FASCICOLO II - LUGLIO AGOSTO 1921
CARLO ANTI: L'Arco dei Gavi a Verona, con 12 illustrazioni
Verona si accinge ad onorare la memo-ria di Dante nel sesto centenario della morte in un modo ben singolare: con la ricom-posizione di un arco romano, il cosidetto Arco dei Gavi. Da esso, tramutatosi con il volger dei tempi in porta di città, usciva la strada sulla quale nel medioevo si correva il "drappo ver-de", festa popolare della quale l’Allighieti si ricordò quando Brunetto Latini riprese la sua corsa sfrenata sotto la pioggia di fuoco (Inf. XV, 121-124). Il legame non è molto stretto, ma l’ombra del Grande acconsentirà certo se in suo onore sarà compiuta opera così degna e così duratura, se in suo nome risorgerà il radioso monumento romano che egli vide ancora eretto nella sua compagine.
L’Arco dei Gavi sorgeva in origine a cavaliere di una delle principali strade che in epoca romana conducevano a Verona, la Postumia, a poco più di 500 metri dalle mura, fra i sepolcri che, come in tutte le città romane, fiancheggiavano la strada subito fuori dalle porte. Esso cominciò molto presto ad essere coinvolto nella storia, intensa di guerre, che si è svolta sotto le mura di Verona. Forse già nel 69 d. Cr., durante le lotte fra Vitelliani e Flaviani, fu scavato un vallo ai suoi piedi. A giudicare dalla tecnica costruttiva della torre che gli sorse d’accan-to, la cosidetta torre dell’Orologio (fig. 1). può darsi che prima l’imperatore Gallieno (265 d. Cr.) e poi il re Teodorico (500 circa d. Cr.), lo abbiano incorporato in un loro fortilizio avanzato a difesa della città o in un sistema regolare di mura; ad ogni modo al tempo del libero comune (XII sec,) era certo divenuto una vera e propria porta della città. Tale rimase per qualche secolo fino a quando cioè, fra il 1324 e il 1325 Cangrande I della Scala portò la cinta murata alla linea occupata attualmente dai bastioni veneziani del Sammicheli e dalle opere più recenti degli austriaci.
Il monumento venne così a trovarsi nell’interno della città e su una delle sue arterie principali. L’opportunità di un passaggio angusto che facilitasse la difesa non aveva più ragion d’essere e cominciarono anzi a farsi sentire i molti inconvenienti che presentava una siffatta strozzatura in un punto di grande movimento.
Nell’agosto del 1805, il Comando del Genio militare francese, istigato da una parte della municipalità veronese, eludendo la vigilanza e prevenendo l’opposizione dei migliori cittadini, faceva demolire la parte sopraterra del monumento le cui disieda membra dopo varie peripezie vennero messe al sicuro sotto le arcate dell’Arena, l’anfi-eatro romano che forma uno dei massimi fra i molti ornamenti di Verona. La parte inferiore rimase invece sepolta ancora per lunghi anni nel sito originario, nè è stata tuttora interamente ricuperata.
Da quella data infausta il pensiero dei veronesi è stato volto costantemente alla necessità di ricostruire l’Arco. Subito dopo la demolizione, per deliberazione delle stes-se autorità francesi, nel 1866 in memo-ria del ricongiungimento di Verona alla nazione italiana, e in altre circostanze minori, nel 1847, nel 1892 e perfino durante la grande guerra, parve che il voto ora-mai secolare dovesse avverarsi, ma non fu mai possibile vincere tutte le difficoltà che si opponevano al nobile disegno. Oggi un manipolo di nobilissimi uomini, capi-tanato dal Prof. A. Avena, direttore del Museo Civico di Verona, ha fermamente voluto riuscire ed è riuscito, chè oramai possiamo dire essere la ricomposizione dell’Arco dei Gavi cosa sicura.
Alla spesa complessiva, che non sarà inferiore alle 240.000 lire, concorrerà lo Stato per L. 60.000, la Provincia e il Comune di Verona per L. 30.000 ciascuno. Le rimanenti L. 120.000 sono state in gran parte già sottoscritte da enti locali e da privati cittadini, nobilissimo esempio di alto senso civico e di meritorio spirito di ini-ziativa, prova evidente di quanto si sia mantenuto sempre vivo nei veronesi il desi-derio di veder risorgere questo bellissimo fra i loro monumenti romani e di come siano lieti di farlo quasi esclusivamente con mezzi propri. Dico questo perchè non molti anni fa uno studioso transoceanico, pen-sando che fosse sconosciuto a tutti ciò che era sconosciuto a lui, credette, insieme a varie altre cose, di aver "scoperto" l’Arco dei Gavi e ne vide l’unica possibilità di resurrezione nell’intervento munifico di un miliardario americano.

Possiamo avere un immagine di come appariva l’Arco non molto prima della sua demolizione, da una stampa del principio del sec. XVIII, dove se ne vede la fronte interna, verso la città (fig. 2) e da un dise-gno della fine dello stesso secolo, che ne mostra invece la fronte esterna (fig. 3). Le membrature antiche si intravedono appena sotto le soprastrutture militari. Nel lato verso campagna sono perfino murate le nicchie che fiancheggiavano parte per parte il fornice e se non fosse per gli avanzi delle colonne e per il portale decorato, quasi non si sospetterebbe che sotto la grossolana costruzione si nasconda un arco romano. Bisogna credere peraltro che gli autori di questi disegni lavorassero a memoria e con alquanta libertà, perchè a giudicare dagli accurati disegni che potè eseguire il Seguier nel 1749 per il "Museum veronense", di Scipione Maffei, la struttura del monumento era ben visibile almeno nelle sue grandi linee, fino alla trabeazione. In questi dise-gni peraltro, per il loro carattere scientifico, il Seguier, pur astenendosi dal reintegrare le parti mancanti, ha fatto scomparire tutte le costruzioni posteriori, mentre dalla stampa e dal disegno da noi riprodotti si riceve l’impressione vera, che l’arco doveva farà al grosso del pubblico contemporaneo.
Dell’Arco dei Gavi prima della sua rovina abbiamo altri disegni che si collegano ai nomi più illustri dell’architettura del rina-scimento. Agli Uffizi sono due disegni, uno, il n. 815, di Antonio da Sangallo il Giovane (1485-1546), l’altro, il numero 1382, di Giov. Battista da Sangallo detto il Gobbo (n. 1496), copia affrettata del precedente. L’arco è riprodotto anche nelle "Regole generali d’architettura,, di Seba-stiano Serlio (Venezia, 1537), nel "De origine et amplitudine civitatis Veronae", di Torello Saraina (Verona 1540) per mano del pittore Giovanni Carroto, che inserì gli stessi disegni in altre sue pub-blicazioni posteriori; e in quattro nitidi dise-gni di mano di Andrea Palladio, eseguiti fra il 1530 e il 1540 e conservati nella Biblioteca Comunale di Verona. Le figure 4, 5 e 6 danno un saggio di essi.
Tutti questi disegni riproducono il monumento nella sua interezza, come era pos-sibile ricostruirlo idealmente, misurando ne le patti visibili qua e là, sull’uno o sull’altro lato e specialmente nella fronte verso la campagna, dove, nel fossato che fian-cheggiava la strada, era scoperta in tutta la sua altezza anche parte del piedestallo.
Gli avanzi del monumento, che, per avere un’immagine di questo, sembrerebbe dovesse essere interrogato per primi, sono ancora confusamente accatastati nei covoli angusti e oscuri dell’Arena di Verona, si che per ora è vano chiedere ad essi più che la cognizione di qualche dettaglio. Questa la ragione per la quale sono nell’impos-sibilità di fornire fotografie dei pezzi ori-ginali. Di essi tuttavia l’Architetto vero-nese Giuseppe Barbieri, nel 1812 fece fare delle esatte riproduzioni in legno a scala ridottissima, con le quali ricompose pazien-temente l’Arco, lavoro preziosissimo per chi sarà chiamato ora a ricostruire effettiva-mente il monumento (fig. 7).

Da questo modellino in legno e dai nume-rosi disegni ricordati possiamo apprendere come era l’arco nella sua integrità.
Due fronti principali, partite in tre zone da quattro: colonne corinzie, sporgenti que-ste per tre quarti del volume dalla parete e poggianti su un piedestallo molto elevato. Le due centrali, legate insieme dal frontone triangolare, rinserrano il fornice principale, che ha un archivolto a tre fascie poggiate su pilastri corinzi decorati all’esterno da candelabre scolpite con motivi vegetali. In ciascuna delle due zone laterali una nicchia alta e stretta, con alto piedestallo e frontoncino, quindi una cartefia con men-sola e sopra questa, da collarino a colla-rino delle colonne, forse un doppio festone a rilievo. È molto dubbio se sopra la tra-beazione esistesse anche un attico: è un problema che potrà essere risolto dall’esame accurato dei pezzi, quando saranno rimossi.
I due lati minori, limitati dalle colonne esterne dei lati maggiori, che investendo gli angoli si affacciano anche da questa parte, non mostravano una parete piena come la quasi totalità degli archi romani, ma, pur senza che la costruzione possa chiamarsi un Giano vero e proprio, come altri monumenti romani consimili ricono-scibili alla pianta quadrilatera, hanno essi pure un passaggio. Questo è costituito da un archivolto a due fascie, poggiante su una semplice cornice di impostazione, sopra il quale, per alleggerire ulteriormente la costruzione, si apre una finestra contornata da una semplice modanatura.
L’interno dell’arco aveva un soffitto piano, del quale si è conservata buona parte di una delle sezioni laterali. La sezione cen-trale è probabile sia stata sfondata quando l’arco fu adattato a porta di città, per costi-tuire fra il fornice esterno e il fornice interno quel cortile scoperto di difesa che era una legge costante dell’arte fortificatoria antica. Il maggiore dei pezzi conservati (fig. 9) ci mostra un grande lacuna re, ornato al centro da un clipeo con viso di Gorgone fra quattro rosoni, e ai margini da un giro di mensoline. Su uno dei lati vi sono poi tre cassettoni e altrettanti dovevano essere sul lato opposto. Così il pezzo raggiunge la forma e le misure adatte a coprire la parte interna dell’arco, fra il vivo del pila-stri del passaggio principale e i passaggi laterali. Un pezzo uguale doveva coprire la zona corrispondente dall’altra parte. Non possiamo invece immaginare come fosse decorata la zona centrale del soffitto, ame-nochè non si riferisca a questa una lastra marmorea decorata a meandri, conservata pure fra i pezzi dell’Arco.
La naturale ricchezza dell’ordine corin-zio con la varietà della trabeazione a tim-pano, i pilastri a candelabri, l’archivolto ornato, le mensole, i festoni, davano al monumento un aspetto ricco accentuato ancora da altri elementi in marmo e in metallo, decorativi e figurati. Nelle quattro nicchie erano altrettante statue iconiche dei personaggi ricordati nelle iscrizioni incise sotto le nicchie stesse; qualche ornamento fu forse collocato sopra le mensole delle cartelle; il timpano era coronato da una bassa decorazione metallica e sui suoi piani inclinati, a giudicare dai casselli conservati, erano forse altre figure ancora.
Proporzioni e motivi architettonici, ele-menti figurati e decorativi concorrevano così in un giusto contemperamento a dare all’Arco un aspetto di slanciata eleganza e di misurata varietà e ricchezza.
Alcune misure possono dare un’idea della grandiosità della mole. I fornici principali sono larghi m. 3,55 (m. 3.552 = 12 piedi romani), i laterali m. 2,70 (m. 2,66 = 9 piedi), le fronti principali m. 10,73 (me-tri 10,65 = 36 piedi), le laterali m. 6,03 (m. 5,92 = 12 piedi). L’arco fino al sommo della trabeazione misurava circa m. 10,00 (m. 10,06 = 34 piedi), fino al sommo del-l’attico, se ne era provvisto, m. 11,85 circa (m. 11,84 = 40 piedi), e poco meno se ter-minava con il semplice frontone. Come abbiamo già indicato per ciascuna di queste misurazioni, che forse non sono esattissime date le speciali condizioni attuali del monu-mento, esse corrispondono ad ovvie misure romane con a base il piede di 296 mm. Il piede romano è del resto facilmente rico-noscibile anche in altre membrature per esempio, nelle due fronti, le due zone late-rali piene e la centrale vuota misurano ciascuna 12 piedi.

Molto interessante è la tecnica con cui il monumento è stato costruito. È tutto di pietra calcarea bianca veronese, proveniente pare dalle cave della vicina Valpantena, a blocchi accuratamente squadrati e sovrap-posti a corsi regolari. È dunque una costru-zione isodoma nella quale l’ordine corinzio è una veste esteriore, quasi una parvenza, senza funzione statica essenziale. Questa è assolta esclusivamente dalle quattro pareti, alleggerite ciascuna esteticamente e statica-mente, dal fornice centrale. La costruzione è legata in basso dalle fondazioni, in alto dai tre lastroni marmorei del soffitto.
I corsi di parallelepipedi squadrati sono quattro per il piedestallo (1 base, 2 vivo del piedestallo, 1 cornice), undici corrispon-denti all’altezza delle colonne, tre per la trabeazione, più il coronamento che non è sono ricavati all’incirca alternativamente, ben noto. Questi corsi variano leggermente di altezza fra loro, ma ciascuno mantiene l’identica altezza per tutto il giro del monumento. Solo per alcuni di essi l’altezza è stata determinata da elementi della deco-razione e precisamente: dai capitelli delle colonne, dai capitelli dei pilastri dei for-nici principali, dalle cartelle a mensola, insomma da quegli elementi che per la lavorazione più complicata dovevano essere ricavati da un unico blocco. L’altezza degli altri corsi è stata fissata senza criteri evi-denti e così, per esempio, sono stati cavati da uno stesso blocco base e imoscapo delle colonne, parte dello zoccolo e parte dei pilastrini delle nicchie, la trabeazione e parte del frontoncino delle nicchie stesse.
Quanto l’isodomia della costruzione sia stata precipuamente presente all’architetto e come, d’altra parte, le membrature del-l’ordine con i loro vuoti e pieni avessero funzione più decorativa che statica, appare chiaro sulle fiancate del monumento, dove l’altezza delle finestre è stata determinata dai quattro corsi di parallelepipedi com-presi fra l’abaco dei capitelli dei fornici principali e i collarini delle colonne, e l’impostazione dei fornici minori ha valore puramente decorativo perché parte dal pila-stro, la cornice e parte dell’archivolto sono ricavati da uno stesso blocco.
A questa salda e organica compagine di parallelepipedi si addossano le colonne corin-zie. Esse come si è detto, aderiscono alle pareti solo per un quarto del loro giro, così che, pur non essendo completamente stac-cate, si crea un sufficiente giuoco di luci e di ombre che dà loro pieno risalto. I sin-goli tamburi, corrispondenti ai vari corsi, dallo stesso blocco che costituisce la parete oppure isolati e cosi questi rinserrati fra quelli formano un tutto saldamente con-nesso.
I singoli pezzi erano legati verticalmente con perni di vario tipo, orizzontalmente da coppie di grappe metalliche, costituite da una verga quadra lunga circa 18 ctm., larga e spessa ctm. 2, con due appendici terminali leggermente espanse. È il tipo più semplice prediletto dai romani, identico per esempio a quello usato nella Por-ta Nigra di Treveri. Quando, prima di iniziare la ricomposizione dell’Arco, sarà scavato quanto ne rimane ancora di sepolto nel sito originario, sarà possibile accertare se per unire i blocchi fu usata anche calce o cemento e come furono fatte le fonda-zioni: elementi che potranno essere utili anche per la datazione del monumento.
I minori dettagli decorativi, secondo la buona tradizione, furono finiti quando i pezzi erano già in opera. Questo è mate-rialmente certo per la decorazione degli archivolti e dei pilastri, nonché per la sca-nalatura delle colonne, nelle quali i settori più prossimi alle pareti non sono scanalati appunto per la difficoltà - di lavorare nel-l’angolo, ma è probabile anche per altri elementi specialmente delle nicchie.
L’intima rispondenza che abbiamo notato fra le forme del monumento e la sua ese-cuzione tecnica, la quale induce a ritenere che questa sia stata preventivamente deter-minata in ogni più piccolo dettaglio, con piani regolari, dall’architetto stesso, trova una prova inconfutabile nelle sigle che sono scolpite su gran parte dei blocchi.
Simili sigle, usate per facilitare la messa in opera dei materiali, non sono una no-vità e ne conoscono esempi di varie parti del mondo antico, in occidente di Orange e di Treveri, in Italia di Pompei e di Roma, ma sopratutto nell’oriente elleni-co, in un portico di Delos, nel tempio di Mamurt-Kaleh presso Pergamo e nel-l’edificio su cui è incisa la famosa iscrizione di Gortina a Creta.
L’Arco dei Gavi per la disgraziata cir-costanza di essere stato demolito, presenta l’esempio più grandioso e più interessante dell’impiego di tali sigle. Esse sono note ancora incompletamente e quasi solo attra-verso il rilievo fattone nel 1812 dall’archi-tetto Barbieri, ma, in attesa che in occa-sione della ricostruzione possano essere meglio studiate, già con gli elementi a dispo-sizione si può afferrare quale ne era il congegno.
Gli undici corsi che costituiscono il corpo dell’arco fra i piedestalli e la trabeazione cominciando dall’alto e cioè dai capitelli, sono distinti da una lettera dell’alfabeto. A e B, forse per comodità di incisione, sono sostituite ambedue da X, il C è inciso orizzontalmente per distinguerlo dal G e così la lettera I per distinguerla dal nu-mero 1. Non si sa se il piedestallo avesse lettere ere proprie. Della trabeazione si cono-scono troppo poche sigle per afferrarne il congegno: vi appaiono le lettere XH, A e P.
Alla cifratura orizzontale con lettere, corrisponde una seconda cifratura verticale con numeri. Il monumento sembra diviso in nove zone verticali e così, per esempio, i blocchi del fornice verso città portano il numero romano I, quelli del fornice verso campagna il numero VI.
Mediante la lettera e il numero veniva così individuato il posto preciso che ciascun blocco doveva occupare nel reticolato ideale in cui era compreso il monumento. I conci degli archivolti avevano invece una sem-plice numerazione progressiva indipendente. Per i fornici minori sono note cifre dal II al IX e in essi, tolti i blocchi con l’imposta, i conci sono appunto nove; per i fornici maggiori abbiamo cifre dal XIII in su.

La tecnica dell’Arco dei Gavi, quale ho cercato di tratteggiare per sommi capi, apre la via alla questione della sua crono-logia. Esso è stato attribuito di preferenza all’età di Augusto, ma non è mancato chi ha pensato all’età di Traiano e perfino a quella degli Antonini. In base a una conoscenza del monumento diretta e molto più dettagliata mi è possibile ora riprendere la questione ex-novo.
La costruzione regolarmente isodoma è caratteristica dell’oriente ellenistico, là dove la tecnica del costruire in marmo raggiunse la maggiore perfezione, nonchè delle pro-vince nelle quali la corrente architettonica greca si è meglio mantenuta, come l’Africa settentrionale e la Provenza. In Italia invece l’isodomia rigida accenna a perdersi già nel periodo augusteo, mentre va via via prevalendo la tendenza a ristabilire una maggiore rispondenza fra forme decorative e struttura marmorea. Il diffondersi delle costruzioni in mattoni, che ridussero il marmo a un semplice rivestimento super-ficiale, accelerarono in seguito questo pro-cesso. II nuovo sistema struttivo, a ten-denza prevalentemente verticale, è ad ogni modo già del tutto sviluppato sotto i Flavi.
La costruzione dell’Arco dei Gavi non può scendere dunque al di qua dell’età di Augusto (23 av. Cr. - 14 d. Cr.) anzi, come vedremo, può ritenersi anteriore ad essa.
Con questa datazione concordano all’in-grosso le peculiarità dei vari elementi archi-tettonici: colonne aderenti alle pareti, pre-senza del frontone sul fornice principale, mancanza delle chiavi nelle volte, falsi pila-stri dei forniti laterali; tutti elementi che in Italia sono caratteristici delle costruzioni augustee o più antiche. Notiamo ancora le nicchie con frontoncini triangolari tipiche del tardo ellenismo e della fine della repub-blica; le cartelle con mensola che ritroviamo tali e quali nel tempio della Fortuna a Preneste (principio del I°. sec. av. Cr.) e nel sepolcro di Bibulo a Roma (prima metà del I°. sec av. Cr.); il motivo dei feston-cmi esso pure prediletto neI tardo ellenismo e negli ultimi monumenti repubblicani: tempio di Preneste, tomba delle ghirlande a Pompei, tomba di Cecilia Metella sulla via Appia (metà circa del I° sec, av. Cr.). Finalmente l’aspetto complessivo del monu-mento con i forti rilievi riserbati solo alle membrature principali, mentre le decora-zioni secondarie sono a leggerissimo rilievo, con il predominio assoluto delle pure linee architettoniche, senza zone figurate che gra-vino o turbino i piani lisci, con le pro-porzioni strette e slanciate per il forte pre-valere delle linee verticali, è l’aspetto carat-teristico dei monumenti più vicini alla cor-rente ellenistica, quale conosciamo nei mo-numenti di Grecia e in quelli repubblicani, e che invece appare già turbato nell’epoca di Augusto, per esempio ad Aosta e a Rimini.
Anche la particolarità dell’uso sistema-tico delle sigle accenna a un vivo influsso ellenistico. Abbiamo visto che i maggiori esempi di quest’uso sono appunto greci; dalla corrente ellenistica dipendono diretta-mente i monumenti di Provenza che pure lo mostrano; ellenistica è Pompei e le sigle dei rostri romani sono addirittura in alfa-beto greco. Ma non occorre accumulare ipotesi e confronti: l’architetto dell’Arco dei Gavi, caso rarissimo, ci ha lasciato il suo nome ed è quello di un greco. Sulla faccia interna di uno dei pilastri del fornice verso città, quello che nel piano della costruzione portava il numero I e quindi, in certo qual modo, era considerato il principale, noi leggiamo
L. VITRVVIVS. L. CERDO ARCHITECTVS
iscrizione che è ripetuta e meglio conser-vata sul pilastro corrispondente dell’altro fornice (fig. 9), incisavi forse sul finire del sec. XV.
L’architetto fu dunque Lucio Vitruvio Cerdone, uno schiavo greco, come indica il nome Cerdone, liberato da un cittadino romano di nome Lucio Vitruvio. Il gentilizio "Vitruvio" richiama alla mente il Vitruvio Pollione maggiormente noto per i X libri sull’architettura che furono la scuola dei nostri grandi architetti del Rina-scimento, vissuto, secondo l’ipotesi più attendibile, ai tempi di Giulio Cesare e morto vecchissimo sotto il regno di Augu-sto, il costruttore dell’Arco dei Gavi certo non è da identificare con Vitruvio Pollione ma per quanto manchino elementi decisivi di prova perchè non sappiamo se il pro-nome di questo fosse Lucio, molto probabilmente è un suo liberto. Anche in tal caso ritorneremmo alla solita datazione, agli ultimi anni della repubblica, nè la grafia della firma dell’architetto e delle altre iscri-zioni che ricorderemo più avanti, si oppone a questa cronologia.

Che cos’era l’arco costruito da Vitruvio Cerdone?
Sui piedestalli di tre delle nicchie sono incisi i nomi dei personaggi ai quali erano dedicate le statue già in esse esistenti. Essi sono Caio Gavio Strabone e Marco Gavio Macrone, figli ambedue di un Caio Gavio e finalmente Gavia, figlia di Marco Gavio. Dal piedestallo della quarta nicchia è scom-parsa ogni traccia dell’iscrizione antica. Delle altre iscrizioni che un tempo erano incise nel fregio della trabeazione, sotto i timpani, e nelle quali era certo detto il motivo o lo scopo del monumento, è giunto a noi un solo frammento nel quale è ripe-tuto il gentilizio GAVI. L’arco era dunque dedicato alla gens Gavia.
Per il fatto che esso sorgeva sulla via dei sepolcri si credette che fosse un monu-mento funerario, ma la mancanza di qual-siasi luogo adatto a depositi funebri fece abbandonare questa ipotesi e si pensò a un cenotafio, cioè ad un arco in onore di illustri defunti, eretto dalla colonia oppure dalla famiglia interessata. Molto più pro-babile è l’interpretazione proposta da A. L. Frothingham, anzi si può dire che l’arco dei Gavi sia una delle più convincenti prove della geniale teoria da lui sostenuta a pro-posito di molti archi provinciali.
Questi, in gran parte, non sarebbero monumenti puramente onorari, ma monu-menti simbolici delle libertà municipali, che le colonie romane in occasione di qualche avvenimento capitale per la loro storia, generalmente la fondazione, innalzavano su una delle principali strade adducenti alla città, là dove cominciava il pomerio.
L’arco dei Gavi sorge sulla principale via di accesso a Verona, la Postumia, a 550 m. dalla porta romana detta dei Bòr-sari e cioè proprio al probabile limite esterno del pomerio, il quale, del resto, nel caso di Verona era imposto dalle condizioni del terreno. Infatti la linea dove venne costruito l’arco dei Gavi e che congiunge gli attuali ponti di Castelvecchio e Aleardi lungo l’Adigetto, segna il margine del terrazzo allu-vionale su cui sorse la città primitiva, mar-gine a sud del quale sta una notevole bassura scavata in tempo remotissimo da un ramo secondario dell’Adige. Questa linea, naturalmente forte, è forse la stessa che fortificarono i Flaviani nel 69 d. Cr., come narra Tacito (Hist. III, 10), per difen-dersi dal Vitelliani.
Tutte le circostanze topografiche con-vengono dunque benissimo ad interpretare con il Frothingham l’arco come monu-mento municipale.
Tale suo carattere pubblico è forse pro-vato definitivamente dal frammento con-servatoci dell’iscrizione principale:
LV

GAVI . CA///////////

nel primo rigo della quale sembra sia pos-sibile pensare solo a dei Curatores l(arum) v(eronensium), che sarebbero stati i dedi-canti del monumento, certo per incarico della colonia, mentre i Gavi sarebbero stati i capi militari della colonia, come i Juli a S. Remy, i Campani a Aix-le-Bains, i Sergi a Pola. L’iscrizione nel suo com-plesso doveva suonare all’incirca così:

CURATORES L(ARUM) V(ERONENSIUM)
(IN HONOREM...?...) GAVI CA.....
(DECURIONUM DECRETO)

Non deve poi stupire il trovare fra gli onorati anche una donna: giusto in questo tempo, come ci dice un’altra bella iscri-zione veronese (CIL. V, I, 3402), una Gavia Massima dotava la città a sue spese di un acquedotto e la nostra Gavia può essere stata onorata per un motivo analogo.
Tali conclusioni portano rapidamente e sicuramente a rintracciare la data della costruzione dell’arco: il 49 av, Cr. allor-chè Verona, per la Lex Julia promulgata da Cesare quando passò il Rubicone, ebbe l’ambita concessione della cittadinanza ro-mana. L’importanza dell’avvenimento, che può ben dirsi iniziasse la storia di Verona romana, giustificava davvero la costruzione dell’arco municipale e tutti i particolari tec-nici esposti sopra confortano pienamente questa datazione. Inoltre non va trascurato che Vitruvio Pollione fu architetto sotto Giulio Cesare, che anzi, con probabilità, lo seguì in alcune sue spedizioni (Vitr. de architect. II, 9, 15; X, 22, 10); nulla di più facile quindi che Vitruvio Cerdone, suo probabile liberto, si soffermasse a lavo-rare a Verona, così come il suo patrono si tratterrà poi in un altro punto del cam-mino di Cesare, a Fano, per costruirvi una basilica.
L’arco dei Gavi, simbolo dell’acquistata dignità municipale di Verona, sorse così ritualmente al margine esterno del pome-rio, mentre al margine interno venivano innalzate forse le mura, certo le porte. Delle porte contemporanee rimane infatti un avanzo interessantissimo, non nelle cosi-dette porte dei Bòrsari e dei Leoni, che, questa per intero quella in parte, sono sicu-ramente del periodo dei Flavi, ma in una porta più antica nascosta dietro quella dei Leoni (CIL, V, I, 3434), nella quale un ordine dorico purissimo, caso eccezionale nell’Italia romana, conserva il sapore schiet-tamente ellenistico, che abbiamo riscontrato nell’arco dei Gavi.

Quanto sono venuto esponendo basta a mettere in rilievo l’eccezionale valore sto-rico dell’arco dei Gavi, che si aggiunge a quello estetico già di per sè altissimo. In esso abbiamo l’arco onorario più antico che esista al mondo. A parte gli insignificanti avanzi del Fornix Fabianus esistenti nel Foro romano, l’arco di Rimini è del 27 av. Cr., quello di Aosta del 25 av. Cr. Incerta è la data dell’Arco dei Giuli a S. Remy, mentre quello dei Sergi a Pola, che si è voluto assegnare al 33 circa av, Cr., è, per evidenti ragioni tecniche, alquanto posteriore. Tecnicamente e anche cronologicamente l’arco dei Gavi si aggruppa con il tempio dorico di Cori (principio del 1° sec. av. Cr.) e con i due templi di Tivoli (pure del principio del I° sec. av. Cr.); con il Tabaladum (78 av. Cr.), il sepol-cro di Bibulo (prima metà del 1° sec. av, Cr.), il cosidetto tempio della Fortuna virile (metà circa del 1° sec, av. Cr.) e la tomba di Cecilia Metella (come il precedente) tutti a Roma, e finalmente con il tempio della Fortuna a Palestrina (principio del 1° sec. av. Cr.)
L’alta antichità assodata per l’arco dei Gavi, unita al suo schietto carattere elle-nistico e alla nazionalità dell’architetto sono nuovi importanti elementi per la questione dell’origine, almeno formale, dell’arco monu-mentale romano, e, una volta ricomposto, rappresenterà uno dei punti fissi più impor-tanti per la storia dell’architettura romana,
Ma l’arco dei Gavi vanta giustamente anche altri nobilissimi titoli di gloria: esso è stato la scuola dei grandi architetti del Rinascimento. Ho già parlato dei disegni di Antonio e di Giov. Battista da Sangallo, del Serlio, del Carrato, del Palladio, ma abbiamo ricordo sicuro che lo disegnarono anche Giov. Maria Falconetto e Michele Sammicheli e che ne trassero ricordi Jacopo Bellini e Andrea Mantegna.
Riflessi della sua composizione sembra di poter intravvedere nella cappella Gondi in S. Maria Novella a Firenze, lavoro di Giuliano da Sangallo, nell’altare della Ma-donna in S. Biagio a Montepulciano, opera di Antonio da Sangallo, il vecchio, nella cappella Strozzi fatta dal Caccina. In Santa Trinità a Firenze. Inoltre, nel 1556, il Sammicheli lo riproduceva in legno a Pa-dova in onore di Bona Sforza regina di Polonia e il Palladio ne adottava le pro-porzioni per il suo ordine composito.
Naturalmente più evidente è l’influsso dell’arco sull’arte locale veronese. Nel ‘400 e nel ‘500 le case e le chiese veronesi, per opera specialmente dei lapicidi e scultori Panteo e da Porlezza, si adornarono di bellissimi portali e incorniciature d’altare ispirate all’arco dei Gavi; nel 1542 Florio Pindemonti antenato di Ippolito, fa costruire nella chiesa di S. Anastasia un altare di famiglia che ripete in ogni dettaglio l'arco dei Gavi (fig. 10) e, all’incirca negli stessi anni, forse Pietro Alighieri figlio di Dante III, fa lo stesso nella cappella della chiesa di San Fermo, dove dovevano essere depo-ste le ossa degli ultimi discendenti diretti del grande poeta (fig. 11). Pietro Allighieri, commentatore dei libri di Vitruvio, che spesso fu identificato con l’architetto dell’arco dei Gavi, volle evidentemente che l’ammi-rato maestro, che gli aveva allietato di studi la vita, gli fornisse anche le forme per l’ultimo asilo. Lo stesso monumento risorge ora ad onorare la memoria del mas-simo fra gli Allighieri, del grande fra i grandi, singolari circostanze, quella e que-sta che legano e consacrano questo insigne ricordo della romanità alla memoria della famiglia del sommo poeta italiano.

CARLO ANTI.


NOTA BIBLIOGRAFICA - Per gli archi monumentali romani vedere: Rossini, Gli archi trionfali di Roma, Roma 1836; Gaudet, in Daremberg-Saglio, I, s. v. "ar-cas", p. 391; B. Gräf, in Baumeister’s Denkmäler, III, Monaco 1888, s. v. "Triumph- und Ehrenbögen" p. 1865 sgg.; Wöllfflin, die antiken Triumphbögen in ltalien, in Repertorium für Kunswissenschaft, XVI (1893) p. 11 sgg.; Puchstein, in Pauly-Wissowa’s Real Enciclopädie, II, 1, 1895, p. 603 sgg.; Chr. Hülsen. zu den römischen Ehrenbögen, in Festschrift su Hirschfelds 60tem Ge-burtstage, Berlino 1903, 423 sgg.; E. Löwy, zur Her-kunft des trimphhögens, ibid, p. 417 sgg.; A. L. Fro-thingham, a revised list of roman memorial and trium-phal arches, in Amer. Journ. of Arch. VIII (1904) p. I sgg,; Frothingham, de la vèritable signification des mo-numents romains qu’on appelle "Arc de triomphe", in Rev. Arch. 1905, II, p. 216 sgg.; J. Durm, Baukunst der Römer, Stoccarda 1905, p. 718 sgg.; C. D. Curtis, Roman monumental arches, in Suppl. Papers of the amer. Sch. of class. St. in Rome, II (1908) p. 26 sgg.; G. Spano L’origine degli archi onorari e trionfali romani, in Neapolis, I (1913) p. 144 sgg.; Fr. Noack, die Baukunst des Altertums, tvv. 130, 145, 155, 191; Frothingham, The terri-torial arch. in Amer Journ. of arch. XIX (1915) p. 155 sgg.; L. Mariani, Gli archi trionfali romani, in Boll. Ass. arch. romana, VIII (1918) p. 4 sgg.; R. Cagnat V. Chapot, Manuel d’arch. Romaine, Parigi 1917, p. 74 sgg. Sull’arco dei Gavi in particolare, oltre quasi tutte le opere citate sopra e i numerosi storici e antiquari Veronesi dal XV al XVIII sec., per i quali basti citare: Sc. Maffei Museum Veronense, Verona, 1749, vedi specialmente R. Buttura, Notizie del Cenotafio denominato Arco dei Gavi, Milano 1845; O. Perini L’arco dei Gavi, in Arc. St. veronese, I, (1879) p. 63 sgg,; O. Pinali, Il Cenotafio dei Gavi, ibid. VIII (1883) p. 256; G. Biàdego, Nuovi documenti sull’arco dei Gavi, in Arc. Veneto, ser. Il, XXIX, 1(1885); Biàdego, Verona, Bergamo 1909, p. 143; Frothingbam, Roman cities in northern Italy and Dalmatia, Londra 1910, p. 251 sgg.

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