FASCICOLO II - LUGLIO AGOSTO 1921
GIUSEPPE ZUCCA: Un decoratore nostro: Duilio Cambellotti, con 20 illustrazioni
Ad una rinascita dell’arte italiana, io ci credo e fermamente. E ciò non tanto o non soltanto per la virtù che si rivela in qualche artista nostro, ma più, e meglio, per la tendenza che va determinandosi or-mai chiara-mente, e nel-l’opera degli artisti e nel gusto e nella richiesta del pubblico, ver-so la decora-zione: verso un'arte deco-rativa: e cioè verso forme d’arte vera-mente viventi. Io, per me, non ho rimor-si: sono dieci anni che batto su questo chiodo: che, per la felicità e per la dignità degli uo-mini, vale più un bel taglia-carte che un quadrone di 30 metri quadri tumulato in una galleria: perchè quello e fisiologia e questo non è che anatomia.
Per ciò, ap-punto, da dieci anni, seguo con cuore ami-co e con rico-noscente am-mirazione, il lavoro di Dui-lio Cambellot-ti: uno dei primissimi, in Italia, se non forse il primo, a scendere giù dalle eccelse, vertiginose, ghiacciatissime vette dell’arte cosidetta pura, per discorrere un pò alta buona con noi poveretti uomini, affamati e assetati d’arte applicata.
Per ciò, appunto, ho salutato con vera gioia la mostra personale del Cambellotti, che s’è aperta qui in Roma nei locali del-l’A.M.I., e nella quale, ben disposte in due salette, ho potuto vedere cose sue nuovis-sime e rivedere le vecchie e sempre gio-vani cose di dieci anni fa.
Vista cosi tutta insieme (non tutta, anzi: anzi, non soltanto alcune cose mancano che sono di grande valore e significato, ma intere categorie non si vedono rappresentate) vista, dico, così, raccolta insieme, l’opera del Cam-bellotti si afferma, anche allo spirito di un visitatore non attento, come il prodotto necessario di un temperamento assoluta-mente originale e di buon sangue italiano. Senza incroci e senza misture. Cicloni di mode francesi, sottili pollini di secessioni austro-tedesche sono passati con tutte le loro ventate mattacchione e con tutte le loro volubili insidie sulla vecchia Penisola, senza che questo buon ceppo italico avesse neppur tempo di avvedersene, tutto inteso com'era a fiorire e fruttificare per conto suo, piantato con le gagliarde radici giù giù, dentro dentro, nella sacra zolla latina.
Anche meglio che italiano: latino. Anche più che latino: romano. Guardatevi attorno, in questa mostra: fontane, vasi, conche, sculture, disegni, ceramiche, bronzi, legni, tutto tutto tutto sbocca giù dalla gran fonte patria; tutte le figure e tutti i motivi della sua ispirazione - gente, piante, bestie, paesi - tutto è di qui, tutto è nostro, tutto è lar-gamente romano. (Si dice, per altro, che il giorno che d’Annunzio, ribattezzatore senza pietà di uomini e di cose, avendo già ribattezzato per la musica de "La Nave" il maestro Pizzetti in Ildebrando da Parma, volle, per gli scenarii, ribattez-zare anche lui in "Duilio Romano", il buon Duilio, per quanto romano davvero, s’inalberò, lui, nella sua burbera fierezza, e cavò fuori dalla fulva barba di lucumone la pro-testa della sua orgogliosa semplicità: "Mac-chè Romano! Io mi chiamo Cambellotti!,,).
Verissimo. Si chiama Cambellotti, lui. E tutto quello che fa, è Cambellotti: e nient’altro che Cambellotti.

La plastica di Cambellotti (gli scultori, naturalmente, affettano di non apprezzarla) allo stesso modo che la sua pittura (i pit-tori, com’è naturale, affettano di non con-siderarla) tende, vorrei dire, a distruggersi, come tale. Non si può misurarla con le misure consuete. A parte che la cifra della linea, e cioè la ricerca architettonica, vuol soverchiare, in essa, risolutamente, i valori puramente scultorii e, anzi, giovarsi della loro evoluzione per affermarsi e vivere di vita propria, a parte ciò, dico, l’elemento fantastico è nell’opera del Cambellotti così stravincente su tutti gli altri elementi, che essendo partito, a ogni volta, da forme attentissimamente indagate e possedute in ogni più intimo segreto, le abbandona poi per dissolverle in libere sintesi, dove la plastica originale si è tramutata in un mo-vimento emotivo. L’accorta meditazione cede all’impeto. Muove da una minuziosa concretezza (ve lo dice ancora, qua e là, qualche particolare illuminante) e sbalza di colpo alle sommarietà più ardimentose. La descrizione è abolita si tende alla lirica.
Analogamente dicasi per i disegni: questi suoi disegni ricavati con fermi tocchi di biacca su fondi di terra di Siena, e che sentono un pò tutti il rude e rapido sapore della xilografia. Occhi vacui, rughe procel-lose, membra grottescamente ingigantite e deformi, come tumefatte drammaticamente, dallo sforzo del significare. Osservate "il Sublicio",,: una delle illustrazioni della gran-de Storia di Roma, alla quale attende da tempo, il Cambellotti, con assiduo amore. E la xilografia "il focolare" dove i partiti di nero e di bianco sono giustapposti con una fermezza cosi massiccia ed essenziale: e dove - notate - le ragioni fondamentali del legno sono cosi rispettate, dove anzi la dura tenacia della fibra e la logica fan-tasia della vena tramano all’artefice, direi, come un sottosenso grammaticale sul quale appoggiare e svolgere l’eloquenza delle sue figurazioni. Perchè egli possiede, appunto, quella che è la prima e la massima tra le virtù del decoratore: il rispetto cordiale, ma assoluto della materia che tratta. E oggi che, nella stragrande maggioranza, nella quasi totalità delle produzioni di arte deco-rativa, ammiriamo il ferro intagliato come legno, il legno battuto come ferro, il duro bronzo impastato come fragile maiolica, e la sacra sostanza delle cose è in tutti i modi snaturata, falsata, violentata, troviamo in questo magnifico decoratore una appas-sionata devozione, anzi la gratitudine austera alla generosa materia, a tutte le materie del suo molteplice lavoro. Se questo arti-colo non dovesse per forza limitarsi a un cenno rapidissimo delle cose molte e quasi tutte assai belle del Cambellotti, mi piace-rebbe davvero indugiarmi a dimostrare per esempio, quanto in questo senso della sin-cerità, e cioè della vera decorazione, significhi e valga il suo tentativo - che è tutt’ora tentativo - di una scuola comunale d’arte ceramica, a tono popolare, che egli dirige con criterii affatto nuovi, nel vecchissimo Istituto di S. Michele.
E l’altra grande virtù del decoratore, la virtù gemelli dell’ossequio alla mate-ria, è sempre presente, appena a saper guardare, in tutte le cose prodotte da que-sto artista: e cioè la disciplina della f or-ma entro sagome il più possibile ele-mentari.
Vedete "il vannino", (piccolo capola-voro dove difficilissimi problemi di pla-stica in movimento sono, senza tanto teorico discutere di futurismi, affrontati e felicissimamente risolti in un prodigio, vero prodigio di espressione totale); ve-dete "il toro", (stupendo sistema di mas-se immobilmente solenni, costruito, pie-tra, pietra, come uno scaglione di mura ciclopiche); vedete la rapace figura del guer-riero che si affibbia la corazza; vedete il monumento di Terracina (l’unico monu-mento di tono veramente eroico che sia, a mia nozione, scattato fuori dallo spasimo vittorioso della guerra): vedete la fontana della Palude, la fantastica figura della Pace che s’avvia a rimettere giù l’aratro per un campo seminato di ossami; vedete il pic-colo idolo, modernissimo idolo, della Cerere laziale; e vedete la medaglia del cervo (una delle tante medaglie vere - fra le infinite medaglie false che oggi si fabbri-cano - che il Cambellotti ha modellato) e tutti i vasi, le conche (quella delle bu-fale: sogno presente degli acquitrini pieni di erbacce e di miasmi) le ciotole, le cop-pe, dove è cosi naturale e adorna la com-penetrazione delle forme animali alla tor-nita matrice dei recipienti: dovunque, vedete un’assidua coordinazione di elementi, conspiranti ad una concorde unità deco-rativa.
Scadono, invece, di stile, se non d’in-teresse, taluni oggetti di natura composita, bizzarri adattamenti di cose, curiose con-taminazioni di forme disparate (il "corno di bufalo" ne è un esempio eloquente), dove il suo gusto originale e la sua cul-tura (cultura bella e solida, che non e ingombro, mai, ma effervescenza e sug-gestione) sboccano a strani compromessi di un gusto che direi barbaresco, tra rozzo e raffinatissimo.
E fa veramente pena a chi scrive dover dire, così di volo, che, anche il Canibel-lotti è un nuovissimo disegnatore di mobili, il quale finalmente affida alla intelligente scelta della macchia o della vena del legno funzioni preponderanti, sia per ciò che è struttura architettonica del mobile, sia per ciò che è valore adornativo. (Vedete la novità e la semplice robusta bellezza di questo scrigno con quel gioiello di serratura ch’egli intitola "le curiose"). E che è, an-che, un creatore di vetrate fuori di ogni tradizione e fuori di ogni imitazione: vetrate favolosamente belle, realizzate, con altre anche bellissime del Grassi e del Bottazzi, da quel mago del vetro che è il romanis-simo Picchiarini. E che è un paziente cesel-latore di gioielli. E che è uno scenografo vero e grande, di vastissima ala, che non descrive ma interpreta il dramma e lo accompagna e lo illumina (le scene e i costumi del "Cesare" di "Re Lear" de "La Nave", sono esempi illustri e non superati di scenografia d’arte). E che è uno dei più alacri e arditi decoratori del libro italiano (la recente edizione delle "Favole", di Trilussa, anche se un pò appesantita dalla sua troppa ricchezza, può dire molto ma molto - di quello che si può fare, da noi, ne! campo della editoria dove final-mente non vogliamo più essere pezzenti). Fa veramente male dover dire così, sol-tanto così, perchè l’arte del Cambellotti, cosi diversa ed unica, cosi austera e dovi-ziosa, vuoi essere veduta adagio e dentro, per essere ammirata ed amata come si merita.

GIUSEPPE ZUCCA.

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