca sporgenza (come nella mo-schea di Cordova), o con elementi orna-mentali complessi che formano raccordi e costituiscono mensole (come nell’Alhambra e nell’Alcazar). Nelle arcate della antica moschea di Amru a El Fostat (vecchio Cairo) è ancora timido risalto, in quelle della grande moschea di Damasco si asso-miglia ad un pulvino bizantino. Nelle mo-schee di El Azhar (fig. 8), di EI Akmar, di Talai Ruzîlc al Cairo l’aggetto enorme è ottenuto con un immediato ampliamento del-l’abaco dei capitelli. Nella moschea di Ka-laûn al Cairo come anche nella Medersa Atarine a Fez (fig. 21), la disposizione in falso si inizia alquanto più su dell’abaco e non è soltanto nei piedritti laterali por-tanti gli archi, ma pure in una specie di pilastro frontale; ed analogamente tra gli archi intrecciati della moschea di Cordova spunta in fuori il supporto di una colon-nina frontale che sorregge un secondo ordine di archi...
E così in una serie di altre applicazioni architettoniche od ornamentali nel nasci-mento degli arconi del palazzo di Kobbat al Faduieh presso il Cairo, od in quello delle nervature nella cupola che copre il Mirhab della moschea di Cordova, in quello del singolarissimo tipo (fig. 4) dei pennacchi a tromba (siano poi essi originari della Persia o dell’Armenia), nella confor-mazione stessa della volta ad alveoli (di cui il Briggs e lo Spiers recentemente, contraddicendo il Fergusson ed il Prisse d’Avennes, trovano il prototipo nella mo-schea di El Akmar del periodo dei Fati-midi al Cairo, pochi anni prima delle deri-vazioni palermitane).
Ed ecco altri esempi ancor più tipici e significativi nei riguardi dell’attuale nostro quesito. Una casa a Nalu in Tripoli-tania (fig. 14), in tutto analoga ad altra nell’oasi di Tozeur in Tunisia (14), in cui l’aggetto interno degli archi appare nel portico e nella decorazione parietale in mattoni. Un arco cieco nella porta di Bâb el Futûh al Cairo (circa 1080 d. C.), di arte forse derivata dalla Siria (15), nel quale le bugne a cuscino dell’arcata, ana-loghe a quelle del campanile della Marto-rana a Palermo, hanno inizio con un brusco risalto dai piedritti. Il portico del mausoleo nel Moristân di Kalaûn (circa 1285 d. C.), che ha negli archi una di-sposizione analoga a quella di Monreale, con la sola differenza che rettangolare e non circolare è la sezione del contrarco sporgente (16).
Può essere a questo punto interessante l’investigare quale sia la origine prima di questa strana disposizione così contraria alla logica costruttiva, la quale evidente-mente deve riportarsi ad una di quelle non infrequenti imitazioni non ragionate di altri schemi, o per meglio dire, ad uno di quei processi d’involuzione per cui una forma, dapprima razionale in rispondenza a speciali condizioni, diviene puramente estetica e si "imbarocchisce", e gli archi-tetti ed i decoratori anzi l’accentuano per destare la maraviglia col sentimento di ap-parente instabilità.
Lo Choisy (17), crede di trovare i prototipi di questo arco "en accotade" nei monu-menti indiani, in cui la costruzione procede "per strati di pietra che si avanzano a strapiombo"; ma la spiegazione invero non appare sufficientemente dimostrata nella determinazione delle correnti d’influenze, tarde e limitate, facenti capo all’India. Forse con maggiore attendibilità potreb-besi risalire all’architettura bizantina ed alle altre scuole orientali con questa colle-gate con molteplici rapporti architettura e scuole che hanno direttamente presieduto alla prima formazione dell’arte musulmana. Certo nel bizantino il concetto dell’arco strapiombato non è infrequente: appare nel pulvino, e, più ancora, ne! capitello a stampella a sostegno delle polifore, appare nelle tante rappresentazioni secondarie e nelle tante forme decorative, negli avori, nelle pergamene (fig. 18 e 19), negli intagli in legno, negli intarsi di pietre colorate (18).
Ma più importanti forse di queste deri-vazioni stilistiche si presentano le concrete ragioni costruttive basate sull’applicazione del legno, come elemento totalmente o parzialmente costitutivo degli archi. Esse possono, a mio parere, darci la spiegazione del fatto iniziale in tre ben distinte moda-lità: 1° per la formazione di falsi archi con strati sovrapposti di travi di legno (fig. 15); 2° per la disposizione di un pulvino a stampella messo a dar piede ai due archi poggianti stilla colonna (fig. 16); 3° per l’adozione, rimasta sempre cosi frequente nell’arte araba, di robuste ed alte catene di legno sopra la linea dei capitelli, sulle quali gli archi appoggiano quasi indipendentemente dai supporti inferiori (fig. 17). Della prima e della terza di queste ipotesi le figure 8,9, 13,20 dànno chiara dimostra-zione, col fornirci esempi di archi in legno, o con l’indicarci decorazioni policrome che ancora nella stratificazione orizzontale rispondono al tipo della sovrapposizione dei travi, od infine col mostrarci la netta divisione tra la costruzione inferiore o la su-periore ottenuta mediante l’apposizione della catena d’imposta.
Tale procedimento di formazione stilistica dalla pietrificazione delle forme lignee non è davvero isolato. Riappare nell’arte araba nel tipo delle mensole che reggono in spor-genza architravi e balconi, nel tipo dell’intaglio in pietra tutto traforato nei corona-menti degli edifici. Più in generale è quello che ha presieduto, con una trasposizione che a noi può sembrare irrazionale, al ger-mogliare di numerosissime forme architet-toniche degli stili più diversi, dalla pagoda indiana imitata da una catasta di legname, al tempio protodorico greco derivante più o meno direttamente dalla capanna, alle case medioevali che così frequentemente in Italia ed in Germania seguono la disposi-zione di una sporgenza frontale, nata dalle esigenze degli innesti dei travi di legno longitudinali e trasversali.
Ma ritorniamo in Sicilia. La disposi-zione del controarco nei chiostri di Mon-reale e della Magione e dunque mi sembra d’averlo ormai provato esaurientemente — un caso speciale della generale tendenza dell’arte araba ora illustrata. E non è affatto caso isolato. Gli archi tra-sversali della chiesa di S. Giovanni degli Eremiti nascono appunto con una brusca sporgenza della parete; nell’arco trionfale della Cappella Palatina la sporgenza c’è ugualmente, ma è smussata e quasi nascosta nel rivestimento a musaico, mentre negli archi longitudinali si ripete la dispo-sizione d’innesto degli archi che già si è vista nell’Egitto nei monumenti del tempo dei Fatimidi, E nelle porte delle chiese, ad esempio, in quella laterale della cattedrale di Palermo, appare, sia pure in tempo ormai tardo, lo stesso concetto del peduccio pensile da cui parte l’arco superiore; e S. Cataldo e S. Giovanni degli Eremiti ci mostrano i pennacchi a tromba impastati in aggetto (fig. 4), tal quale come nella moschea di Halid a Damasco o nella tomba dell’emiro Hussen al Cairo.

Il Bertaux nei suoi studi fondamentali sull’arte nell’Italia meridionale (19), accenna in modo fugace e non sempre preciso alle relazioni tra la Sicilia da un lato e la Campania ed i centri di Amalfi e di Salerno dall’altro. Talora è portato a negare ogni influenza saracena nei monumenti normanni o svevi del Mezzogiorno, talora ricerca, accanto alla scuola bizantina cas-sinese (anch’essa non sicuramente deter-minata), la scuola siculo-campana, e ne riannoda l’arte ai rapporti di commercio e di dominazione politica.
Non è certo qui il luogo di affrontare questo così vasto ed interessante argo-mento, ma solo di segnalarne l’impor-tanza somma agli studiosi ed agli artisti. L’esame di monumenti come i chiostri di Amalfi, di Salerno, di Cava dei Tirreni, l’atrio della cattedrale di Amalfi, i palazzi di Ravello, (in cui sono tanti elementi arabi di disposizione o di forma), i raffronti tra i campanili di Gaeta, di Amalfi, di Caserta vecchia con quello della Mar-torana; gli studi comparati di tanti ele-menti ornamentali, del tipo di arcatelle intrecciate ovunque diffuso, della forma di archi a ferro di cavallo che appare ad esempio nelle finestre della cattedrale di Caserta, della tecnica delle incrostazioni in marmi che dal chiostro di Monreale e dal campanile della Martorana passa al tiburio di Caserta od al campanile di Melfi, dei disegni dei musaici che formano pavimenti o rivestono amboni o plutei, delle tante espressioni di arte e di architettura popo-lare che ancora vivono nel mezzogiorno d’Italia (con quel tenace attaccamento alla tradizione che è caratteristico dell’arte sem-plice), possono giungere alla determina-zione di un vero e completo stile tirreno, pieno di vita, ricco di bellezza decorativa, caratteristico per procedimenti costruttivi, il quale si svolge per circa due secoli e presto si svincola dalle influenze straniere in forme fiorenti prettamente italiane. Ed è questo centro d’arte una fucina in cui altre scuole dell’Italia meridionale e centrale si elaborano, sicchè nel suo studio può aversi la spiegazione di tanti problemi mi-nori; tra i quali davvero notevole quello della formazione dello stile dei marmorari romani del XII e del XIII secolo, attraverso i tanti rapporti interceduti fra Roma ed il Mezzogiorno, attraverso l’opera, ad esem-pio, di Pietro di Capua, dei maestri ro-mani Cesario ed Angelo (che lasciarono loro traccie in Amalfi), di Nicola d’Angelo, artista insigne, autore del campanile di Gaeta e del portico di S. Giovanni in Laterano.
Ma racchiudendo ora le ricerche nel-l’ambito ristretto dell’argomento che è tema principale di queste note, non san difficile ritrovare alcune propaggini della speciale disposizione testè studiata, avente nel chio-stro di Monreale la sua applicazione più nota e più discussa. Ad Amalfi il chiostro dei Cappuccini ed il chiostro della cattedrale, il cosidetto Paradiso, offrono due esempi interessantissimi (20), di un’analoga disposi-zione; anche qui sulle colonnine binate gli archi si slanciano, iniziandosi con una gran-de e brusca sporgenza nella fronte e nello spessore, sporgenza che è quasi informe nel chiostro dei Cappuccini, nettamente accen-tuata nel chiostro della cattedrale con un doppio contrarco a piani successivi che tien luogo del cordone aggettante nel chiostro monregalense, e che più ancora di quello ricorda l’esempio arabo del Moristân di Kalaûn.
Accanto a queste opere architettoniche semplici e quasi rozze, ecco altri esempi tratti da un ciclo d’arte essenzialmente ornamentale, gli amboni cioè di Salerno, di Ravello, di Sessa Aurunca, di Cassino (nella chiesa Madre): più interessante tra tutti il primo (fig. 25), che può riportarsi al tempo e forse all’iniziativa di Matteo d’Ajel-lo. Qui dunque si ha sistematicamente l’ar-chetto inferiore sporgente dalle colonnine, non più, questa volta, a taglio netto, ma a raccordo mensoliforme; ed è schema codesto che non dovette rimanere steril-mente isolato; ma avere qualche continua-zione anche nella romana arte cosmatesca, come sembrano dimostrarci i resti del ma-gnifico ciborio di S. Agata de’ Goti in Roma.
Risalendo la costa tirrena da Sessa e da Gaeta per Fondi e Terracina lungo l’Appia, possiamo a breve distanza sostare a Piperno. E nella bella facciata del pa-lazzo comunale, sorto sui primi del Due-cento, ci si presenterà una finestra bifora (fig. 24) con le arcatelle acute che in rien-tranza seguono il noto motivo del controarco rilevato, il motivo che l’arte siculo-cam-pana ha preso in prestito dall’arte araba. Accanto ad essa trovansi invece due fine-stre trifore, anch’esse ad archi acuti, ispirate all’arte settentrionale , derivate dal prossimo centro di Fossanova, il primo centro gotico dell’architettura italia-na (21).
Così nella stessa opera, con quella li-bera varietà di particolari così tipica di quasi tutte le espressioni architettoniche medioevali, son venute a convergere e ad incontrarsi le forme del Mezzogiorno e del Settentrione, l’arco acuto arabo, che forse è il più vero e il più diffuso arco acuto italiano, e l’ogiva francese; ed il primo, quasi a dar l’indice della sua provenienza, e accentuato dalla speciale "anomalia" della quale abbiamo ora studiato, non il prototipo, ma l’esempio per noi più inte-ressante, nel chiostro di Monreale.
GUSTAVO GIOVANNONI.


(1) G. B. GRAVINA. - Il Duomo di Monreale. Pa-lermo 1859.
(2) C. BOITO. - Architettura del Medio Evo in Italia. Milano 1880, cap. II.
(3) A. SALINAS. Il monastero di S. Filippo di Fragalà in Arch. s. S. 1887.
(4) Del chiostro di Cefalù, e di quello degli Eremitani si ha una importante serie di rilievi in ARATA. L’Architet-tura arabo-normanna in Sicilia. Milano 1914, a tav. 3 e seguenti. Ivi anche sono, a tav. 52 e seguenti, i rilievi particolareggiati delle arcate del chiostro di Monreale.
(5) ROCCHI PIRRI. - Sicilia sacra. T. II. fol. 1110.
(6) VENTURI. - Storia dell’Arte. T. III. 653.
(7) ROCCHI PIRRI. - Op. cit., Not. I, lib. 1 MONGITORE - Monumenta sacrae domus
mantionis SS. Trinitatis, p. 5.
(8) VENTURI. - Op. cit. III; 622-634.
(9) Cf., SALADIN, Manuel d’Art Musulman, I., 279.
(10) vedi per le discussio-ni sulla denominazione dello stile il BOITO, op. cit., l’ARATA, op. cit.
(11) Cf., RUPRICHT ROBERT.-L’architecture nor-mande. T. II, tav. XLIII.
(12) Cf., su questo argomento G. GULTRERA. Due portati di stile normanno in Corneto Tarquinia, nell’ Archivio st. p. la Sicilia orientale, XVI.
(13) È impossibile dar qui una bibliografia, sia pur per sommi capi, dell’architettura araba. Basti dei trattati mag-giori indicare il SALADIN, il BOURGOIN, il PRISSE D’AVENNES, il FRANZ, il RIVOIRA e segnalare il PUYG Y CADAFALQ per l’arte catalana e ricordare i recenti contributi del FAGo e dello SPIERS.
(14) Cf., SALADIN, op. cit., I, 293
(15) Cf. SALADIN, op. cit., I, 98.
(16) Debbo la segnalazione di questo importante esempio al Prof. MONNERET DE VILLARD ed all’Arch, PATRICOLO; ai quali esprimo vivi ringraziamenti.
(17) Cnossv. - Histoite de lt4rchitecture. 11, p. 92.
(18) Volendo dare appena qualche esempio di queste applicazioni bizantine e bizantineggianti in opere minori, basti citare le nicchie nei sarcofagi o nella cattedra di Massimliano a Ravenna, i riquadri in un avorio menzio-nato dal VENTURI, II, p. 596, le composizioni di fondo nell’Exultet di Salerno od in un rilievo di Spoleto, ripor-tato dal CATTANEO (l’Architettura in Italia, ecc., fig. 75), i disegni nel codice purpu-reo di Rossano ed in alcune pergamene (vedi fig. 18 e 19), riprodotte dallo STRZY-GOWSKY, Ursprung, tav. 40 e 61, o dal MUÑOZ, L'Art bizantin à
Grottaferrata. ecc., tav. 53, gli intarsi nel duomo di Parente, fino a quelli che si seguono ad W nell’esterno del battistero di Firenze.
(19) BERTAUX. - Les Arts de l’Orient musulman. ecc., in Mèlanges d’ A. et d’h., I, 1895; L’Art dans l’Italie meridionale, p. 601 e se-guenti.
(20) Sulla discussa data dei chiostri amalfitani, vedi RIVOIRA, op. cit.
(21) Cf., ENLART. - Les origines françaises de l’Architecture gothique en Italie. È interessante notare come persino a Fossanova cam-pana si affacci col mosaico del portale.

torna all'indice generale
torna all'indice della rivista
torna all'articolo