IL TEMPIO DELL'ITALIA ANTICHISSIMA.
Agli albori del VI secolo a. C. i popoli dell’Italia Centrale
cominciarono a sentire il bisogno di onorare le divinità, da
essi adorate, non più soltanto con are o con boschi, ma con veri
templi. Il loro territorio era allora frazionato tra molti popoletti
autonomi; ma su tutti, da Bologna a Capua, esercitava il dominio, spesso
politico, sempre culturale, quello che primeggiava per cultura e potenza,
l’Etrusco, misterioso tuttora di origini e di linguaggio, straordinariamente
amante delle arti belle.
I modelli dei templi furono ellenici; perch'è già da tempo
l’Italia Centrale era sotto l’influenza delle civiltà
del Mediterraneo orientale, da dove provenivano gli avori e le oreficerie,
i bronzi e le terracotte. La fondazione poi delle colonie greche dell’Italia
meridionale e di Cuma specialmente, dal cui alfabeto derivarono tutti
quelli dei popoli italici, attivò sempre più le relazioni
tra Italia e Grecia. In breve in tutta l’Italia centrale sorsero
dunque numerosi edifizi, che, come le regge ora sparite, come le ricche
tombe, furono decorati di opere d’arte, per onorare il nume, per
rallegrare i fedeli.
Ricerche erudite hanno permesso di studiare gli avanzi di questi templi,
ricorderò specialmente gli scritti del Rizzo, del Della Seta
e della signora Strong (1) che illustrarono quelli esistenti nel Museo
Nazionale di Villa Giulia in Roma, del quale ho l’onore di avere
fa direzione. Nel grande istituto romano infatti l’operosità
del Barnabei, del Cozza, del Mengarelli, gli scavi eseguiti, al tempo
della direzione Colini, a Signa e a Veio hanno riunito un insigne complesso
di monumenti del genere, quale nessun altro museo può vantare.
Ed è appunto l’aver constatato nel guidare architetti italiani
e stranieri attraverso le sale dove le collezioni sono esposte, quanto
poco siano note al gran pubblico, nel quale l’ammirazione profonda
è spesso unita alla maraviglia per la novità dei motivi
architettonici e ornamentali, che mi ha spinto a scrivere questo breve
articolo, per lo scopo di dare ai lettori di questa rivista, destinata
specialmente ad artisti fortunatamente nel pieno fiore della loro operosità
creatrice, notizia di monumenti che possono essere fonte di ispirazione
per loro, che possono mostrar loro come i nostri antenati di duemilacinquecento
anni fa fossero dotati di squisitissimo senso estetico. Quindi nessuna
dotta discussione sull’argomento mi occorrerebbe un volume e basta
rimandare agli scritti citati, dove è segnata la precedente bibliografia;
e neppure una trattazione di tutti gli avanzi notevoli; ma un rapido
esame di due dei complessi più insigni del Museo, il tempio della
Mater Matuta che sorgeva a Conca, presso Porto d’Anzio, nel sito
dell’antica città volsca di Satricum, e uno di quelli della
ricca Falerii, ora Civita Castellana, ai Sassi Caduti, dedicato probabilmente
a Mercurio. Templi nei quali, come negli altri analoghi, greca e precisamente
ionica è la pianta, ionici sono i motivi; ma deve alcune caratteristiche
sono speciali, tanto da differenziarli dalle opere nate sul suolo ellenico,
sia che artisti greci adattassero la loro arte ai gusti italici, sia
come è assai più probabile, che artisti italici, allevati
allo studio dell’arte ellenica, ne sapessero assimilare le forme,
trasformandole però in modo di dar loro appunto una caratteristica
nostra.
Una particolarità va subito rilevata: lo straordinario impiego
della terracotta. Di pietra infatti erano la platea, o al più,
le colonne e le pareti del santuario; ma la gabbia della trabeazione
era di legno e tutta rivestita di lastre di terracotta dalla vivace
policromia.
Da una nuova fotografia di un monumentino del Museo, illustrato dottamente
dal Pizzo, ma finora mai riprodotto, un tempietto fittile trovato a
Nemi che ben completa la famosa descrizione di Vitruvio (IV, 7, 1) la
quale si riferisce probabilmente al tempio di Ceres, Liber o Libera,
costruito a Roma ai principio del V sec. a. C. vi troviamo la caratteristica
della trave maestra sporgente all’esterno (columen), adorna alla
sua testata di un bassorilievo di terracotta, e le due travi laterali
(matuli), posate sui capitelli delle colonne e pur esse decorate.
La gabbia, coperta di lastre fittili (antepagmenta) lasciava un incavo
triangolare nel frontone, vuoto e decorato con un piccolo tetto con
le ante fisse delle tegole terminali. Solo nel tipo ellenistico cominciano
i gruppi di sculture frontonali.
È noto che questo tempio italico ebbe un’evoluzione e bene
il Della Seta ne fissò tre fasi, una arcaica della metà
del VI secolo, una seconda, immediatamente seguita alla prima negli
ultimi decenni del VI e nella prima metà del V secolo e una infine
posteriore, sorta dopo che, per più d’un secolo, per ragioni
economiche e politiche, eran rimasti interrotti i rapporti tra l’arte
greca e l’Italia centrale.
Questa terza fase, dagli ultimi decenni dal IV secolo al II, ha i caratteri
quindi dell’arte greca del tempo.
Tali fasi poi si distinguono, oltre che per le forme estetiche e per
differenza di tecnica e di policromia, anche per una varia scelta delle
figure che adornano i fregi, i frontoni, le antefisse, sinchè
col II secolo la pietra e il marmo cominciano a sostituirsi, nell’Italia
arricchita dalle conquiste, al legno e alla terracotta e, mentre Roma
e le grandi città si riempiono dei sontuosi edilizi di cui ammiriamo
ancora le rovine, nelle campagne e nei santuari dei centri ormai agonizzanti
rimangono i vecchi venerandi templi primitivi. I quali alla loro volta
nella loro vita spesso secolare ebbero talvolta restauri, come quello
dei Sassi Caduti a Faleri che ebbe la fase arcaica e quella ellenistica
e quello di Conca che ebbe prima della fase arcaica ivi floridissima,
una fase antichissima ionica.
Di questa fase primitiva, della quale la particolare caratteristica
sono le zone adorne di bassorilievi, corse di cavalieri, banchetti o
simili, espresse con grande arcaicità di forme, non è
il caso di dare qui esempi. Ne presento invece alcuni della seconda
fase, che, come ho detto, fiori dalla fine del VI alla metà del
V sec. avanti Cristo.
Eccone uno inedito del tempio dei Sassi Caduti sono grandi lastre di
rivestimento della trabeazione. In alto una baccellatura, poi tra essa
e il toro, invece del bassorilievo della prima fase, un meandro, sotto,
una serie di palmette rovesciate e di fiori. Queste lastre ripetute
e fatte sulla stessa forma correvano lungo tutta la trabeazione, ad
essa fissate con chiodi in modo di dare al legno della trave protezione
e singolare ornamento. I vivaci colori della policromia, rosso, bianco
e nero, ancora conservatissimi, spiccavano sul cielo.
Notevole la stilizzazione degli elementi vegetali, passati a formare
un bellissimo ornato; solo nella tegola terminale, insigne e unico esemplare
del genere, l’artista con due grandi volute, con un fiore espresso
naturalisticamente, con vere foglie, ha creato un motivo caratteristico
e assai originale.
Questa varietà nella stilizzazione degli elementi vegetali si
pub osservare in un’altra lastra dello stesso tempio, riprodotta
a pag. 6 che conserva due degli antichi chiodi originali e che alterna
le palmette con bocciuoli, ma specialmente in tre lastre sinora non
pubblicate del tempio della Mater Matuta di Conca, di cui riproduco
solo la parte inferiore, mentre in alto presentano anche esse una baccellatura.
Ecco le palmette aprirsi vigorose come nei bei vasi attici a figure
rosse e archetti unirle ad altre palmette e altre trasformarsi in ventagli,
alternate da bocciuoli sormontati da fiori di loto e fiori di giglio,
elementi tutti variamente riuniti con una fantasia, con un gusto, con
un’armonia che si ritrova solo nei nostri più grandi artisti
del Rinascimento.
E, tornando al tempio dei Sassi Caduti, ecco una lastra di una grande
fascia (2) (pag. 8) dove i motivi sono gli stessi, ma la decorazione
è ravvivata da elementi vegetali, liliacei, a fiori campanulati,
lastra che si può datare ancora al V secolo; mentre certo ad
essa si ispirò l’artista che nel III secolo avanzato restaurò
il tempio. Il confronto è istruttivo e perciò la lastra
più recente sinora medita è stata riprodotta vicino all’altra
da essa imitata. Tutti gli elementi sono a rilievo, persino il meandro
della fascia mediana e, mentre sostanzialmente identica è la
fascia inferiore, la superiore alle palmette alterna piccole graziosissime
teste femminili, e in basso e aggiunta una serie di roselline. Opera
dunque meno vigorosa delle arcaiche, ma piena della grazia infinita
del nostro barocco.
Altre parti della decorazione assai belle, finora non furono rese note
al pubblico, così cornici terminali, traforate, di cui a pagina
11 e 10 presento un bell’esemplare arcaico di Conca e uno ellenistico
che si può datare dal III al I secolo, di Falerii con una gorgone
e palmette, e così pure l’originale rivestimento di trabeazione
dello stesso edificio e dello stesso periodo, dove nella grande voluta
sono comprese teste di Gorgone e di mostri maschili e dove sono ben
riuniti l’elemento animale e il vegetale. Nella pag. 11 poi è
dato un frammento della fase arcaica, con palmette, forse rivestimento
di porta, come quello riprodotto alla fine dell’articolo, ambedue
dello stesso tempio dei Sassi Caduti, di una porta del quale è
certo la bella decorazione (pag. 12) costituita di piccole lastre rettangolari
decorate di nastri a stella, e palmette agli angoli, frammento questo
del restauro del III secolo.
L’economia del lavoro mi impedisce di parlare della pianta di
questo tempio che spesso presentò le tre celle, per una triade
divina, come quello Capitolino a Roma, terminerò quindi ricordando
alcuni degli dementi dove appare la figura, pur riserbandomi altra volta
di trattare delle sculture frontonali. Così del tempio di Conca
(3) vicino alla elegantissima antefissa con una sola palmetta, ecco,
anche esse del periodo arcaico, le belle antefisse con Sileni e Menadi,
dove si canta il poema ingenuo dell’Amore agreste (4), mentre
già più volte pubblicato è il grandioso acroterio
centrale del tempio di Faleri (5), dove in una grande voluta, ora in
parte mancante, è un gruppo vivacissimo di guerrieri combattenti.
Ho già ricordato la policromia di queste terrecotte, spesso mirabilmente
conservata. Presento in tavola un eccellente acquarello del bravo pittore
Odoardo Ferretti, del Museo di Villa Giulia, fedelissima riproduzione
dell’acroterio centrale di un altro insigne santuario di Faleri,
celebre pel frontone con Apollo, creazione di un grande artista della
fine del IV secolo.(6) Le belle linee della palmetta, la sobria policromia,
dànno una perfetta idea di quest’arte antichissima.
Così decoravano i loro santuari i nostri padri e noi sentiamo
tutta la venerazione che per essi avevano gli spiriti magni di Roma
e comprendiamo il dolore di Catene il Censore, quando le nuove forme
più ricche, ma meno suggestive vennero a cacciare dal loro posto
le ingenue opere di terracotta.
La scienza archeologica con infinito amore sta ridonando questi fragilissimi
monumenti alla ammirazione del mondo. Possano i nostri artisti, nell’inesauribile
vitalità della stirpe italica, riprendere alcuna delle vecchie
forme per la gioia di noi viventi, decorandone le nostre case e i nostri
pubblici edifizi.
G. Q. GIGLIOLI.
(1) G. E. RIZZO, Di un Tempietto fittile di Nemi e di altri monumenti
inediti relativi al tempio italico-etrusco, nel Bollettino della Commissione
Archeologica Com., di Roma, 1910, pp. 201-321; 1911, pp. 23-67; A. DELLA
SETA, Museo di Villa Giulia, 1918, pp. 120 e segg.; Mrs. S. A. STRONG,
The architectural decoration in terracotta from early latin temples
in the Museo di Villa Giulia, in Journal of roman studies, IV, 1, pp.
157 e segg.
(2) DELLA SETA, op. cit., pag. 171, tav. XXXVI.
(3) RIZZO, scr, cit., la Bali. Com. 1911, p. 30; STRONG, p. 179.
(4) DELLA SETA, op. cit., pp. 264-65, tav. L, LI.
(5) RIZZO, scr. cit., tav. XIII; DELLA SETA, op. cit., p. 168, tav.
XXXIV.
(6) DELLA SETA, op. cit., p.197; disegni assai insufficienti e schematici
furono pubblicati dal COZZA in Not. Scavi, 1888, p. 419, Fig. 2 e in
TAYLOR-BRADSHAW, Architectural terracottas from two Temples al Falerii
Veteres, in Papers of the British School at Rome, 1916, tav. II. Il
disegno in DURM, Die Baukust der Etrusker und Römer, tav, a p.
75, s. travisa del tutto l’originale.